Paolo
Cugini
Siamo
soliti pensare alla missionarietà come qualcosa di specifico, una vocazione
specifica di qualcuno che esce dal proprio paese per annunciare il Vangelo
altrove. Missione, invece, significa desiderio di annunciare il Vangelo di Gesù
Cristo alle persone che vivono accanto a noi. Per fare questo è necessario, in
primo luogo, trovarsi insieme a pregare, per chiedere allo Spirito Santo
un’ispirazione, un’idea che orienti il nostro desiderio. E poi bisognerebbe
cominciare, passare dall’idea all’azione, per ascoltare la realtà e da lì
elaborare un progetto missionario da attuare nel nostro territorio. E’ con i
piedi per terra che è possibile ascoltare la presenza del Signore, che non si
trova solo fra le quattro mura di una Chiesa, ma nei cuori di tante persone che
vivono accanto a noi. Uscire significa, allora, la possibilità di scoprire
qualcosa di nuovo di quel Signore incontrato e lodato in Chiesa, un Signore che
ci precede costantemente, perché è al di là dei nostri pensieri e della nostra
immaginazione. Uscire per chi è abituato a stare e a vivere la fede tra le
comode mura del centro, non è facile. Spesso e volentieri chi vive una fede
parrocchiale non si pone nemmeno l’interrogativo della necessità, anzi,
dell’esigenza di pensare all’annuncio del Vangelo a coloro che non frequentano
gli spazi ecclesiali. C’è un’abitudine a pensare ad intra, che conduce a
credere che il cammino dell’evangelizzazione consista nel portare la gente
dentro i perimetri ecclesiali, facendo coincidere il Regno di Dio con la Chiesa,
la possibilità di salvezza, con la partecipazione alle attività parrocchiali.
Secoli di un certo modo di pensare e fare la Chiesa hanno lasciato un segno
profondo nella coscienza dei cattolici Occidentali.
Lo
slancio missionario fa bene alla comunità, perché la libera dalle paure e,
soprattutto, dalla tentazione di chiudersi in se stessa. Quando la comunità si
preoccupa d’annunciare il Vangelo sul territorio, ha meno tempo da perdere per
curare l’arredo interno, divenendo quindi più essenziale.
Come
ci farebbe bene questo slancio di uscita all’esterno, per lasciare le comode
poltrone e così stare un po' sulla strada! Forse ci aiuterebbe anche a scoprire
il dono della diversità dell’altro, ad imparare a vedere il bicchiere mezzo
pieno, ad abbandonare il cronico atteggiamento di giudizio negativo verso tutto
ciò che non collima con i nostri gusti e desideri. L’uscita della comunità
cristiana verso l’esterno, oltre a realizzare il motivo per cui è nata, vale a
dire, essere segno della presenza del Signore nel mondo, aiuterebbe a
umanizzare coloro che la abitano. Troppo tempo al chiuso di poche stanze fa
male all’anima, perché la rende ottusa, incapace di vedere e pensare al di là
di ciò che non ha mai visto e pensato. La rigidità, che va a braccetto con
l’arroganza e la supponenza, si presenta nelle persone chiuse nel proprio
mondo. Quando la Chiesa presta il fianco a questo stile chiuso, le persone che
vi circolano non le permettono di pensare alto, di ascoltare la realtà,
d’incontrare il Signore presente nella storia, perché fanno precedere la realtà
con le loro idee precostituite. Avvinghiarsi all’idea è il segno evidente di
un’arresa, di una pigrizia mentale che non permette alcun tipo di slancio in
avanti.
È
bello leggere nei vangeli lo sforzo che faceva Gesù per agganciare gli
interlocutori e inserirli in un cammino di salvezza. E’ bello incontrarlo non
solo nelle sinagoghe, ma sulle strade, sulle rive del mare di Galilea, sulle
barche per incontrare la gente, ascoltare i poveri. Significativo, poi, il
fatto che durante il cammino, inizia a mandare i suoi discepoli, perché la
missione s’impara facendola. Quante volte ho sentito questa litania sulle mie
reiterate sollecitazioni ad uscire: ma don non siamo preparati! Questa scusa va
sempre a braccetto con l’altra, che sostiene che chi deve andare e incontrare
la gente è il prete. E invece Gesù a metà del cammino, chiama i suoi discepoli
e li manda ad annunciare il Regno dei cieli. Secoli di monopolio clericale
hanno ridotto il laicato ad uno stato infantile veramente impressionante. Forse
bisognerebbe avere il coraggio di abbandonare lo stile parrocchiale, la sua
istituzione e puntare a qualcosa di più consono con l’attuale situazione. Più
che insistere sull’occupare un territorio, avrebbe più senso lavorare sullo
stile della comunità. Si passerebbe dall’ansia dei numeri, alla bellezza dello
stare insieme e dello stile comunitario che si crea quando ci si trova
ascoltando la Parola e sforzandosi di viverla.
