Tra Vangelo e cristianesimo
Paolo
Cugini
Sono
nati così, poveri piccoli! Sono nati in quel contesto in cui bisognava alzarsi,
salutare educatamente, rispettare l’ordine delle cose. C’erano i grandi e i
piccoli, i maestri e i discepoli, i preti e i laici. Ordini di grandezze
diversi (ma non siamo tutti figli e figlie di Dio?). Ordini e grandezze che
bisognava rispettare. Era l’epoca in cui il rispetto dell’ordine e la grandezza
si pensava che fossero posti tutti quanti nella distanza, nel mantenere le
dovute distanze. Nessuno a quell’epoca sospettava di nulla, sospettava che, in
realtà, il rispetto poteva voler dire altre cose, altre misure, altre qualità. Si
pensava che bastasse mantenere le distanze, le dovute distanze, e tutto era
perfettamente in ordine, al suo posto. Perché era questo, in definitiva,
l’importante: che tutto rimanesse sempre al suo posto. Perché, a quell’epoca
c’era un posto per tutto e tutti sapevano il posto di tutti. L’importante era
non far confusione, non scambiare di posto, non fare cose che potessero turbare
l’ordine delle cose, creare disordine. Educare significava insegnare fin da
piccoli il delicato sistema dei posti e delle dovute distanze, vale a dire,
l’ordine delle cose. Nessuno si era mai posto il problema dell’origine di tanto
ordine e distanza: c’era e basta. Soprattutto, però – e qui viene il bello –
nessuno si era mai chiesto chi fosse stato ad imporre quest’ordine fatto di
gradi diversi e di distanze. Nessuno, quindi si era mai chiesto: ma questo
ordine – che è in realtà un grande disordine, perché non tiene conto della
realtà, che genera diversità, che alimenta la molteplicità delle cose, che dice
prima di tutto la sua molteplicità – chi lo ha voluto? Da dove viene? A che
cosa serve?
Si
era sempre fatto così e la buona educazione faceva di tutto perché tutto
rimanesse sempre allo stesso posto e, soprattutto, alla giusta distanza. Abituare
la gente a pensare che la realtà sia piatta, significava indurre nelle giovani
menti un pensiero fisso: si è sempre fatto così, che vuole dire che non si può
fare diversamente, che occorre imparare a riprodurre in modo costante nel tempo
l’ordine delle cose, con le loro distanze. Si trattava – è questo il grande
gioco, la più grande sovversione mai elaborata nella storia dell’umanità – di
bloccare il presente, di tenerlo fermo, di non permettere che da questo punto
così importante del flusso della storia, potesse uscire la molteplicità,
potesse cioè esprimersi la realtà così come si manifesta, vale a dire come
diversità, come creatività. Come fare per bloccare il presente? In che modo far
credere – perché questa è l’educazione, per lo meno quella che deve difendere
degli interessi di parte, quella che deve difendere una casta, quella casta che
nelle distanze occupa il gradino più alto, quello a cui tutti devono rispetto e
riverenza: spacciare per vero ciò che in realtà è falso – che tutto è fermo,
che tutto è sempre immobile, che la realtà è fissa e che le cose si devono fare
sempre allo stesso modo e che le distanze sono sempre uguali? Basta spostare il
presente nel futuro, basta educare a progettare continuamente e spostare il presente
in avanti che il gioco è fatto, che nessuno potrà percepire la dinamicità del
presente, la pluralità della realtà, soprattutto questo: nessuno potrà cogliere
la verità della realtà. Educare le persone a identificare la realtà con
l’unicità: è stato questo il grande meccanismo messo in atto nel mondo
Occidentale per nascondere il presente e, con esso, non permettere di cogliere
la realtà come manifestazione di pluralità.
Sono
diversi i prodotti culturali di questa grande manipolazione della realtà. Primo
fra tutti la logica della pensione. Sacrificare il presente per vivere nel
futuro; sacrificare la vitalità della giovinezza per poter vivere in pace
l’ultima fase della vita. Forse è perché non ci fermiamo a riflettere, che
questa impressionante aberrazione ci sembra normale, reale: ci sembra giusta.
