Paolo Cugini
Non sempre ci pensiamo, ma c’è una
solitudine che fa bene all’anima, che è necessaria alla nostra esistenza.
Certamente c’è tutta una solitudine che ci fa male, che può aprire il cammino
alla disperazione e alla frustrazione, ma ce n’è un’altra che, al contrario,
può aiutarci a definire meglio la nostra esistenza, il nostro cammino. Per
comprendere meglio ciò che intendo dire prendiamo come punto di riferimento un
brano di Vangelo: Mc 1, 43s. Questo testo presenta una specie di dittico, due
figure che vivono la stessa situazione esistenziale della solitudine, ma in
maniera opposta. Da una parte, infatti, troviamo il lebbroso, che vive la
solitudine per costrizione e, dall’altra, Gesù che la vive per scelta. Il
lebbroso vive la solitudine come conseguenza del suo stato d’impurità. Dice,
infatti, il libro del Levitico: “Sarà
impuro finché durerà in lui il male; e impuro se ne starà solo, abiterà fuori
dall’accampamento” (Lev 13, 46). Il lebbroso potremmo indicarlo come il
simbolo di tutte quelle situazioni di solitudine causate dal contesto sociale e
culturale nel quale si vive, la cui tipologia è in continuo cambiamento.
Ci
sono solitudini che nascono dalla difficoltà d’inserirsi nel contesto sociale,
o altre che si producono per la difficoltà ad entrare nei meccanismi
competitivi. Forse, però, le solitudini che più feriscono e che lasciano
profonde tracce nell’anima sono quelle che nascono dai sentimenti o dalle
passioni. Quante persone separate vivono il dramma di una solitudine non voluta
e non cercata e si trovano sole a causa della decisione del partner. Quante persone,
poi, non riescono a trovare la persona con la quale condividere la propria
esistenza. Non è facile uscire da queste solitudini. C’è la solitudine degli
anziani, delle persone chiuse nei meccanismi del vizio, o a causa della
condizione economica precaria. La società Occidentale si è costruita attorno a
dei parametri di appartenenza molto rigidi, parametri culturali ed economici
che tendono a creare costantemente nuove solitudini. Certamente dietro a tante
solitudini ci sono responsabilità personali, scelte non fatte, paure e
chiusure. In ogni modo, chi entra in un percorso di solitudine fa fatica a
vivere serenamente e a venirne fuori.
Dall’altra parte c’è Gesù che viene
dalla solitudine dell’adolescenza e della giovinezza e la cerca continuamente
durante gli anni della sua attività pubblica. Per Gesù la solitudine non è un
peso o una condanna ma, al contrario, una necessità. La cerca per ascoltare il
Padre. E’ questo che lo riempie: l’amore del Padre. Lo vediamo nei momenti sia
di grande successo per le opere realizzate, che nei momenti di tensione con i
capi religiosi cercare luoghi isolati per consegnarsi alla preghiera. Per Gesù
la ricerca della solitudine, lo stare da solo significa soprattutto questo:
preghiera. La preghiera per Gesù si realizza nel dialogo con il Padre. E allora
Gesù cerca la solitudine per stare da solo con il Padre, per riempirsi del suo
amore. Gesù, quindi, non cerca la solitudine per fuggire dagli altri o dal
mondo, ma per starci con qualcosa di significativo, per poter stare nel mondo
con gli altri non in modo superficiale, ma pieno di significato.
Il lebbroso sembra accorgersi di
questa pienezza che emana la persona di Gesù, per questo si rivolge a Lui. Gesù
non tratta il lebbroso come un ammalato da curare, ma come una persona da
liberare. Si tratta, infatti, di una persona resa impura dal contesto sociale e
religioso, situazione che di fatto lo ha isolato, rinchiuso dentro una
solitudine. Che cosa fa Gesù per liberarlo? Prima di tutto lo ascolta, un
ascolto che provoca il sentimento di compassione che penetra fin dentro la sua
anima sino a condurlo verso di lui, per toccarlo e condividere la sua
sofferenza. In questo modo Gesù riesce a consegnare al lebbroso una parola che
lo libera, che lo rimette in piedi, che gli dona il coraggio di stare
nuovamente assieme agli altri e, così, realizzare pienamente la sua umanità.
Questa relazione profondamente umana
tra Gesù e il lebbroso, relazione così umana e profonda che si trasforma in
cammino di liberazione, è quello che la tradizione ha chiamato miracolo.
Rifugiarsi nel miracolismo, nell’inusitato è una fuga spirituale per non
assumere le proprie responsabilità nei confronti delle sofferenze del mondo. Il
miracolismo esasperato diviene un modo per esigere l’intervento soprannaturale
di Dio là dove Lui steso desidera che siamo noi ad intervenire. Del resto, che
uomini e donne siamo, se non riusciamo a metterci in sintonia con le persone
che soffrono, se non sappiamo ascoltarle, condividerne i dolori? La preghiera è
autentica quando ci umanizza, quando cioè ci rende tali da condividere le
sofferenze delle persone che ci sono vicine per potere consegnare loro una
parola di salvezza. Parola che riceviamo dall’alto e che ci aiuta a reinterpretare
la nostra esistenza, il nostro vissuto quotidiano affinché possa sempre di più
assumere un significato nuovo. E’ la Parola di Dio il dono che ci aiuta ad
umanizzarci, ad uscire dai cammini di morte che quotidianamente incontriamo in
noi ed attorno a noi; è questa Parola che ci offre lo strumento per dare
significato alle scelte che facciamo, un orizzonte entro il quale muoverci. E’
questa Parola che Gesù offre al lebbroso, non un semplice versetto, ma una
Parola che riesce a mettersi in sintonia con il vissuto del lebbroso, anche perché
Gesù prima di consegnargli la Parola si mette in cammino verso di Lui.
E’ di queste parole che abbiamo
bisogno. Sono queste parole che i cristiani dovrebbero saper dire al mondo, per
quel cammino di umanizzazione che il Signore è venuto ad iniziare e che lo
Spirito Santo continua ad operare dentro la storia. Questo cammino comporta l’abbandono
degli spiritualismi disincarnati per abbracciare un cammino di fede più
responsabile con se stessi e con il mondo che ci circonda.
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