sabato 15 aprile 2017

ALLA SCUOLA DELLA DIVERSITA'




IN CAMMINO VERSO LA SINODALITA’

Paolo Cugini
Non è facile pensare e decidere insieme. Non è facile perché, prima di tutto, non ci siamo abituati. Non possiamo, poi pretendere che un’istituzione come la chiesa si metta a sinodalizzare (passatemi il neologismo) dopo secoli di monologo. Che lo metta tra i suoi obiettivi è bello e simpatico, ma che lo faccia realmente è un altro capitolo della storia. Gli piacerebbe, ma non ci riesce fino in fondo. Sinodalità richiama, infatti, ad un concetto fondamentale della chiesa di Gesù Cristo, vale a dire il principio di uguaglianza, che considera tutte le persone della comunità come fratelli e sorelle. La chiesa è sinodale quando non solo ascolta tutti, ma non giudica nessuno inferiore, non mette nessuno nell’impossibilità di poter esprimere il proprio parere.  Già da queste prime battute si comprende come tra il dire e il fare, il desiderio e la realtà, ci sia molto mare in mezzo. Peter Neuner nel suo recente studio: Per una teologia del Popolo di Dio (Queriniana, Brescia 2016), mostra come già alla fine del primo secolo il termine fratello e sorella, utilizzato nelle prime comunità tra i membri delle stesse, sparisce dal linguaggio. Cipriano, infatti, nella sua prima lettera datata all’incirca nel 96 del I secolo, attribuisce il termine fratello solamente i suoi colleghi vescovi.

Per sedersi attorno allo stesso tavolo per prendere delle decisioni insieme – è questo il senso della sinodalità – occorre che nessuno si consideri superiore dell’altro. Questo è il problema. C’è una relazione tra i membri della chiesa che è venuta lentamente e progressivamente sgretolandosi e distanziandosi e ancora oggi porta il peso di questa distanza. Del resto, se uno degli interlocutori detiene il diritto di dire sempre l’ultima parola, si capisce bene come il dialogo diventi complicato. A questo proposito, sempre Neuner dimostra che la contrapposizione laici/clero non faceva parte delle origini. Infatti, il termine laos viene usato per indicare tutti i cristiani e non per indicare i laici contrapposti ai sacerdoti. “Visto in questo modo, laos e il nostro termine laico, che da esso deriva, sono per la terminologia biblica i termini onorifici più alti che possono essere dati a un cristiano”. Tutti coloro che appartengono al popolo sono laici e lo sono anche sia i ministri ordinati che color che sono dotati di un carisma particolare. In realtà, accompagnando gli sviluppi del Nuovo Testamento, la differenza a cui rimanda la parola Laos, è quella tra i credenti e i non credenti e quindi non una differenza riguardante classi diverse all’interno della chiesa. Dal punto di vista prettamente storico, il concetto di laico si è imposto in ambito ecclesiale nel III secolo. Sarà poi con la svolta costantiniana del IV secolo che la contrapposizione laici/clero non solo si confermerà, ma si radicalizzerà, anche perché i rappresentanti della chiesa riceveranno una posizione sociale onorifica. Contrapposizione che ha passato i secoli e che è giunta sino ai nostri giorni con tutto il suo peso storico che fa fatica ad attenuarsi.

 È umanamente difficile vivere la novità che Gesù è venuto a portare al mondo. Per chiamare le persone di una comunità fratelli e sorelle, per considerarli uguali, occorre compiere un cammino di conversione radicale, un cambiamento di mentalità, un passaggio da un modo di concepire la realtà ad un altro. Il Vangelo è, infatti, prima di tutto uno stile, un modo di stare al mondo, un modo di rapportarsi con gli altri. Gesù continuamente sollecita i suoi discepoli e le sue discepole ad essere differenti, a non utilizzare le stesse logiche del mondo: “tra di voi non sia così, ma chi vuole essere il primo sia l’ultimo”. Se nella vita quotidiana siamo continuamente immersi e sollecitati da logiche di potere, da relazioni di arroganza in cui ci viene sempre ricordato in modo implicito od esplicito che siamo inferiori rispetto a qualcuno che ha più potere di noi, con Gesù tutto questo non accadeva. Infatti, Il Signore metteva a proprio agio chiunque, lo faceva sentire bene, un fratello, una sorella. Molti poveri lo seguivano non solo perché faceva miracoli, ma per le parole che uscivano dalla sua bocca, per il modo inclusivo ed accogliente di manifestarsi al mondo. In Gesù nessuno si sentiva giudicato o condannato. Lo diceva continuamente lui stesso: non giudicate, non condannate, siate misericordiosi. Anche nella relazione con i peccatori Gesù ha sempre mostrato molta delicatezza. Non li ha mai accolti, infatti, buttandogli addosso il peso delle loro colpe, ma si dirigeva loro con amore e misericordia e, solo alla fine della relazione, ricordava loro di non tornare a peccare.

