sabato 4 novembre 2017

LA MISSIONE S’IMPARA FACENDOLA





Paolo Cugini


Siamo soliti pensare alla missionarietà come qualcosa di specifico, una vocazione specifica di qualcuno che esce dal proprio paese per annunciare il Vangelo altrove. Missione, invece, significa desiderio di annunciare il Vangelo di Gesù Cristo alle persone che vivono accanto a noi. Per fare questo è necessario, in primo luogo, trovarsi insieme a pregare, per chiedere allo Spirito Santo un’ispirazione, un’idea che orienti il nostro desiderio. E poi bisognerebbe cominciare, passare dall’idea all’azione, per ascoltare la realtà e da lì elaborare un progetto missionario da attuare nel nostro territorio. E’ con i piedi per terra che è possibile ascoltare la presenza del Signore, che non si trova solo fra le quattro mura di una Chiesa, ma nei cuori di tante persone che vivono accanto a noi. Uscire significa, allora, la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo di quel Signore incontrato e lodato in Chiesa, un Signore che ci precede costantemente, perché è al di là dei nostri pensieri e della nostra immaginazione. Uscire per chi è abituato a stare e a vivere la fede tra le comode mura del centro, non è facile. Spesso e volentieri chi vive una fede parrocchiale non si pone nemmeno l’interrogativo della necessità, anzi, dell’esigenza di pensare all’annuncio del Vangelo a coloro che non frequentano gli spazi ecclesiali. C’è un’abitudine a pensare ad intra, che conduce a credere che il cammino dell’evangelizzazione consista nel portare la gente dentro i perimetri ecclesiali, facendo coincidere il Regno di Dio con la Chiesa, la possibilità di salvezza, con la partecipazione alle attività parrocchiali. Secoli di un certo modo di pensare e fare la Chiesa hanno lasciato un segno profondo nella coscienza dei cattolici Occidentali. 

Lo slancio missionario fa bene alla comunità, perché la libera dalle paure e, soprattutto, dalla tentazione di chiudersi in se stessa. Quando la comunità si preoccupa d’annunciare il Vangelo sul territorio, ha meno tempo da perdere per curare l’arredo interno, divenendo quindi più essenziale. 
Come ci farebbe bene questo slancio di uscita all’esterno, per lasciare le comode poltrone e così stare un po' sulla strada! Forse ci aiuterebbe anche a scoprire il dono della diversità dell’altro, ad imparare a vedere il bicchiere mezzo pieno, ad abbandonare il cronico atteggiamento di giudizio negativo verso tutto ciò che non collima con i nostri gusti e desideri. L’uscita della comunità cristiana verso l’esterno, oltre a realizzare il motivo per cui è nata, vale a dire, essere segno della presenza del Signore nel mondo, aiuterebbe a umanizzare coloro che la abitano. Troppo tempo al chiuso di poche stanze fa male all’anima, perché la rende ottusa, incapace di vedere e pensare al di là di ciò che non ha mai visto e pensato. La rigidità, che va a braccetto con l’arroganza e la supponenza, si presenta nelle persone chiuse nel proprio mondo. Quando la Chiesa presta il fianco a questo stile chiuso, le persone che vi circolano non le permettono di pensare alto, di ascoltare la realtà, d’incontrare il Signore presente nella storia, perché fanno precedere la realtà con le loro idee precostituite. Avvinghiarsi all’idea è il segno evidente di un’arresa, di una pigrizia mentale che non permette alcun tipo di slancio in avanti.
È bello leggere nei vangeli lo sforzo che faceva Gesù per agganciare gli interlocutori e inserirli in un cammino di salvezza. E’ bello incontrarlo non solo nelle sinagoghe, ma sulle strade, sulle rive del mare di Galilea, sulle barche per incontrare la gente, ascoltare i poveri. Significativo, poi, il fatto che durante il cammino, inizia a mandare i suoi discepoli, perché la missione s’impara facendola. Quante volte ho sentito questa litania sulle mie reiterate sollecitazioni ad uscire: ma don non siamo preparati! Questa scusa va sempre a braccetto con l’altra, che sostiene che chi deve andare e incontrare la gente è il prete. E invece Gesù a metà del cammino, chiama i suoi discepoli e li manda ad annunciare il Regno dei cieli. Secoli di monopolio clericale hanno ridotto il laicato ad uno stato infantile veramente impressionante. Forse bisognerebbe avere il coraggio di abbandonare lo stile parrocchiale, la sua istituzione e puntare a qualcosa di più consono con l’attuale situazione. Più che insistere sull’occupare un territorio, avrebbe più senso lavorare sullo stile della comunità. Si passerebbe dall’ansia dei numeri, alla bellezza dello stare insieme e dello stile comunitario che si crea quando ci si trova ascoltando la Parola e sforzandosi di viverla.