Del resto, si è sempre fatto così. Si dice che sia una delle migliori conquiste
del mondo Occidentale, di questa cultura che si ritiene la più elevata di
tutte. Ma se gratti un po’, carissimo amico, se poni un po’ di attenzione,
carissima amica, ti renderai conto che questa cultura così elevata è, in realtà,
estremamente brutale. Quanti giovani, infatti, inseriti in questa logica della
pensione, diventano vecchi senza accorgersene? O meglio, forse se ne accorgono,
forse vorrebbero fermare il meccanismo maledetto nel quale si sono ficcati, forse
capiscono che la vita non può essere quella che stanno vivendo, fatte di ore
fisse, di settimane sempre uguali, di orari rigidi, ma non riescono a saltarne
fuori, perché gli viene detto che è il migliore dei sistemi possibili. E ad un
certo punto ci credono. Ad un certo punto della vita non puoi che crederci, che
fartene una ragione. E’ il sacrificio richiesto per il beneficio di pochi. C’è
tutto un sistema educazionale che lavoro per riprodurre questo sacrificio per
non farlo sentire tale, anzi per spacciarlo come il senso della vita. E allora
arrivi alla fine delle vita, dove hai tempo di guardarti indietro, dove ti
viene dato il tempo per guardarti indietro, perché a quell’età non sei più
pericoloso, e ti disperi perché capirai che hai sprecato la tua vita dentro un
ingranaggio che non ti ha dato spazio, un meccanismo che ti ha privato di
tutto, soprattutto della vita. Ma ormai è tardi, la frittata è fatta, la vita è
stata sacrificata. E la domanda emerge immediatamente: per cosa?
Accanto
a questa grande aberrazione, ce n’è una seconda della stessa grandezza, ma che
cammina per un’altra direzione: è l’idea d’identità. Se la realtà non è colta
nella sua dinamicità e pluralità, nelle diversità di possibilità che può
offrire per l’esistenza, allora, per il fatto che viene bloccata, s è fatto di
tutto per far passare l’idea che c’è un’unica possibilità di vita. Tutta l’adolescenza
e la giovinezza vengono preparate per educare le giovani anime a non perdersi,
a non perdere tempo, a rimanere concentrate sul proprio futuro – e il presente?
E la realtà che passa per quell’unico punto che è il presente? – per riuscire a
costruire la propria vita modellata su di un’unica identità. E’ questa la
parola magica: l’identità, che la s’identifica immediatamente con un’altra
molto sofisticata: dignità. Sarai degno solamente se sarai fedele alla tua
unica identità. Perché c’è un’identità da vivere che corrisponde esattamente al
posto che occuperai nella società, che rientra in quell’ordine di grandezze di
cui parlavamo poco sopra, ordine di grandezze che dicono di distanze da
rispettare. Perché è questo rivela il subdolo meccanismo dell’identità unica,
che non puoi essere nient’altro che ciò che diventi. Nell’identità l’essere si
deve identificare con il desiderio e, se ciò non avviene, si fa di tutto per
farcelo stare. Ci sono dei delicati sistemi messi in atto per fare in modo che
nell’identità unica il desiderio coincida esattamene con l’essere. La
depressione nasce da questo scompenso, dalla non piena identificazione tra
essere e desiderio, per cui qualcuno ad un certo punto, inizia a desiderare
qualcosa che è rimasto fuori dall’identità assunta. Basterebbe porsi sul punto
del presente in cui scorre come un fiume la realtà nella sua dinamicità,
vitalità e pluralità per accorgersi che quelli che noi chiamiamo scompensi
esistenziali non sono altro che costruzioni culturali che, nella realtà, quella
vera, quella che passa per il presente della vita, non esistono.
E
nessuno sembrava importarsi che la vita stava diventando noiosa, che con tutto
quell’ordine aumentava giorno dopo giorno la voglia di disordinare, di mettere
un po’ di scompiglio per vedere cosa succedeva. Perché è questo il punto,
carissimo mio: più imprimi degli ordini e più provochi i disordini. Perché non
siamo tutti uguali. Ci sono gli ordinati, che fanno tutte le cose a puntino,
che pensano e ci credono che vivere consista proprio nel fare tutto a modo, nel
rispettare tutte le regole e le dottrine. E poi ci sono altri che, ad un certo
punto si stufano; ci sono altri ancora che si stufano subito, perché pensano
che il bello della vita non sia nell’ordine meticoloso, ma sia nascosto al di
là dell’ordine, che non vuole dire immediatamente il disordine – anche se a
volte sembra così – e se è nascosto lo si deve cercare per poterlo trovare. E
lo puoi trovare solo se impari a vivere nel presente, a ripulire la tavola
della vita da tutto ciò che vita non è, da tutte quelle logiche che incatenano
il presente, da tutte quelle dinamiche che ti spostano continuamente verso il
futuro.