 Non sono dettagli da poco e non è una questione di virgole e di punteggiatura. Si tratta di capire che cos’è più importante per noi, se salvare una persona o la difesa dei valori non negoziabili. Lo diceva lo tesso Papa Francesco in questi giorni che, dinanzi ad un figlio, non ci sono valori non negoziabili da difendere. Dinanzi ad un figlio, ad una figlia non si può rimanere chiusi in un atteggiamento di durezza. Gesù è venuto al mondo e ci ha presi così come siamo, non ci ha fatto la morale, è morto per noi e ci ha indicato una via: la sua vita. Ha considerato ogni persona nella sua dignità, l’ha valorizzata per quello che era: ha dato a ciascuno di noi la possibilità di rialzarsi e riprendere il cammino. Non ha creato delle differenze di grado, non si è mai fatto servire, ma lui steso si è abbassato per servire i suoi discepoli e le sue discepole sino al punto da lavargli i piedi. Il problema viene da coloro che pensano di stare in piedi da soli, pensano di non essere mai caduti, credono di non avere bisogno di nessuno e, per questo, disprezzano la fragilità altrui, le cadute, non tollerano che si possa cadere. Contro questi perfetti ha sbattuto il muso anche Gesù. Chi nasce e cresce nella bambagia, protetto all’estremo dalle temperie del modo, non conoscendo le difficoltà reali della vita, ritiene inconcepibile la possibilità di sbagliare. Chi è stato formato dalle classi alte, quando sarà adulto riprodurrà lo stesso schema di società diviso in due: chi comanda e chi obbedisce. È brutto vedere anche questo schema nella chiesa. È poco evangelico vedere coloro che si fanno chiamare pastori, amare la distanza dal popolo, amare di essere considerati superiori, difendere a denti stretti il diritto di dire sempre l’ultima parola.

La sinodalità dice di uno stile di relazione che considera tutte le persone uguali, che non fa distinzione tra uomini e donne, bianche e neri, ricchi e poveri. Fino a quando la gerarchia della chiesa è solo maschile sarà impossibile una forma sinodale, che si regge sul principio di uguaglianza tra uomini e donne. Gesù ha dimostrato con l’esempio che è possibile costruire un cammino di sinodalità abbassandosi, mettendosi a livello dell’interlocutore, camminando con loro, condividendo le gioie e le sofferenze. Molto spesso nei dialoghi con gli scribi e i farisei Gesù raccontava delle parabole per coinvolgere i loro interlocutori affinché fossero loro stessi a trarre le conseguenze delle loro scelte. Una chiesa sinodale è possibile quando assomiglia allo stile di Gesù, che si è abbassato, si è fatto uno di noi, non aveva titoli o paramenti che lo differenziavano. Una chiesa è sinodale quando, sull’esempio di Gesù, non si mette in cattedra, ma con umiltà si mette in cammino con le persone, coinvolgendole nei processi formativi.  Sembrano dettagli da poco, invece sono importanti, perché dicono di una differenza e indicano un cammino.

In questo percorso i poveri, gli esclusi, coloro che vivono ai margini della società sono i nostri maestri, sono coloro che ci possono annunciare il Vangelo della sinodalità, sono gli unici che ci possono salvare dall’idolatria del potere, che snatura le relazioni e produce l’arroganza di chi pretende di dominare sugli altri. Ascoltare ed accogliere con tenerezza coloro che portano i segni del disprezzo sociale, può insegnarci molto. In questa prospettiva le persone omosessuali, che possiamo considerare i nuovi lebbrosi della nostra società Occidentale, hanno molto da insegnarci. Come dev’essere pesante per un cristiano LGBT pregare il Dio di una chiesa che lo tratta come malato da guarire. Eppure si riuniscono per meditare la Parola, per alimentare la speranza, per trovare conforto nel Signore della misericordia infinita, nonostante il disprezzo che ricevono anche da membri o da gruppi della chiesa. Metterci alla scuola di Gesù che scendeva dalla cattedra di Mosè, per mettersi a livello della gente, ascoltarli, accoglierli, valorizzarli e, soprattutto, per condividerne le sofferenze: è questo il percorso da compiere. La chiesa sinodale è quella che sa mettersi in ascolto del grido dei disperati, dei maltrattati dalla storia, che sa considerare ogni persona LGBT come fratello e sorella.

