domenica 24 giugno 2018

LA DISTANZA




Tra Vangelo e cristianesimo

Paolo Cugini

Sono nati così, poveri piccoli! Sono nati in quel contesto in cui bisognava alzarsi, salutare educatamente, rispettare l’ordine delle cose. C’erano i grandi e i piccoli, i maestri e i discepoli, i preti e i laici. Ordini di grandezze diversi (ma non siamo tutti figli e figlie di Dio?). Ordini e grandezze che bisognava rispettare. Era l’epoca in cui il rispetto dell’ordine e la grandezza si pensava che fossero posti tutti quanti nella distanza, nel mantenere le dovute distanze. Nessuno a quell’epoca sospettava di nulla, sospettava che, in realtà, il rispetto poteva voler dire altre cose, altre misure, altre qualità. Si pensava che bastasse mantenere le distanze, le dovute distanze, e tutto era perfettamente in ordine, al suo posto. Perché era questo, in definitiva, l’importante: che tutto rimanesse sempre al suo posto. Perché, a quell’epoca c’era un posto per tutto e tutti sapevano il posto di tutti. L’importante era non far confusione, non scambiare di posto, non fare cose che potessero turbare l’ordine delle cose, creare disordine. Educare significava insegnare fin da piccoli il delicato sistema dei posti e delle dovute distanze, vale a dire, l’ordine delle cose. Nessuno si era mai posto il problema dell’origine di tanto ordine e distanza: c’era e basta. Soprattutto, però – e qui viene il bello – nessuno si era mai chiesto chi fosse stato ad imporre quest’ordine fatto di gradi diversi e di distanze. Nessuno, quindi si era mai chiesto: ma questo ordine – che è in realtà un grande disordine, perché non tiene conto della realtà, che genera diversità, che alimenta la molteplicità delle cose, che dice prima di tutto la sua molteplicità – chi lo ha voluto? Da dove viene? A che cosa serve?

Si era sempre fatto così e la buona educazione faceva di tutto perché tutto rimanesse sempre allo stesso posto e, soprattutto, alla giusta distanza. Abituare la gente a pensare che la realtà sia piatta, significava indurre nelle giovani menti un pensiero fisso: si è sempre fatto così, che vuole dire che non si può fare diversamente, che occorre imparare a riprodurre in modo costante nel tempo l’ordine delle cose, con le loro distanze. Si trattava – è questo il grande gioco, la più grande sovversione mai elaborata nella storia dell’umanità – di bloccare il presente, di tenerlo fermo, di non permettere che da questo punto così importante del flusso della storia, potesse uscire la molteplicità, potesse cioè esprimersi la realtà così come si manifesta, vale a dire come diversità, come creatività. Come fare per bloccare il presente? In che modo far credere – perché questa è l’educazione, per lo meno quella che deve difendere degli interessi di parte, quella che deve difendere una casta, quella casta che nelle distanze occupa il gradino più alto, quello a cui tutti devono rispetto e riverenza: spacciare per vero ciò che in realtà è falso – che tutto è fermo, che tutto è sempre immobile, che la realtà è fissa e che le cose si devono fare sempre allo stesso modo e che le distanze sono sempre uguali? Basta spostare il presente nel futuro, basta educare a progettare continuamente e spostare il presente in avanti che il gioco è fatto, che nessuno potrà percepire la dinamicità del presente, la pluralità della realtà, soprattutto questo: nessuno potrà cogliere la verità della realtà. Educare le persone a identificare la realtà con l’unicità: è stato questo il grande meccanismo messo in atto nel mondo Occidentale per nascondere il presente e, con esso, non permettere di cogliere la realtà come manifestazione di pluralità.

