TESTIMONIANZA ALL’INCONTRO NAZIONALE DELLE COMUNITA’ DI BASE IN ITALIA
PESARO 29 AGOSTO 2014
Paolo Cugini
Per costruire delle relazioni
identificandosi e riconoscendosi nella diversità occorre essere disposti a
lasciarsi decostruire, mettere in discussione. Il processo d’identificazione
necessità di un cammino di empatia e l’empatia per poter sbocciare deve essere
preceduta da un percorso nel quale avviene un processo d’inculturazione, cioè
abitare nella tenda dell’altro, per farlo divenire prossimo. Andare incontro
all’altro, prima che l’altro venga incontro a me, è stata una scelta che prima
di essere pastorale è stata allo stesso tempo esistenziale e spirituale. Ho scoperto
che non basta andare in missione per essere un missionario, ma dipende da come
vivo la missione.
Per capire l’altro occorre mettersi
in ascolto e l’ascolto dell’altro ha bisogno del mio silenzio, che non è solo
fisico, ma anche culturale. Il silenzio culturale esigito dall’ascolto
dell’altro è un cammino di sofferenza, perché silenziare la propria cultura può
significare mettere in discussione la propria identità, soprattutto quegli
elementi dell’identità elaborati dal contesto culturale di provenienza. Morire
a se stesso per fare spazio all’altro, per accoglierlo e lasciarsi accogliere.
Solo in questo modo, forse, è possibile entrare in una relazione feconda e
libera, scevra da secondi fini, da obiettivi inconsci. Tempo di morte, tempo di
silenzio, per essere disponibile a fare spazio all’altro, a ricostruire
relazioni feconde, per vincere la tentazione della manipolazione dell’altro o
della trasferenza violenta di saperi e conoscenze verso mondi, che
probabilmente non cercano. C’è tutta una violenza che viene fatta quando
persone di popoli diversi s’incontrano e dove uno dei due si sente in diritto
di dire all’altro che cos’è giusto e che cosa si deve fare. Solitamente che
avverte questo diritto di supremazia sull’altro è sempre mosso da un complesso
di superiorità più per la cultura di provenienza, che per meriti acquisiti.
Cultura di provenienza che si misura non sullo spessore qualitativo, ma sulla
quantità delle cose possedute. E’ la materia che fa la differenza e che sembra
dettare le regole del gioco, delle relazioni.
Morire a se stesso per fare spazio
all’altro esige un modo nuovo di pensare il tempo e di pensarsi nel tempo. Per
essere disposti a morire a se stessi è necessario perdere tempo, liberarsi
dall’affanno del tempo, relativizzare i propri problemi, considerare più
importante la vita dell’altro. Soprattutto, però, morire a se stessi, è un
cammino che può essere intrapreso solamente da colui che ha intuito che c’è una
vita diversa altrove e che forse quello che sono e quello che ho appreso non è
tutto e probabilmente non è il meglio.
Sono arrivato in Brasile nel gennaio
del 1999 e li ho scelto di vivere nei quartieri poveri nelle città in cui sono
stato parroco: Miguel Calmon, Tapiramutà e Pintadas. L’ho fatto dopo un anno di
morte interiore, dove ho accettato la sfida della cultura nella quale ero
entrato. Nei primi mesi di Brasile mi è stata buttata in faccia la mia
diversità e il fatto che molti elementi della mia identità non servivano molto
o a nulla. E così ho deciso di accettare la sfida, di buttarmi, di rinnegare me
stesso, il mio passato, la mia cultura, di rinunciare alla mia identità
culturale per iniziare un percorso nuovo.
Negli anni trascorsi in Brasile ho
scoperto alcuni luoghi esistenziali nei quali tutti entrano identificandosi
immediatamente e dove la diversità più che essere un ostacolo alla relazione,
ne diviene un’esigenza, una necessità per camminare meglio. Questi luoghi esistenziali sono la carità e la
giustizia.
Giustizia.
Porsi a disposizione per una cammino di liberazione politica, per risalire alle
cause della povertà attraverso una riflessione sulle cause dei mali di una
società, capire gli ingranaggi di una città malata, è stato l’obiettivo di
tanti corsi di formazione politica, sfocati nell’organizzazione del Movimento
Fede e politica. In questo Movimento sono entrati dentro tutti, sia i giovani
che i poveri dei quartieri, gli spazzini e persino gli oppressori. La
disuguaglianza sociale tocca un aspetto sul quale tutti sono sensibili: la
dignità umana.
Carità. Non
accontentarmi delle briciole, di uno guardo pietoso. Soprattutto, però non
accontentarmi di fare la carità, di porre delle distanze tra me e l’altro, il
povero, lo straniero, con della materia donata con non mi costa nulla. Mettersi
in cammino verso l’altro per abitare il suo spazio, condividerlo, significa
anche rinunciare alle proprie idee borghesi formate da un cristianesimo
individualista e narcisista, che cerca esclusivamente di mettere a posto la
propria coscienza. Venire fuori da questa mentalità di morte è molto difficile:
solo i poveri ci possono aiutare. Ci aiutano, però, se siamo disponibili a
farci aiutare.
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