Gli itinerari di evangelizzazione difficilmente escono fuori a tavolino, frutto esclusivo delle nostre proiezioni. L’uscire per andare verso coloro che non frequentano i nostri spazi, stimola la creatività pastorale e ci libera dall’ossessione di ripetere sempre le stesse proposte, allo stesso modo. Ci libera, soprattutto dall’ossessione di costruire spazi sempre nuovi per accogliere i fedeli. Non mi risulta che nel Vangelo Gesù agisca in modo tale da incentivare la costruzione di templi. Lui è sempre interessato alle persone e ai loro cammini. Le polemiche assurde che avvengono nei nostri consigli pastorali sul tema dell’orario delle messe è un segnale fortissimo dell’irrigidimento che il nostro sistema pastorale ha generato. Uscire da questo sistema rigido è il grande compito che abbiamo dinanzi, nella consapevolezza che chi deciderà di entrare in questo cammino di rottura, incontrerà reazione che possono sfiorare la violenza non solo verbale. Abbiamo bisogno di uscire perché ormai nelle nostre parrocchie si muore di noia. Abbiamo la necessità di abitare la strada per smettere di perdere tempo a pulire le sale, a sistemare le tende. Dobbiamo metterci al più presto in cammino per ritrovare vigore nelle liturgie, che rischiano giorno dopo giorno, domenica dopo domenica di essere spettacoli pietosi, riesumazioni di liturgie medievali, attenzione maniacale ai pizzi e alle cotte, distanziando in questo modo sempre di più la liturgia dalla vita. E poi c’interroghiamo sul perché le nuove generazioni non rimangono con noi dopo la Cresima! La creatività pastorale sgorga dal contatto con la realtà, perché, come c’insegna papa Francesco, la realtà deve sempre precedere l’idea. E’ nella realtà che incontriamo Colui che si è fatto uomo ed è venuto ad abitare in mezzo a noi e ci indica il cammino.
Senza dubbio lo sforzo missionario delle nostre comunità porterebbe materiale nuovo sul tavolo dei nostri consigli pastorali. Ci aiuterebbe a scoprire la situazione sociale di tante famiglie di immigrati e anche di italiani che vivono in pessime condizioni sul nostro territorio. Ci aiuterebbe a comprendere meglio la situazione giovanile dei nostri quartieri, per elaborare una pastorale giovanile meno di élite e più in sintonia con la realtà circostante. Uscire dai nostri spazi potrebbe produrre un pensiero nuovo nei nostri consigli pastorali, un’attenzione nuova, più sensibile e misericordiosa, nei confronti di tutti coloro che sotto la nostra “tenda da campo” – così come simpaticamente chiama la chiesa papa Francesco – ci stanno ancora troppo stretti.  

 


4 commenti:

  1. Riflessione molto profonda e vera...
    A volte ho l'impressione che oggi, alle persone, del Vangelo importi ben poco.
    Ma poi penso che forse la causa di questo scarso interesse è la nostra poca credibilità, la nostra autosufficienza, il nostro fare affidamento sulle sicurezze materiali...
    Il Vangelo è fatto per i poveri, che ne colgono l'anelito alla speranza e la sete di giustizia perchè sono realtà che vivono quotidianamente.
    Chi è sazio ed annoiato non coglie il messaggio evangelico.
    Che lo Spirito ci dia il coraggio di metterci in cammino e di ritrovare l'entusiasmo dell'annuncio...

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    1. il problema è che invece del Vangelo abbiamo venduto devozioni: le conseguenze sono sotto gli occhi...

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  2. Querido Pe. Paolo,
    Sua bênção!
    Aqui na Paróquia que participo, em Aracaju (Brasil) foi instituído o Projeto: "Igreja em Missão". Consiste em todos os domingos pela manhã, após a missa, um grupo de fiés (já participantes de pastorais e movimentos da igreja) é enviado em missão para anunciar o Evangelho nas ruas do bairro.
    Gostaria de partilhar a minha experiência: simplesmente maravilhosa. Ao passo que evangelizamos sentimos que também somos evangelizados.
    Numa das visitas às casas, encontramos um jovem que, distante da Igreja, disse que os cristãos deveriam ser o exemplo e muitas vezes é o contrário.
    Assim, fica claro, que o Evangelho que devemos anunciar, Jesus mesmo, certamente com a nossa boca, com as nossas palavras à Palavra, mas o testemunho deve ser visto nas nossas vidas.
    Como dizia Charles de Foucauld: "Gritar o Evangelho com a vida".

    Palavras comovem, exemplos arrastam.

    Que Jesus, nos impulsione pelo Seu Espírito Santo, a chegar às almas mais sedentas da Sua Presença e da Sua infinita misericórdia.

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  3. Lendo a vossa experiencia fico pensando a quanta resistencia encontro toda vez que tento propor algo de simil. Mas espero que devagar também o pessoal daqui acorde pela missao.

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