La
cosa strana, anzi addirittura sorprendente, è che ad un certo punto, proprio
questa educazione alla distanza, tutto questo controllo del presente, tutto
quell’ordine imposto, l’hanno chiamato educazione cristiana. Addirittura! E poi, lo hanno fatto e
sostenuto senza nessun ritegno, senza nessun tipo di vergogna, senza nessun
tipo di pudore, senza nessun sospetto di un abuso, di una idiosincrasia: no,
tutto normale. Ad un certo punto è divenuto normale ciò che normale non era,
vale a dire che il Vangelo fosse qualcosa di ordinato per gente per bene,
corretta, che rispetta la logica delle distanze. Ad un certo punto hanno fatto
credere, quei furboni, che la moderazione era un valore evangelico, mentre la
ribellione un disvalore. Che grandi furfanti! E’ chiaro che dentro il sistema
che avevano strutturato sembrava proprio così, sembrava che le cose stessero
proprio in quel modo. E da fuori, da quello che si vedeva, sembrava proprio che
quella religione nata dal Vangelo chiamata cristianesimo, fosse roba per gente
moderata, che stimolasse la tranquillità, che aiutasse le persone a vivere in
pace, serene, senza problemi. Sembrava, addirittura – ed è questa la massima
furberia – che il sistema di distanze fosse qualcosa di religioso, addirittura
di sacro. Che birboni! E così, anche il cristianesimo era entrato nell’ordine
delle distanze. C’era il prete da una parte e il popolo dall’altra. C’era il
prete in un presbiterio che nei secoli è divenuto sempre più distante, che
diceva le sue cose e là in basso, molto distanti, i fedeli che, per la maggior
parte dei casi si trattava di donne fedeli. Anche loro, racchiuse nella loro
distanza, facevano le loro cose: ognuno nel proprio mondo distante, pur essendo
materialmente vicini. Sono trascorsi secoli e secoli in queste distanze assurde
e nessuno o perlomeno così sembra, nessuno si chiedeva che senso avesse tutta
questa distanza, tutta questa separazione. Non solo nessuno si chiedeva che
senso avesse, ma soprattutto, nessuno si chiedeva perché pur essendo vicini
bisognava vivere come se fossimo distanti.
Eppure
Lui, il Signore – in tutti i sensi -, Lui Gesù, il figlio di Giuseppe e di
Maria, quando inizia l’attività pubblica la prima cosa che fa è proprio quella
di ridurre le distanze. Lui, quello che il popolo identificava come il Messia
atteso e annunciato dai profeti, quando inizia l’attività pubblica, rompe tutte
le distanze, le accorcia in modo impressionante. E’ un Maestro, un Rabbi, ma è
così diverso dagli altri maestri per il modo di fare, per il modo di porsi, per
il modo di stare al mondo, che la gente del popolo rimane subito entusiasta.
Erano abituati con i farisei, i sadducei, con i dottori della legge, così
pomposamente lontani dalla gente, così distanti da sembrare irraggiungibili. Si
erano abituati alle leggi, ai precetti, all’osservanza esterna di regole e
norme che i farisei applicavano, ritenendo tutto ciò religioso, più religioso, che
lasciava sbigottita la grande libertà di movimento di Gesù. Il popolo
lentamente si era abituato alla distanza, alla riverenza nei confronti dei signori
del culto. E invece Gesù, pur essendo un Maestro e, per certi aspetti, uno di
loro, pur essendo uno di loro ma, senza dubbio, diverso da loro, era così
diverso da sembrare uno del popolo. Gesù si lasciava toccare. Perché Lui non
poneva distanze, non parlava dall’alto al basso, non si faceva più importante
degli altri, ma si lasciava toccare, e lui stesso toccava, baciava,
accarezzava. E Gesù camminava per le strade, attorniato dalla gente e insegnava
che Dio è un Padre con un cuore di Madre. E camminava per le strade con i sui
discepoli e le sue discepole: camminava con loro, in mezzo a loro. Era bello
vederlo giocare con i bambini! Era bello vedere Gesù il Figlio di Dio,
camminare per le strade con vestiti come quelli della gente. Perché è
chiarissimo che se vuoi mantenere le distanze, se vuoi far sapere agli altri
che appartieni ad una casta, alla casta sacerdotale, che fai parte di qualcosa
di diverso, che nel rapporto delle distanze appartieni a coloro che deve essere
riverito; se ci tieni a questo tipo di linguaggio, allora caro mio, vestiti
pure, metti i tuoi vestiti sacri, sgargianti e lussuosi; fai sentire tutto il
peso della simbologia sacrale: fai capire a tutti chi sei, o meglio, chi pensi
di essere. Eppure Gesù, cioè colui che dicono che sia all’origine di quella
religione chiamata cristianesimo, tutta quanta ben strutturata nel sistema
delle distanze, tutta quanta organizzata nelle sue celebrazioni sacrali, con
l’arredo e il vestiario sacrale, ebbene Lui, che dovrebbe essere il fondatore
di tutta questa roba, vestiva come tutti noi, camminava in mezzo al popolo e
con il popolo: sembrava uno di noi, senza alcun tipo di distanze.
