sabato 29 aprile 2017

IL DOLORE NELLA CULTURA OCCIDENTALE (appunti)




(Intervento nel seminario sul tema del dolore- Studio Teologico Inter diocesano- Aprile 2017)


Paolo Cugini
C’è dolore e dolore. C’è un dolore naturale, quel dolore che affrontiamo nelle vicissitudini umane, come la malattia, la sofferenza interiore o come il dolore dovuto alle cause naturale. E c’è anche un dolore causato, un dolore che potrebbe non esserci, ma che invece appare a causa di un determinato modo di pensare, di rapportarsi con le cose, d’interpretare il mondo. C’è, allora un dolore che è causato da una cultura, da un modo di pensare: è di questo tipo di dolore che vorrei parlare. C’è il dolore dei poveri, causato dall’ingiustizia sociale prodotta dal modo d’intendere l’economia.
Alcune situazioni di dolore prodotto della cultura Occidentale:

1.      Il dolore degli eretici. Il dolore di coloro che esprimono un pensiero diverso rispetto al pensiero dominante, sia esso politico, sociale che teologico. Il dolore di coloro che sono stati uccisi a causa di un’idea teologica differente (675 giustiziati per eresia, senza contare quelli torturati, imprigionati, le streghe). Il dolore di coloro che sono perseguitati a causa di un pensiero differente. I casi Leonardo Boff e John Sobrino.

2.      Il dolore delle popolazioni Indigene americane. (1500 c’erano 5 milioni di Indios e dopo 50 anni erano stati decimati a cinquecento mila. Dibattito sullo statuto antropologico degli indios. Il papa intervenne con una bolla per definire che gli indios avevano un’anima. La distruzione dei popoli e delle culture indigene da parte degli spagnoli.


3.      Il dolore dei poveri. L’economia che uccide. Il dolore di coloro che vivono in condizione disumane e che sanno sin dalla nascita che non avranno mai alcuna possibilità di avere il minimo per vivere e che quindi si abituano sin da subito ad arrangiarsi. C’è un segno su di loro che è come un marchio: la rassegnazione negativa, che deriva dall’esperienza che contro i potenti non si può nulla. Raccontare l’umiliazione dei poveri in alcune situazioni vissute in Brasile.

4.      Il dolore di coloro che la pensano diversamente dalla politica dominante. Il caso attuale della Turchia dove circa 40 mila persone dell’opposizione sono astate incarcerate. Oppure durante le dittature militari in America Latina negli anni ’60-80 del secolo scorso, in cui migliaia di persone dell’opposizione sono state barbaramente torturate, assassinate. Citare frei Betto, Diario del Faro,  (dice di un’incapacità di abitare la differenza. Problema: da dove deriva questa incapacità?).


5.      Il dolore delle donne. La cultura patriarcale e maschilista che ha modellato la cultura Occidentale, cultura sorta dall’evoluzione progressiva incentrata sull’idea della forza. Le tante violenze che ancora oggi le donne subiscono sono anche il frutto di una cultura maschilista, una cultura della forza che sfocia nella violenza. Cultura che ha influenzato anche la religione e, nel nostro caso, la chiesa cattolica. Sino a quando le donne saranno lasciate fuori dalla possibilità di esercitare un sacerdozio ministeriale come gli uomini, la chiesa non potrà dire molto al mondo sul tema dell’eguaglianza. La realtà contraddice la cultura. Esperienza delle CEBs in America Latina condotte per la grande maggioranza da donne dice di un cammino che è già avviato e che può contaminare anche la chiesa Occidentale. La mancanza di aderenza alla realtà genera l’idea impazzita.

6.      Il dolore delle persone africane in Occidente. La sofferenza di non essere accettati a causa della diversità della pelle, di essere messi ai margini della società per il semplice fatto di avere la pelle nera. Anche nelle nostre parrocchie – ce lo hanno raccontato gli studenti africani che abitano nelle nostre parrocchie – spesso durante la messa chi ha la pelle nera si trova la mano tesa per lo scambio della pace senza una risposta. Il pregiudizio è duro a morire.