Sono diversi i prodotti culturali di questa grande manipolazione della realtà. Primo fra tutti la logica della pensione. Sacrificare il presente per vivere nel futuro; sacrificare la vitalità della giovinezza per poter vivere in pace l’ultima fase della vita. Forse è perché non ci fermiamo a riflettere, che questa impressionante aberrazione ci sembra normale, reale: ci sembra giusta. Del resto, si è sempre fatto così. Si dice che sia una delle migliori conquiste del mondo Occidentale, di questa cultura che si ritiene la più elevata di tutte. Ma se gratti un po’, carissimo amico, se poni un po’ di attenzione, carissima amica, ti renderai conto che questa cultura così elevata è, in realtà, estremamente brutale. Quanti giovani, infatti, inseriti in questa logica della pensione, diventano vecchi senza accorgersene? O meglio, forse se ne accorgono, forse vorrebbero fermare il meccanismo maledetto nel quale si sono ficcati, forse capiscono che la vita non può essere quella che stanno vivendo, fatte di ore fisse, di settimane sempre uguali, di orari rigidi, ma non riescono a saltarne fuori, perché gli viene detto che è il migliore dei sistemi possibili. E ad un certo punto ci credono. Ad un certo punto della vita non puoi che crederci, che fartene una ragione. E’ il sacrificio richiesto per il beneficio di pochi. C’è tutto un sistema educazionale che lavoro per riprodurre questo sacrificio per non farlo sentire tale, anzi per spacciarlo come il senso della vita. E allora arrivi alla fine delle vita, dove hai tempo di guardarti indietro, dove ti viene dato il tempo per guardarti indietro, perché a quell’età non sei più pericoloso, e ti disperi perché capirai che hai sprecato la tua vita dentro un ingranaggio che non ti ha dato spazio, un meccanismo che ti ha privato di tutto, soprattutto della vita. Ma ormai è tardi, la frittata è fatta, la vita è stata sacrificata. E la domanda emerge immediatamente: per cosa?

Accanto a questa grande aberrazione, ce n’è una seconda della stessa grandezza, ma che cammina per un’altra direzione: è l’idea d’identità. Se la realtà non è colta nella sua dinamicità e pluralità, nelle diversità di possibilità che può offrire per l’esistenza, allora, per il fatto che viene bloccata, s è fatto di tutto per far passare l’idea che c’è un’unica possibilità di vita. Tutta l’adolescenza e la giovinezza vengono preparate per educare le giovani anime a non perdersi, a non perdere tempo, a rimanere concentrate sul proprio futuro – e il presente? E la realtà che passa per quell’unico punto che è il presente? – per riuscire a costruire la propria vita modellata su di un’unica identità. E’ questa la parola magica: l’identità, che la s’identifica immediatamente con un’altra molto sofisticata: dignità. Sarai degno solamente se sarai fedele alla tua unica identità. Perché c’è un’identità da vivere che corrisponde esattamente al posto che occuperai nella società, che rientra in quell’ordine di grandezze di cui parlavamo poco sopra, ordine di grandezze che dicono di distanze da rispettare. Perché è questo rivela il subdolo meccanismo dell’identità unica, che non puoi essere nient’altro che ciò che diventi. Nell’identità l’essere si deve identificare con il desiderio e, se ciò non avviene, si fa di tutto per farcelo stare. Ci sono dei delicati sistemi messi in atto per fare in modo che nell’identità unica il desiderio coincida esattamene con l’essere. La depressione nasce da questo scompenso, dalla non piena identificazione tra essere e desiderio, per cui qualcuno ad un certo punto, inizia a desiderare qualcosa che è rimasto fuori dall’identità assunta. Basterebbe porsi sul punto del presente in cui scorre come un fiume la realtà nella sua dinamicità, vitalità e pluralità per accorgersi che quelli che noi chiamiamo scompensi esistenziali non sono altro che costruzioni culturali che, nella realtà, quella vera, quella che passa per il presente della vita, non esistono.

E nessuno sembrava importarsi che la vita stava diventando noiosa, che con tutto quell’ordine aumentava giorno dopo giorno la voglia di disordinare, di mettere un po’ di scompiglio per vedere cosa succedeva. Perché è questo il punto, carissimo mio: più imprimi degli ordini e più provochi i disordini. Perché non siamo tutti uguali. Ci sono gli ordinati, che fanno tutte le cose a puntino, che pensano e ci credono che vivere consista proprio nel fare tutto a modo, nel rispettare tutte le regole e le dottrine. E poi ci sono altri che, ad un certo punto si stufano; ci sono altri ancora che si stufano subito, perché pensano che il bello della vita non sia nell’ordine meticoloso, ma sia nascosto al di là dell’ordine, che non vuole dire immediatamente il disordine – anche se a volte sembra così – e se è nascosto lo si deve cercare per poterlo trovare. E lo puoi trovare solo se impari a vivere nel presente, a ripulire la tavola della vita da tutto ciò che vita non è, da tutte quelle logiche che incatenano il presente, da tutte quelle dinamiche che ti spostano continuamente verso il futuro.