Oppure come dev’essere difficile per gli africani dalla pelle nera abitare in un paese di bianchi. Come dev’essere difficile per gli africani sopportare tutti i giorni l’arroganza di coloro che si sentono superiori per il fatto di avere la pelle bianca. Come dev’essere pesante per un giovane africano venire a cercare fortuna nella terra di coloro che da secoli stanno devastando i loro paesi, sfruttando vergognosamente le loro risorse, ammazzando i loro bambini, stuprando le loro donne. Come dev’essere gravoso guardare negli occhi gli uomini bianchi che per il fatto di essere nati con la pelle bianca si sentono in diritto di guardare tutti dall’alto in basso, animati da un complesso di superiorità che non lascia spazio alle differenze di manifestarsi alla pari.  Ascoltare queste sofferenze, che provengono dal profondo dell’anima, ascoltare il male che da secoli subiscono per il semplice fatto che sono nati così, ci può aiutare ad uscire dalla schiavitù del complesso di superiorità e capire finalmente, che siamo tutti fratelli e sorelle e che la dignità più grande che abbiamo è quella di essere figli e figlie di Dio, amati da un unico Padre.
Sinodalità significa abitare la pluralità e questo è possibile solamente se accettiamo la differenza come elemento costitutivo del progetto di Dio. È lui, infatti, il colpevole! È Lui che ci ha fatti diversi e ci ha chiamati all’unità. Nella comunità cristiana, specchio della Trinità, l’unità non s’identifica con l’uniformità, ma esige la diversità. Il Vangelo, in questa prospettiva, è il miglior collirio che cura le nostre rigidità, che lenisce le nostre durezze, che ci porta ad accogliere l’altro per quello che è, liberandoci dalle nostre precomprensioni culturali. Evangelizzare le culture significa fare in modo che la novità del Vangelo contamini positivamente ogni aspetto della realtà che ci circonda e la trasformi in amore. Lasciarci contaminare dall’amore di Dio che si è manifestato nella persona di Gesù Cristo significa seguire il suo cammino di abbassamento, di svuotamento per fare spazio a tutti.


9 commenti:

  1. Riflessione molto bella, grazie! Abbiamo bisogno come l'ossigeno di fare entrare il Vangelo nei nostri tessuti, nel nostro modo di pensare, che è tendenzialmente egoistico...

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  2. GRAZIE Paolo per questa splendida riflessione. Mi sono commosso..... E' tutto vero: siamo esattamente come ci hai descritto. Quindi DOBBIAMO cambiare dentro per poterci definire cristiani (seguaci di Cristo) ma dobbiamo farlo anche per poterci chiamare uomini e per cambiare la Chiesa della quale siamo parte. Con MOOLTA pazienza. Mi sono vergognato rivedendomi in tutti i peccati e in tutte le prevaricazioni che hai evidenziato.
    GRAZIE Paolo

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  3. Lo stile della vita sinodale per la Chiesa è come lo stile della vita famigliare per la famiglia : con pari dignità ci si siede attorno alla stessa tavola; tutti hanno diritto di parlare; tutti hanno il dovere di ascoltare; tutti mangiano lo stesso cibo; la famiglia prende il passo degli ultimi; la benevolenza reciproca è la modalità della relazione; il perdono reciproco la strada per crescere insieme e sperimentare la pace; la tenerezza il modo di esprimere l'amore e di sentirsi amati.
    Corrado Contini
    gruppo Davide Parma

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  4. Grazie per questa riflessione, davvero ispirata. Alla prossima... Elisabetta

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  5. Grande Pe. Paolo.
    Bela reflexão. Perceber a miúde nossos defeitos e super_egos requer disciplina, sensibilidade e paz. Tendo em vista nosso modelo Jesus, perceber no evangelho seus gestos e pensamentos. O problema é que as vezes distorcemos o que lemos lá no evangelho e super-ego fala mais alto.
    Apreciados com seu texto, nos resta reflexão e sabedoria para que nosso diálogo com o evangelho não tenha distorções para que coloquemos em prática só a verdade.
    Grande abraço!

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    1. Grande Mury! Que bom saber que voce em algun lugar do mundo està me escutando, aliàs, lendo. Um grande abraço e uma feliz Pascoa!

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  6. Una splendida sintesi di cosa voglia dire amare. Ci fa capire ancora una volta, quanta strada dobbiamo fare per diventare come bambini e diventare finalmente chiesa. Emanuele

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  7. Grazie don Paolo una riflessione profonda e semplice nello stile del Vangelo

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  8. Una vera fortuna avere un Parroco e un Papa che portano la Chiesa avanti nella stessa direzione. Salvatore

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