domenica 1 febbraio 2015

INCARNAZIONE E PASSIONE NELLA POETICA DI CHARLES PEGUY






Paolo Cugini

 “Il presente è il punto di passata del tempo”. Questa definizione contiene lo stupore che ha accompagnato Péguy nella contemplazione del mistero dell’Incarnazione. Péguy in certi passaggi della sua opera sembra quasi sconvolto dal constatare che, proprio dove di solito si trova l’umanità, con tutto ciò che di finitezza e miseria porta con se, si è incarnato il verbo. L’incarnazione è un evento che è accaduto nel presente. Come tutti gli eventi anche l’Incarnazione ha voluto sottostare alla stessa legge che è la legge del tempo e della storia. Nel presente finito è passato l’eterno e l’infinito. Péguy ci invita a cogliere lo straordinario del mistero dell’incarnazione, non nell’inconsueto, ma nella consuetudine della vita di ogni giorno. “Non ha voluto essere attestato, ricordato mediante un miracolo costante. Mediante un miracolo permanente. Non ha voluto servirsi di mezzi diversi da quelli dell’uomo e della storia e della memoria dell’uomo”. La vita di Gesù è la storia del figlio di Dio, ma che a differenza di quello che l’umana comprensione poteva aspettarsi, può essere raccontata perché, in fin dei conti è la storia di un uomo. E’ “la vita di uno santo in testa alle altre, ma la vita di un santo nonostante tutto, come le altre fra le altre”. Il Figlio di Dio si è incarnato in un tempo, in un luogo, in mezzo ad un popolo. Si è lasciato guardare, toccare, ascoltare. Il Figlio di Dio è vissuto come un uomo tra gli uomini e, in questo modo, ha permesso che la sua vita fosse raccontata. Gesù si è consegnato allo storico, all’esegeta, al critico: ha permesso all’intelligenza umana di penetrare da una particolare angolatura il mistero. Nei Vangeli, dunque, non ci troviamo di fronte a delle profezie compiute in modo determinato, come si esegue un’equazione matematica. La realizzazione delle profezie è passata tramite le libere scelte del Figlio di Dio che si è fatto uomo e che nella pienezza di questa libertà poteva anche non realizzarle. Il mantenimento delle promesse operate da Gesù e che noi leggiamo nei Vangeli, non stanno solamente in una determinata relazione cronologica. La profezia e il mantenimento sono due momenti e, secondo Péguy, non si può nemmeno affermare che uno stia all’inizio o l’altro al termine di una serie di eventi. Occorre recuperare la profondità e la ricchezza del senso della Parola rivelata, collocando il mantenimento della profezia nel luogo in cui si realizza: il presente.  Se è vero che il presente non è inerte non è solo spettatore e testimone passivo di eventi che sarebbero in ogni modo accaduti, allora l’Incarnazione del Verbo nella storia assume significati inattesi. Occorre prima di tutto abituare la nostra mente a non considerare il presente come l’ultimo punto di una linea. In questa prospettiva, infatti, è facile cadere nel determinismo e non aspettarsi nulla di nuovo da ciò che è già stato preparato in precedenza. Il presente come evento terminale di una sequenza non può essere che portatore del passato del già conosciuto. Se, invece, il presente “è il primo punto non ancora impegnato, non ancora formato, il punto ancora in corso di acquisizione, in corso di iscrizione, la linea mentre la si scrive e la si iscrive, il punto che non ha ancora le spalle afferrate nelle mummificazioni del passato”, allora il discorso cambia radicalmente. Il compimento diviene infatti, ad assumere caratteristiche nuove rispetto alla profezia, poiché porta con sé una pianezza di novità, di fecondità, che non sono altro che la realizzazione di un evento libero in un momento presente. Il Verbo incarnato è la condivisione divina della condizione umana tranne, naturalmente, il peccato; condivisione assunta a partire dall’inquietudine che il presente porta con sé. Lo scarto tra profezia e compimento, tra i profeti e l’ultimo dei profeti nel senso sopra indicato da Péguy, è possibile delinearlo riflettendo intorno agli eventi che hanno caratterizzato la Passione di Gesù. E’ in questa circostanza che tutta la creazione è rimasta con “il fiato sospeso” in una situazione di universale attesa nei confronti del gesto libero di Gesù dinnanzi alla propria morte. Il senso della libertà in cui si è adempiuto il mistero dell’incarnazione, consiste nel fatto che l’ultimo dei profeti non era rigorosamente tenuto a rispettare le attese e poteva, se voleva, disimpegnarsi. “Poiché egli era la chiave di volta. E i secoli eterni essi stessi attendevano, insieme, (nello stesso tempo), prima, dopo, perché sono eterni. L’eternità stessa era sospesa”.