La cosa strana, anzi addirittura sorprendente, è che ad un certo punto, proprio questa educazione alla distanza, tutto questo controllo del presente, tutto quell’ordine imposto, l’hanno chiamato educazione cristiana.  Addirittura! E poi, lo hanno fatto e sostenuto senza nessun ritegno, senza nessun tipo di vergogna, senza nessun tipo di pudore, senza nessun sospetto di un abuso, di una idiosincrasia: no, tutto normale. Ad un certo punto è divenuto normale ciò che normale non era, vale a dire che il Vangelo fosse qualcosa di ordinato per gente per bene, corretta, che rispetta la logica delle distanze. Ad un certo punto hanno fatto credere, quei furboni, che la moderazione era un valore evangelico, mentre la ribellione un disvalore. Che grandi furfanti! E’ chiaro che dentro il sistema che avevano strutturato sembrava proprio così, sembrava che le cose stessero proprio in quel modo. E da fuori, da quello che si vedeva, sembrava proprio che quella religione nata dal Vangelo chiamata cristianesimo, fosse roba per gente moderata, che stimolasse la tranquillità, che aiutasse le persone a vivere in pace, serene, senza problemi. Sembrava, addirittura – ed è questa la massima furberia – che il sistema di distanze fosse qualcosa di religioso, addirittura di sacro. Che birboni! E così, anche il cristianesimo era entrato nell’ordine delle distanze. C’era il prete da una parte e il popolo dall’altra. C’era il prete in un presbiterio che nei secoli è divenuto sempre più distante, che diceva le sue cose e là in basso, molto distanti, i fedeli che, per la maggior parte dei casi si trattava di donne fedeli. Anche loro, racchiuse nella loro distanza, facevano le loro cose: ognuno nel proprio mondo distante, pur essendo materialmente vicini. Sono trascorsi secoli e secoli in queste distanze assurde e nessuno o perlomeno così sembra, nessuno si chiedeva che senso avesse tutta questa distanza, tutta questa separazione. Non solo nessuno si chiedeva che senso avesse, ma soprattutto, nessuno si chiedeva perché pur essendo vicini bisognava vivere come se fossimo distanti.

Eppure Lui, il Signore – in tutti i sensi -, Lui Gesù, il figlio di Giuseppe e di Maria, quando inizia l’attività pubblica la prima cosa che fa è proprio quella di ridurre le distanze. Lui, quello che il popolo identificava come il Messia atteso e annunciato dai profeti, quando inizia l’attività pubblica, rompe tutte le distanze, le accorcia in modo impressionante. E’ un Maestro, un Rabbi, ma è così diverso dagli altri maestri per il modo di fare, per il modo di porsi, per il modo di stare al mondo, che la gente del popolo rimane subito entusiasta. Erano abituati con i farisei, i sadducei, con i dottori della legge, così pomposamente lontani dalla gente, così distanti da sembrare irraggiungibili. Si erano abituati alle leggi, ai precetti, all’osservanza esterna di regole e norme che i farisei applicavano, ritenendo tutto ciò religioso, più religioso, che lasciava sbigottita la grande libertà di movimento di Gesù. Il popolo lentamente si era abituato alla distanza, alla riverenza nei confronti dei signori del culto. E invece Gesù, pur essendo un Maestro e, per certi aspetti, uno di loro, pur essendo uno di loro ma, senza dubbio, diverso da loro, era così diverso da sembrare uno del popolo. Gesù si lasciava toccare. Perché Lui non poneva distanze, non parlava dall’alto al basso, non si faceva più importante degli altri, ma si lasciava toccare, e lui stesso toccava, baciava, accarezzava. E Gesù camminava per le strade, attorniato dalla gente e insegnava che Dio è un Padre con un cuore di Madre. E camminava per le strade con i sui discepoli e le sue discepole: camminava con loro, in mezzo a loro. Era bello vederlo giocare con i bambini! Era bello vedere Gesù il Figlio di Dio, camminare per le strade con vestiti come quelli della gente. Perché è chiarissimo che se vuoi mantenere le distanze, se vuoi far sapere agli altri che appartieni ad una casta, alla casta sacerdotale, che fai parte di qualcosa di diverso, che nel rapporto delle distanze appartieni a coloro che deve essere riverito; se ci tieni a questo tipo di linguaggio, allora caro mio, vestiti pure, metti i tuoi vestiti sacri, sgargianti e lussuosi; fai sentire tutto il peso della simbologia sacrale: fai capire a tutti chi sei, o meglio, chi pensi di essere. Eppure Gesù, cioè colui che dicono che sia all’origine di quella religione chiamata cristianesimo, tutta quanta ben strutturata nel sistema delle distanze, tutta quanta organizzata nelle sue celebrazioni sacrali, con l’arredo e il vestiario sacrale, ebbene Lui, che dovrebbe essere il fondatore di tutta questa roba, vestiva come tutti noi, camminava in mezzo al popolo e con il popolo: sembrava uno di noi, senza alcun tipo di distanze.

