martedì 24 febbraio 2015

LO SGUARDO DEGLI ALTRI







Paolo Cugini

Lasciarsi guardare significa accettare di essere interpretati in modo diverso e poi farsi restituire il contenuto di questo sguardo. Lasciarsi guardare, non chiaramente a livello estetico, ma accettare la narrazione dell’altro su di me, il suo modo di vedermi, di considerarmi, di pensarmi. Prendere sul serio la narrazione altrui su di me, sulle cose che ho sempre visto allo stesso modo: è un cammino di maturazione. Accettare, accogliere lo sguardo dell’altro significa accettare che non c’è solo il mio sguardo, la mia interpretazione, ma che esistono una pluralità d’interpretazioni. Lo sguardo dell-altro come necessità per cogliere la verità su me stesso, per uscire dalle auto certezze, le autoaffermazioni, che non sono altro che delle chiusure, delle dichiarazioni implicite di non voler cambiare. L’altro mi coglie in modo differente di come mi vedo, coglie spesso e volentieri quegli aspetti che non vedo di me stesso, che nascondo a me stesso, perché forse mi fanno male. L’altro, in questa prospettiva, diviene una minaccia alle mie certezze, a ciò che con fatica ho conquistato su me stesso, a quegli equilibri interiori che mi permettono di difendermi dagli altri, dagli sguardi indiscreti degli altri. Soprattutto, però, lo sguardo dell’altro diviene una possibilità di crescita, una possibilità di svolgere un cammino nuovo, che va colto per non rischiare di morire soffocati nelle proprie certezze e ingabbiati sulle nostre identità asfittiche.

 La pluralità d’interpretazioni, poi, non conduce immediatamente sul cammino del relativismo, come solitamente si pensa. Pluralità di opinioni, di modi di vedere lo stesso oggetto, non significa negare la verità oggettiva, ma significa affermare che la verità è tale perché non può essere afferrata da un’unico sguardo, da un’unico punto di vista. La verità è tale perché è plurale. Non si tratta di negare il proprio punto di vista per accogliere quello dell’altro, ma di mettere i vari punti di vista uno accanto all'altro. E poi non si tratta di fare una sintesi, di prendere il meglio di ogni punto di vista o le differenze dei punti di vista. Si tratta di ascoltare, di porre accanto. Per questo il principio di non contraddizione non funziona nel cammino di comprensione della realtà e della verità. Certamente in una cultura come quella Occidentale che si è affermata sull’auto-convinzione del proprio modo di vedere, sulla garanzia assoluta della propria narrazione, sul modo arrogante di porsi nei confronti delle altre culture, non ha molta sensibilità nei confronti degli sguardi diversi, perché li considera inferiori e, spesso e volentieri, ridicoli, insignificanti. Questa arroganza culturale, che si spinge su tutti i piani, incide molto anche nella formazione delle persone. Facciamo fatica non solo a metterci nei panni degli altri, ma anche ad accettare la narrazione dell’altro, perché la riteniamo inferiore e, per questo motivo ci sentiamo in diritto d’imporre la nostra, il nostro sguardo. C’è tanta violenza nelle nostre relazioni quotidiane perché siamo stati formati (o sformati?) a sentirci superiori, a scartare a priori la narrazione di coloro che la nostra cultura ritiene inutile e inferiore. Il problema, a questo punto è sapere e capire se siamo condannati dalla nostra arroganza o se abbiamo ancora una possibilità di uscire dalla gabbia culturale che ci condanna al narcisismo e, di conseguenza, alla solitudine.

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