7.      Il dolore delle persone LGBT. Sto accompagnando il percorso spirituale di un gruppo di persone lesbiche e gay. Quanta sofferenza per una diversità non accettata. Quanti pregiudizi che escono da quell’istituzione alla quale Gesù ha insegnato di non condannare, ma di accogliere. C’è ancora un lungo cammino da compiere, il cammino della conoscenza dell’altro, del rispetto per le differenze.

8.      Il dolore del popolo ebraico sterminato nella seconda guerra mondiale. Il diario di Etty Hillesum lo abbiamo commentato durante il percorso con gli studenti universitari. Quanta dignità che abbiamo trovato in Etty che, nonostante le situazioni disumane nelle quali si è venuta a trovare, non ha mai smesso di pregare, di ringraziare Dio, di dire a tutti che la vita era bella.

La causa
Tutte queste sofferenze, questo dolore hanno un comune denominatore, a mio avviso, vale a dire sono l’espressione di un modo particolare di pensare l’essere, un modo speciale di pensare il rapporto dell’uomo con il mondo. Si può pensare come causa dei mali dell’Occidente il processo d’irrigidimento dell’essere e, di conseguenza, i suoi sviluppi nell’irrigidimento dell’idea. La causa dei mali dell’Occidente stanno esattamente a monte della sua impostazione filosofica, ovvero, nella metafisica. È il modo di concepire l’essere come rigido, unico, immobile, perfetto, che produce violenza nei confronti di ciò che è percepito come differente, come realtà che non si adegua all’idea. Tutto ciò che non è conforme all’idea viene percepito come negativo e genera il processo di volontà di annichilamento. La distruzione dell’altro come possibilità di mantenimento dell’ordine sociale e politico. L’idea non accetta la differenza.

Per capire questa affermazione bisognerebbe ripercorrere a ritroso il percorso che la metafisica ha realizzato sin dai primordi. Bisognerebbe riprendere una storia dell’essere così come si è sviluppata nella metafisica Occidentale, a partire da Parmenide, anche se, giustamente, Giovanni Reale, nei suoi saggi sulla storia della filosofia antica, fa notare come in realtà la metafisica e, di conseguenza, la riflessione sull’essere, nasce solamente quando Platone inventa il mondo sovrasensibile. In ogni modo è importante ritornare a Parmenide perché ritroviamo nel suo pensiero quelle qualità dell’essere che Platone applicherà alle idee ed Aristotele alla sostanza. L’essere di Parmenide è Uno, immobile, eterno, ingenerato, immortale, indivisibile.

Non a caso Heidegger in Essere e Tempo parla della storia della metafisica Occidentale come un processo d’indebolimento dell’essere, perché in realtà la metafisica classica confonde l’essere con l’ente. Il problema della metafisica classica, che ha sempre presentato l’essere come qualcosa di fisso, di rigido. In questa prospettiva la verità non sarebbe nient’altro che una proiezione soggettiva che produce una fissazione del vero a partire dalla precomprensione dell’essere. Questo è a mio avviso, il problema. Ci siamo abituati a pensare il vero identificandolo con un’idea astratta, una precomprensione concettuale, che anticipa la realtà interpretandola. qualcosa di rigido. Ci siamo abituati a chiamare vero un’idea indipendentemente dalla realtà. Ci siamo fidati delle nostre intuizioni e su queste abbiamo interpretato la realtà. Il pensiero Occidentale ha sempre interpretato la realtà a partire da idee pre- costituite o, per dirla con Péguy, da idee bell’e fatte. La storia del pensiero Occidentale è la storia dell’interpretazione della realtà a partire da un’idea.

Gianni Vattimo sostiene che esiste una serie di eventi avvenuti negli ultimi decenni che comprovano la dissoluzione della metafisica classica, l’indebolimento di un essere rappresentato come fondamento unico e oggettivo della realtà. La caduta del muro di Berlino, la crisi sistematica del modello economico neoliberale, la crisi ecologica, la fine del mito del progresso: sono tutti sintomi di un indebolimento della metafisica forte, che sfocia nel nichilismo. Per la metafisica classica che Vattimo critica, la verità non è niente di più che il frutto di una proiezione soggettiva, idealista: un’idea fissa. È proprio a questo tipo di verità che il mondo postmoderno sta dicendo addio.