Non è un caso, allora, se lo troviamo costantemente in polemica con i farisei e i sadducei; non è un caso se proprio Gesù, il Maestro, il Figlio di Dio, che camminava in mezzo alla strada con i suoi discepoli e le sue discepole, vestito normalmente come tutti, mangiando assieme a loro, fosse costantemente in rotta con coloro, i dottori della legge, che insegnavano dall’alto al basso, e vestivano le vesti sacre fatte apposta per loro, per far capire chi erano e, soprattutto, a che distanza dovevano rimanere gli altri, cioè la plebe. Gesù se la prendeva con il loro modo d’insegnare, obbligando il popolo a portare il peso di precetti assurdi, che loro stessi non toccavano nemmeno con un dito. Gesù li rimproverava perché con il tempo avevano sostituito la Parola di Dio, che è amore e giustizia, con le tradizioni umane, corrotte e meschine. Gesù, infine, li rimproverava per le distanze assurde che avevano posto tra loro e il popolo. E dall’altra parte c’era Dio, il Dio della Bibbia, il Dio desideroso d’incontrarsi con l’uomo e la donna, il Dio la cui storia è un continuo processo di avvicinamento verso l’uomo, la donna, la terra. Sino ad arrivare a Gesù, suo Figlio, la massima espressione dell’annichilamento di tutte le distanze tra Dio è l’umanità. Gesù: uno di noi, il Dio con noi.
E allora, viene da pensare che dove c’è distanza, il Dio di Gesù Cristo fatica ad entrarci; dove c’è volontà di porre distanze, di segnare una differenza di quantità, Gesù, il Figlio di Dio che è venuto per eleminare ogni distanza e, quindi ogni ingiustizia, non trova spazio. Al contrario, però, dove c’è volontà di uguaglianza, dove le persone vivono accogliendosi per quello che sono, vale a dire figli e figlie di Dio, allora senza dubbio lì c’è il Signore della storia. Dove c’è un pezzo di umanità in qualsiasi posto del mondo, in cui le persone vivono come fratelli e sorelle, condividendo ciò che hanno, accogliendo chiunque senza distinzioni di razza, sesso o di qualsiasi altra cosa, allora, carissima amica, lì senza dubbio il Signore Gesù è con noi e in mezzo a noi.

4 commenti:

  1. Carissimo don Paolo,
    ti ringrazio per queste
    riflessioni ☺️🙏🏻😊!! Le condivido totalmente.
    In diverse circostanze ho espresso gli stessi concetti, provocando negli interlocutori, il più delle volte, una reazione di diffidente disappunto 😒.
    Eppure, come ben dici, lo stile di Gesù annullava le distanze, sia di origine etnica che di genere, di censo, di classe sociale... “Amatevi gli uni gli altri COME io vi amo...” è la disarmante semplicità dell’unico comandamento che Lui ci ha dato. Estremamente banale, per molti... decisamente ovvio e scontato, per troppi.
    “Noi amiamo!!” è l’obiezione che ci si sente muovere...
    Ma poi, “cosa vuol dire ‘amare’?”, ci si domanda oggi.
    E “chi è il mio ‘prossimo’?”, ci si chiedeva anche ‘allora’...
    Certo, “dobbiamo amare tutti”, ma loro, poi, ci ricambieranno?
    Meglio erigere muri, alzare fili spinati, scavare fossati, porre distanze... non si sa mai!!
    Poi, al bisogno, si cerca in tasca, si afferra qualche spicciolo e si tende la mano... ‘peccato’ che spesso gli occhi guardino da un altra parte e il cuore sia in “stand by”!
    Che ipocrisia!!!
    Ancora grazie, amico mio!
    Un regalo più bello, il giorno del mio compleanno, non potevo desiderare! 👋🏻😊🤗‼️

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  2. Bastassero le distanze, invece c'è anche la necessità di togliere lo spazio vitale, calpestando il diritto al presente di ogni nuovo nato fuori dalla casta, quasi si trattasse di usurpatori, di potenziali concorrenti. E i luoghi dove mantenere oggi le distanze ed eliminare gli indesiderati chiediamoci un po' quali sono oggi? poi c'è l'assistenzialismo che genera buonismo da una parte e pretese dall'altra, impedendo in ogni caso il manifestarsi dell'identità.

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  3. Ti ringrazio... e sono commossa..
    A presto

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