Tutto sembra partecipare in spasmodica attesa a ciò che Gesù farà nei confronti della propria morte. Accetterà la volontà del Padre (“che era anche la sua; da tutta l’eternità era propriamente la sua”)? E’ vero che Gesù stesso aveva annunciato, nei tre anni di predicazione, la propria morte, ma “sapere, amico mio, come si vede bene, in questo esempio imminente, su questo esempio singolare che c’è un abisso tra sapere e fare, tra sapere la morte, (la propria morte), e passarci”.

Non è possibile accostarsi ai brani della passione di Gesù presenti nei Vangeli, come ci si accosta ad un brano di letteratura. Non vi è in essi la narrazione di una morte eroica, ma di una morte reale, drammatica. Gesù ha vissuto la propria morte con quella serenità e con quella pienezza che ha caratterizzato tutta la sua esistenza. Gesù dinnanzi alla volontà del Padre si stava preparando a subire la morte comune, la morte di tutti gli uomini.  E’ in questa circostanza che si consuma e allo stesso tempo giunge pienezza il dramma dell’umanità del Figlio di Dio: “Transeat a me… Pater mi, si possibile est, transeat a me calix iste”. E’ questa la preghiera che echeggia in tutto il creato e che ha fatto temere il peggio. Un pesante presente ha sorretto l’angoscia carnale della atroce preghiera.

Mentre tutti i testi vanno nella stessa direzione del compimento della salvezza, ve n’è uno – quello della preghiera di Gesù nell’orto degli Olivi – che va nel senso opposto. Nella settimana di Pasqua i cristiani celebrano il ricordo della preghiera di Gesù nell’orto degli Olivi, in un contesto di festa come se non le si volesse ascoltare, meditare. Péguy sottolinea l’imbarazzo che si prova quando si accenna alla debolezza che sembra contrastare con l’idea di Dio come Essere eterno, immutabile, trascendente. Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, ha sposato integralmente la condizione umana, vivendo sulla propria carne i limiti di una tale condizione, che ha nell’esperienza della morte e il suo culmine. Gesù non ha semplicemente fatto finta di essere uomo ma, “nella sua propria carne di uomo, davanti alla morte, istantaneamente giungeva a conoscere ciò che è la debolezza e l’infermità di ogni carne d’uomo”. E’ questa la confidenza terribilmente umana che Gesù comunica ai suoi apostoli nell’ora della prova, che non può essere, dunque, talmente travisata da presentarla come un insegnamento distaccato. Lo stesso si deve sostenere per la preghiera che Gesù pronuncia nell’orto degli Olivi e che Péguy collega alla preghiera che Gesù stesso aveva insegnato agli apostoli durante il discorso della montagna. La dolce cadenza ritmica del Pater noster che fluiva dalle labbra del Redentore in quel giorno sul monte, circondato dall’affetto degli apostoli è, ora, nel contesto della notte tragica della Passione diventa un Pater mi.

 Occorre riconoscere il mistero dell’Incarnazione nell’integralità del sodalizio che Dio ha creato con l’uomo senza tralasciare nulla: nascita, storia, malattia, sofferenza, morte. Se, infatti, avesse inaugurato “un sistema con delle eccezioni, una sola eccezione, tutto sarebbe perduto […] perché tutto il mondo vorrebbe entrare, tutto il mondo vi si precipiterebbe”. Occorreva che il rischio della sofferenza e della morte fosse mantenuto nella sua drammaticità altrimenti l’eccezione avrebbe costituito una prova troppo eclatante. Il vero senso del miracolo dell’Incarnazione va dunque colto in questa situazione di radicamento terreno, perché pone l’uomo nella condizione di cogliere la continuità della prima creazione – fiat lux – con la seconda creazione – fiat voluntas.
 
L’intento di Péguy consiste nell’indicare all’uomo del suo tempo, l’uomo moderno, talmente preso dai propri meccanismi di conoscenza scientifica da non permettere alcuna eccezione al sistema, la via giusta da seguire per scoprire il senso della realtà. E’ una via poco rumorosa, ma silenziosa che costantemente e fedelmente segue i sentieri tortuosi dell’uomo. L’Incarnazione del Verbo, agli occhi di Péguy, realizzata nella passione, ci rivela l’intimità stretta di Dio con l’uomo e il cammino che quest’ultimo deve compiere per arrivare a Lui.

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