Paolo
Cugini
Ho letto in questi giorni un libro su
consiglio di un amico, che ho trovato interessante e del quale voglio
condividere alcune riflessioni. Il libro in questione è: Diario di scuola. L’autore Daniel Pennac cerca di descrivere la
scuola dal punto di vista degli alunni, ma non di qualsiasi alunno però, ma
degli alunni così detti somari (lui stesso li chiama così e lo stesso Pennac si
auto-include nel libro in questa categoria). Lungo le pagine del libro si
coglie una velata critica non solo al sistema scolastico, che sembra fatto
apposta per privilegiare i migliori, quelli che capiscono tutto al volo, ma
anche ai professori, soprattutto a un tipo di professore: l’assente.
Secondo Pennac se ci sono tanti
“somari” a scuola, soprattutto nelle scuole dei quartieri o delle zone più
depresse delle città, è anche dovuto al modo sbagliato del professore di stare
in classe. Citando un’esperienza positiva di una classe di studenti attenti
alla lezione da lui stesso sostenuta, riporta la risposta della professoressa
dinnanzi al suo stupore: “Quando sono con
loro o alle prese con i loro compiti, non sono altrove”. Parole semplici
che rivelano, però, una verità estremamente profonda. Commenta Pennac: “E’ immediatamente percepibile la presenza
del professore calato appieno nella propria classe”.
C’è un modo di essere presenti nella
classe che non riesce a percepire le differenze, le reali difficoltà dei
ragazzi. Questo discorso vale anche a tutti i livelli educativi: vale per un
padre, una madre, ma anche per un prete. Quando siamo presenti fisicamente, ma
assenti mentalmente, facciamo dei danni. L’educazione ha bisogno della
presenza, dell’essere presenti fisicamente e mentalmente, per poter ascoltare,
capire i problemi e pensare alle strategie necessarie da mettere in atto.
Presenza significa attenzione all’altro, capacità di ascolto, sensibilità per
colui che ho dinnanzi.
Siamo presenti agli altri quando stiamo bene
con noi stessi. Forse è questo il cuore del problema. Spesso i discorsi che
ruotano attorno al mondo della scuola si riducono ai problemi economici, alle
scarse possibilità economiche, agli stipendi troppo bassi dei professori. Senza
dubbio si tratta di problemi reali, che esigono risposte concrete. C’è, però,
qualcosa di più profondo sul quale vale la pena riflettere e cioè sul ruolo del
professore non solo nell’ambito scolastico, ma nella società nel suo insieme.
Per poter essere presenti agli
studenti nell’aula di una scuola il professore ha anche bisogno di condizioni
specifiche. Come si fa ad essere presenti ad ogni studente e seguire ed essere
attenti ai più carenti in un’aula sovraffollata? Oltre a ciò, com’è possibile
essere in grado di dare attenzione ai singoli studenti di una classe
multietnica, con la presenza di diversi studenti di differenti etnie e culture?
Che competenze sono necessarie per svolgere il ruolo d’insegante in un contesto
così complesso?
Credere che l’educazione scolastica
sia il centro di una società, significa avere il coraggio ad andare in due
direzioni. La prima consiste nel creare le condizioni di possibilità per
esercitare degnamente l’arte dell’insegante. Questo compito spetta ai
governanti di un paese. L’altra, forse la più difficile, dovrebbe consistere
nel creare percorsi formativi per i futuri insegnanti, che non si riducano ad
una mera trasmissione di contenuti per raggiungere un’idoneità formale
all’insegnamento. C’è bisogno d’ insegnanti che percepiscano la propria
funzione nella società come una vocazione, un talento. Cogliere ciò significa
mettere a disposizione itinerari per discernere la reale attitudine
all’insegnamento. Discernere nell’insegnante quei valori che sono fondamentali
nella costruzione di una civiltà adulta che esige giustizia, uguaglianza,
dignità della persona umana. Più che di nozioni, oggi più che mai la scuola ha
bisogno di umanità, di persone umane, permeate da quella dignità che non si
apprende nei banchi di una scuola, ma che è il frutto di scelte personali
orientate al bene della persona.
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