Paolo Cugini
“Il presente è il punto di passata del tempo”.
Questa definizione contiene lo stupore che ha accompagnato Péguy nella
contemplazione del mistero dell’Incarnazione. Péguy in certi passaggi della sua
opera sembra quasi sconvolto dal constatare che, proprio dove di solito si
trova l’umanità, con tutto ciò che di finitezza e miseria porta con se, si è
incarnato il verbo. L’incarnazione è un evento che è accaduto nel presente.
Come tutti gli eventi anche l’Incarnazione ha voluto sottostare alla stessa
legge che è la legge del tempo e della storia. Nel presente finito è passato
l’eterno e l’infinito. Péguy ci invita a cogliere lo straordinario del mistero
dell’incarnazione, non nell’inconsueto, ma nella consuetudine della vita di
ogni giorno. “Non ha voluto essere
attestato, ricordato mediante un miracolo costante. Mediante un miracolo
permanente. Non ha voluto servirsi di mezzi diversi da quelli dell’uomo e della
storia e della memoria dell’uomo”. La vita di Gesù è la storia del figlio
di Dio, ma che a differenza di quello che l’umana comprensione poteva
aspettarsi, può essere raccontata perché, in fin dei conti è la storia di un
uomo. E’ “la vita di uno santo in testa
alle altre, ma la vita di un santo nonostante tutto, come le altre fra le altre”.
Il Figlio di Dio si è incarnato in un tempo, in un luogo, in mezzo ad un
popolo. Si è lasciato guardare, toccare, ascoltare. Il Figlio di Dio è vissuto
come un uomo tra gli uomini e, in questo modo, ha permesso che la sua vita
fosse raccontata. Gesù si è consegnato allo storico, all’esegeta, al critico:
ha permesso all’intelligenza umana di penetrare da una particolare angolatura
il mistero. Nei Vangeli, dunque, non ci troviamo di fronte a delle profezie
compiute in modo determinato, come si esegue un’equazione matematica. La
realizzazione delle profezie è passata tramite le libere scelte del Figlio di
Dio che si è fatto uomo e che nella pienezza di questa libertà poteva anche non
realizzarle. Il mantenimento delle promesse operate da Gesù e che noi leggiamo
nei Vangeli, non stanno solamente in una determinata relazione cronologica. La
profezia e il mantenimento sono due momenti e, secondo Péguy, non si può
nemmeno affermare che uno stia all’inizio o l’altro al termine di una serie di
eventi. Occorre recuperare la profondità e la ricchezza del senso della Parola
rivelata, collocando il mantenimento della profezia nel luogo in cui si
realizza: il presente. Se è vero che il
presente non è inerte non è solo spettatore e testimone passivo di eventi che
sarebbero in ogni modo accaduti, allora l’Incarnazione del Verbo nella storia
assume significati inattesi. Occorre prima di tutto abituare la nostra mente a
non considerare il presente come l’ultimo punto di una linea. In questa
prospettiva, infatti, è facile cadere nel determinismo e non aspettarsi nulla
di nuovo da ciò che è già stato preparato in precedenza. Il presente come
evento terminale di una sequenza non può essere che portatore del passato del
già conosciuto. Se, invece, il presente “è
il primo punto non ancora impegnato, non ancora formato, il punto ancora in
corso di acquisizione, in corso di iscrizione, la linea mentre la si scrive e
la si iscrive, il punto che non ha ancora le spalle afferrate nelle
mummificazioni del passato”, allora il discorso cambia radicalmente. Il
compimento diviene infatti, ad assumere caratteristiche nuove rispetto alla
profezia, poiché porta con sé una pianezza di novità, di fecondità, che non
sono altro che la realizzazione di un evento libero in un momento presente. Il
Verbo incarnato è la condivisione divina della condizione umana tranne,
naturalmente, il peccato; condivisione assunta a partire dall’inquietudine che
il presente porta con sé. Lo scarto tra profezia e compimento, tra i profeti e
l’ultimo dei profeti nel senso sopra indicato da Péguy, è possibile delinearlo
riflettendo intorno agli eventi che hanno caratterizzato la Passione di Gesù.
E’ in questa circostanza che tutta la creazione è rimasta con “il fiato
sospeso” in una situazione di universale attesa nei confronti del gesto libero
di Gesù dinnanzi alla propria morte. Il senso della libertà in cui si è
adempiuto il mistero dell’incarnazione, consiste nel fatto che l’ultimo dei
profeti non era rigorosamente tenuto a rispettare le attese e poteva, se
voleva, disimpegnarsi. “Poiché egli era
la chiave di volta. E i secoli eterni essi stessi attendevano, insieme, (nello
stesso tempo), prima, dopo, perché sono eterni. L’eternità stessa era sospesa”.