Non
è un caso, allora, se lo troviamo costantemente in polemica con i farisei e i
sadducei; non è un caso se proprio Gesù, il Maestro, il Figlio di Dio, che
camminava in mezzo alla strada con i suoi discepoli e le sue discepole, vestito
normalmente come tutti, mangiando assieme a loro, fosse costantemente in rotta
con coloro, i dottori della legge, che insegnavano dall’alto al basso, e
vestivano le vesti sacre fatte apposta per loro, per far capire chi erano e,
soprattutto, a che distanza dovevano rimanere gli altri, cioè la plebe. Gesù se
la prendeva con il loro modo d’insegnare, obbligando il popolo a portare il
peso di precetti assurdi, che loro stessi non toccavano nemmeno con un dito.
Gesù li rimproverava perché con il tempo avevano sostituito la Parola di Dio,
che è amore e giustizia, con le tradizioni umane, corrotte e meschine. Gesù,
infine, li rimproverava per le distanze assurde che avevano posto tra loro e il
popolo. E dall’altra parte c’era Dio, il Dio della Bibbia, il Dio desideroso
d’incontrarsi con l’uomo e la donna, il Dio la cui storia è un continuo
processo di avvicinamento verso l’uomo, la donna, la terra. Sino ad arrivare a
Gesù, suo Figlio, la massima espressione dell’annichilamento di tutte le
distanze tra Dio è l’umanità. Gesù: uno di noi, il Dio con noi.
E
allora, viene da pensare che dove c’è distanza, il Dio di Gesù Cristo fatica ad
entrarci; dove c’è volontà di porre distanze, di segnare una differenza di
quantità, Gesù, il Figlio di Dio che è venuto per eleminare ogni distanza e,
quindi ogni ingiustizia, non trova spazio. Al contrario, però, dove c’è volontà
di uguaglianza, dove le persone vivono accogliendosi per quello che sono, vale
a dire figli e figlie di Dio, allora senza dubbio lì c’è il Signore della
storia. Dove c’è un pezzo di umanità in qualsiasi posto del mondo, in cui le
persone vivono come fratelli e sorelle, condividendo ciò che hanno, accogliendo
chiunque senza distinzioni di razza, sesso o di qualsiasi altra cosa, allora,
carissima amica, lì senza dubbio il Signore Gesù è con noi e in mezzo a noi.
Carissimo don Paolo,
RispondiEliminati ringrazio per queste
riflessioni ☺️🙏🏻😊!! Le condivido totalmente.
In diverse circostanze ho espresso gli stessi concetti, provocando negli interlocutori, il più delle volte, una reazione di diffidente disappunto 😒.
Eppure, come ben dici, lo stile di Gesù annullava le distanze, sia di origine etnica che di genere, di censo, di classe sociale... “Amatevi gli uni gli altri COME io vi amo...” è la disarmante semplicità dell’unico comandamento che Lui ci ha dato. Estremamente banale, per molti... decisamente ovvio e scontato, per troppi.
“Noi amiamo!!” è l’obiezione che ci si sente muovere...
Ma poi, “cosa vuol dire ‘amare’?”, ci si domanda oggi.
E “chi è il mio ‘prossimo’?”, ci si chiedeva anche ‘allora’...
Certo, “dobbiamo amare tutti”, ma loro, poi, ci ricambieranno?
Meglio erigere muri, alzare fili spinati, scavare fossati, porre distanze... non si sa mai!!
Poi, al bisogno, si cerca in tasca, si afferra qualche spicciolo e si tende la mano... ‘peccato’ che spesso gli occhi guardino da un altra parte e il cuore sia in “stand by”!
Che ipocrisia!!!
Ancora grazie, amico mio!
Un regalo più bello, il giorno del mio compleanno, non potevo desiderare! 👋🏻😊🤗‼️
Parole sante... Grazie
RispondiEliminaBastassero le distanze, invece c'è anche la necessità di togliere lo spazio vitale, calpestando il diritto al presente di ogni nuovo nato fuori dalla casta, quasi si trattasse di usurpatori, di potenziali concorrenti. E i luoghi dove mantenere oggi le distanze ed eliminare gli indesiderati chiediamoci un po' quali sono oggi? poi c'è l'assistenzialismo che genera buonismo da una parte e pretese dall'altra, impedendo in ogni caso il manifestarsi dell'identità.
RispondiEliminaTi ringrazio... e sono commossa..
RispondiEliminaA presto