C’è anche una certa teologia, un certo modo di pensare Dio che è rigido, poco duttile, un po' violento, perché fa violenza alla verità stessa di Dio. È quella teologia che poi sfocia nel rubricismo e nel formalismo: vale più il contorno che l’essenza, l’osservanza delle norme che la persona.

È possibile uscire dalla durezza della metafisica Occidentale per andare verso un mondo dove gli opposti non si respingono, ma convivono? E’ possibile uscire dalla teologia della forza – pensiamo ai concetti di Onnipotenza, monoteismo, ecc. della tradizione Occidentale – verso una teologia più rispettosa di Dio? Ci sono alcune risposte che vanno in questa direzione:

1.      Jean Luc Marion sostiene che il termine essere è incompatibile con il lessico teologica e che il termine essere non è teologico. La rivelazione dice qualcosa dell’ente e non dell’essere. Per questo c’è grande differenza tra il Dio dell’ontologia e quello della rivelazione. “Un Dio che ha bisogno che la propria esistenza sia provata è un Dio ben poco divino e la prova dell’esistenza di Dio è una grande bestemmia”. Secondo Heidegger la teologia non riguarda Dio, ma la fede nel crocefisso. La teologia riguarda la fede nell’evento del crocifisso.
Problema:
·         come dire il Dio della rivelazione che non è di questo mondo?
·         La metafisica ci ha abituati a pensare Dio a partire dall’essere e invece Dio viene a noi attraverso l’evento: la rivelazione
·         Come dev’essere scritto il Dio di una teologia cristiana manifestata dalla croce di Cristo?
·         La rivelazione biblica ignora la differenza ontologica (Gen 1,24); Rom 4,17; 1 Cor 1,28; Lc 15, 12-32;
·         Dio sceglie il non ente per annullare l’ente
·         Per Dio quello che non è come se fosse
·         Per Dio quello che è può essere come se non fosse
·         Il fatto di essere un ente non garantisce nulla
·         1 Cor 1,28: la sapienza che viene da Dio provoca la confusione della sapienza degli uomini
·         Occorre pensare la possibilità di dire l’ente senza ricorrere all’essere

2. Il pensiero biblico ci può offrire qualche spunto. Ci sono, infatti nella Bibbia, alcune visoni che dicono di una possibilità della convivenza delle differenze.

1.       L’alleanza che Dio stabilisce con Noè è l’arcobaleno. E' un dato che è stato spesso dimenticato. Dio non ha scelto un colore, ma l'arcobaleno: è l'elogio della pluralità. Viviamo l'alleanza con Dio quando abitiamo la pluralità

2.      Il profetismo. Isaia 11. Convivenza dei contrari: la vacca e l’orsa pascoleranno insieme; il lupo e l’agnello dormiranno insieme.

3.      I nomi di Dio. È significativo che nella Bibbia, non esiste un solo concetto, una solo parola per definire il nome di Dio, ma diverse: YHWH, Eloim, El, Io Sono, ecc. La pluralità dei nomi dice di un’impossibilità di dire Dio con un solo concetto. Dio rimane sempre al di là della nostra capacità di accoglierlo. Dio è più grande dell’idea, la trascende.

4.      I Vangeli per narrare la vita del figlio di Dio sono 4 e non uno. Non si può pensare di cogliere la vita di Gesù, il figlio di Dio, da un unico punto di vista. Il cristiano è colui che si allena alla pluralità di vedute, alla compresenza di visioni diverse, a percorre cammini interpretativo diversi, a volte opposti. Il cristianesimo non è un cammino monotematico.

5.      La Trinità. È l’elaborazione della prima comunità che intuisce che Dio non può essere concepito e intrappolato da una prospettiva unica. La Trinità dice di un’unità che non s’identifica con uniformità e dove la pluralità è matrice di unità.

Per aiutarci a non essere causa di dolore, a non provocare dolore nel mondo con giudizi affrettati e rigidi, ingabbiati nei pregiudizi culturali è necessario mantenerci in ascolto della realtà, a contatto con la realtà, a formulare idee che procedono dalla realtà e non il contrario.
La realtà, per suo verso, è plurale, molteplice, viva, in movimento. La realtà dice della compresenza dei diversi ed è solo il contatto con la realtà che ci può salvare dalla tirannia dell’idea. È dalla realtà che procede l’idea e non viceversa.


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