Tutto sembra partecipare in
spasmodica attesa a ciò che Gesù farà nei confronti della propria morte.
Accetterà la volontà del Padre (“che era
anche la sua; da tutta l’eternità era propriamente la sua”)? E’ vero che
Gesù stesso aveva annunciato, nei tre anni di predicazione, la propria morte,
ma “sapere, amico mio, come si vede bene,
in questo esempio imminente, su questo esempio singolare che c’è un abisso tra
sapere e fare, tra sapere la morte, (la propria morte), e passarci”.
Non è possibile accostarsi ai brani
della passione di Gesù presenti nei Vangeli, come ci si accosta ad un brano di
letteratura. Non vi è in essi la narrazione di una morte eroica, ma di una
morte reale, drammatica. Gesù ha vissuto la propria morte con quella serenità e
con quella pienezza che ha caratterizzato tutta la sua esistenza. Gesù dinnanzi
alla volontà del Padre si stava preparando a subire la morte comune, la morte
di tutti gli uomini. E’ in questa
circostanza che si consuma e allo stesso tempo giunge pienezza il dramma
dell’umanità del Figlio di Dio: “Transeat
a me… Pater mi, si possibile est, transeat a me calix iste”. E’ questa la
preghiera che echeggia in tutto il creato e che ha fatto temere il peggio. Un
pesante presente ha sorretto l’angoscia carnale della atroce preghiera.
Mentre tutti i testi vanno nella
stessa direzione del compimento della salvezza, ve n’è uno – quello della
preghiera di Gesù nell’orto degli Olivi – che va nel senso opposto. Nella
settimana di Pasqua i cristiani celebrano il ricordo della preghiera di Gesù
nell’orto degli Olivi, in un contesto di festa come se non le si volesse
ascoltare, meditare. Péguy sottolinea l’imbarazzo che si prova quando si
accenna alla debolezza che sembra contrastare con l’idea di Dio come Essere
eterno, immutabile, trascendente. Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, ha sposato
integralmente la condizione umana, vivendo sulla propria carne i limiti di una
tale condizione, che ha nell’esperienza della morte e il suo culmine. Gesù non
ha semplicemente fatto finta di essere uomo ma, “nella sua propria carne di uomo, davanti alla morte, istantaneamente
giungeva a conoscere ciò che è la debolezza e l’infermità di ogni carne d’uomo”.
E’ questa la confidenza terribilmente umana che Gesù comunica ai suoi apostoli
nell’ora della prova, che non può essere, dunque, talmente travisata da
presentarla come un insegnamento distaccato. Lo stesso si deve sostenere per la
preghiera che Gesù pronuncia nell’orto degli Olivi e che Péguy collega alla
preghiera che Gesù stesso aveva insegnato agli apostoli durante il discorso
della montagna. La dolce cadenza ritmica del Pater noster che fluiva dalle labbra del Redentore in quel giorno
sul monte, circondato dall’affetto degli apostoli è, ora, nel contesto della
notte tragica della Passione diventa un Pater
mi.
Occorre riconoscere il mistero
dell’Incarnazione nell’integralità del sodalizio che Dio ha creato con l’uomo
senza tralasciare nulla: nascita, storia, malattia, sofferenza, morte. Se,
infatti, avesse inaugurato “un sistema
con delle eccezioni, una sola eccezione, tutto sarebbe perduto […] perché tutto
il mondo vorrebbe entrare, tutto il mondo vi si precipiterebbe”. Occorreva
che il rischio della sofferenza e della morte fosse mantenuto nella sua
drammaticità altrimenti l’eccezione avrebbe costituito una prova troppo
eclatante. Il vero senso del miracolo dell’Incarnazione va dunque colto in
questa situazione di radicamento terreno, perché pone l’uomo nella condizione
di cogliere la continuità della prima creazione – fiat lux – con la seconda creazione – fiat voluntas.
L’intento di Péguy consiste
nell’indicare all’uomo del suo tempo, l’uomo moderno, talmente preso dai propri
meccanismi di conoscenza scientifica da non permettere alcuna eccezione al
sistema, la via giusta da seguire per scoprire il senso della realtà. E’ una
via poco rumorosa, ma silenziosa che costantemente e fedelmente segue i
sentieri tortuosi dell’uomo. L’Incarnazione del Verbo, agli occhi di Péguy,
realizzata nella passione, ci rivela l’intimità stretta di Dio con l’uomo e il
cammino che quest’ultimo deve compiere per arrivare a Lui.
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