Gli
itinerari di evangelizzazione difficilmente escono fuori a tavolino, frutto
esclusivo delle nostre proiezioni. L’uscire per andare verso coloro che non
frequentano i nostri spazi, stimola la creatività pastorale e ci libera
dall’ossessione di ripetere sempre le stesse proposte, allo stesso modo. Ci
libera, soprattutto dall’ossessione di costruire spazi sempre nuovi per
accogliere i fedeli. Non mi risulta che nel Vangelo Gesù agisca in modo tale da
incentivare la costruzione di templi. Lui è sempre interessato alle persone e
ai loro cammini. Le polemiche assurde che avvengono nei nostri consigli
pastorali sul tema dell’orario delle messe è un segnale fortissimo
dell’irrigidimento che il nostro sistema pastorale ha generato. Uscire da
questo sistema rigido è il grande compito che abbiamo dinanzi, nella
consapevolezza che chi deciderà di entrare in questo cammino di rottura,
incontrerà reazione che possono sfiorare la violenza non solo verbale. Abbiamo
bisogno di uscire perché ormai nelle nostre parrocchie si muore di noia.
Abbiamo la necessità di abitare la strada per smettere di perdere tempo a
pulire le sale, a sistemare le tende. Dobbiamo metterci al più presto in
cammino per ritrovare vigore nelle liturgie, che rischiano giorno dopo giorno,
domenica dopo domenica di essere spettacoli pietosi, riesumazioni di liturgie
medievali, attenzione maniacale ai pizzi e alle cotte, distanziando in questo
modo sempre di più la liturgia dalla vita. E poi c’interroghiamo sul perché le
nuove generazioni non rimangono con noi dopo la Cresima! La creatività
pastorale sgorga dal contatto con la realtà, perché, come c’insegna papa
Francesco, la realtà deve sempre precedere l’idea. E’ nella realtà che
incontriamo Colui che si è fatto uomo ed è venuto ad abitare in mezzo a noi e
ci indica il cammino.
Senza
dubbio lo sforzo missionario delle nostre comunità porterebbe materiale nuovo
sul tavolo dei nostri consigli pastorali. Ci aiuterebbe a scoprire la
situazione sociale di tante famiglie di immigrati e anche di italiani che
vivono in pessime condizioni sul nostro territorio. Ci aiuterebbe a comprendere
meglio la situazione giovanile dei nostri quartieri, per elaborare una
pastorale giovanile meno di élite e più in sintonia con la realtà circostante.
Uscire dai nostri spazi potrebbe produrre un pensiero nuovo nei nostri consigli
pastorali, un’attenzione nuova, più sensibile e misericordiosa, nei confronti
di tutti coloro che sotto la nostra “tenda da campo” – così come simpaticamente
chiama la chiesa papa Francesco – ci stanno ancora troppo stretti.
Riflessione molto profonda e vera...
RispondiEliminaA volte ho l'impressione che oggi, alle persone, del Vangelo importi ben poco.
Ma poi penso che forse la causa di questo scarso interesse è la nostra poca credibilità, la nostra autosufficienza, il nostro fare affidamento sulle sicurezze materiali...
Il Vangelo è fatto per i poveri, che ne colgono l'anelito alla speranza e la sete di giustizia perchè sono realtà che vivono quotidianamente.
Chi è sazio ed annoiato non coglie il messaggio evangelico.
Che lo Spirito ci dia il coraggio di metterci in cammino e di ritrovare l'entusiasmo dell'annuncio...
il problema è che invece del Vangelo abbiamo venduto devozioni: le conseguenze sono sotto gli occhi...
EliminaQuerido Pe. Paolo,
RispondiEliminaSua bênção!
Aqui na Paróquia que participo, em Aracaju (Brasil) foi instituído o Projeto: "Igreja em Missão". Consiste em todos os domingos pela manhã, após a missa, um grupo de fiés (já participantes de pastorais e movimentos da igreja) é enviado em missão para anunciar o Evangelho nas ruas do bairro.
Gostaria de partilhar a minha experiência: simplesmente maravilhosa. Ao passo que evangelizamos sentimos que também somos evangelizados.
Numa das visitas às casas, encontramos um jovem que, distante da Igreja, disse que os cristãos deveriam ser o exemplo e muitas vezes é o contrário.
Assim, fica claro, que o Evangelho que devemos anunciar, Jesus mesmo, certamente com a nossa boca, com as nossas palavras à Palavra, mas o testemunho deve ser visto nas nossas vidas.
Como dizia Charles de Foucauld: "Gritar o Evangelho com a vida".
Palavras comovem, exemplos arrastam.
Que Jesus, nos impulsione pelo Seu Espírito Santo, a chegar às almas mais sedentas da Sua Presença e da Sua infinita misericórdia.
Lendo a vossa experiencia fico pensando a quanta resistencia encontro toda vez que tento propor algo de simil. Mas espero que devagar também o pessoal daqui acorde pela missao.
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