A cura di Paolo Cugini
Sin
dalle pagine introduttive Theobald chiarisce che il testo è in continuità e
sintonia con il suo precedente lavoro del 2009: La recezione del Vaticano II. A
suo avviso la questione ermeneutica dell’interpretazione dell’evento conciliare
è sempre all’ordine del giorno nel cammino della Chiesa. L’ispirazione per
questo nuovo libro a detta dello stesso autore, viene dalle intuizioni di Papa
Francesco elaborate nell’Evangeli Gaudium. Il testo è suddiviso in due parti.
La prima è riservata al problema ermeneutico, mentre la seconda è un ritorno ai
testi principali del Concilio per proporre una lettura intertestuale per
tentare di cogliere una visione più globale del messaggio conciliare.
Sfogliando
l’indice della prima parte dell’opera, che è senza dubbio più corposa della
seconda, si nota chiaramente l’intento del taglio ermeneutico che Theobald ha
voluta dare. Si passa così dall’analisi dello stile pastorale del Concilio
Vaticano II, alla riflessione sulla sua recezione e sui possibili sviluppi
futuro. C’è innanzi tutto una premessa ermeneutica he non può essere sottesa,
vale a dire che non si può separare mai l’opera del Concilio dalla sua
recezione. Sempre in queste prime battute, Theobald chiarisce che il tanto
decantato principio di Pastoralità come chiave ermeneutica dei testi del
Concilio Vaticano II, non emerge direttamente dalla struttura del corpus, ma è
di ordine stilistico “e indica una
maniera di procedere, una conversione o una riforma individuale e collettiva
come viene sottolineato con forza dal discorso finale di Paolo VI”. È il
modo di gestire la conflittualità e la violenza interna alla Chiesa che offre
al Vaticano II la sua credibilità evangelica. Sono diversi i passaggi in cui
questa scelta di stile evangelico è evidente. Theobald evidenzia quel passaggio
della Dignitatis Humanae in cui nella ricerca della verità il testo manifesta
il rispetto delle verità degli altri. In questo frangente come in altri, il
Concio Vaticano II opta per lo stile del dialogo più che la condanna. Ecco
perché secondo Theobald parlare in termini di stile pastorale è un modo di
riconoscere il cambiamento di un paradigma nel modo di affrontare i problemi
nella Chiesa. Per confermare questa opinione Theobald riporta la tesi di John
W. O’Malley secondo il quale la novità del Concilio consisterebbe nell’evento
di linguaggio che esso rappresenta. “A
poco a poco – sostiene O’Malley – Il
Vaticano II ha configurato un nuovo gioco linguistico, cioè una nuova retorica
unica in se stessa, che culmina in Gaudium et spes”. Secondo O’Malley lo
stile risulta da due elementi: un genere letterario e una terminologia ad esso
adeguata. O’Malley identifica il genere letterario nell’eloquenza epidittica
che sostituisce quella giudiziaria. Per quanto riguarda la terminologia individua
cinque tratti: l’accentuazione delle relazioni orizzontali; l’insistenza sul
servizio a discapito del controllo; l’orientamento verso il futuro; la
sostituzione di una terminologia inclusiva a quella di esclusione; la
preponderanza della partecipazione attiva di tutti rispetto ad un’adesione
passiva. Theobald sostiene che per individuare i tratti distintivi dello stile
pastorale del Vaticano II sia necessario collegare il corpus all’evento
conciliare stesso, che tra l’altro è l’indicazione dell’Officina Bolognese
guidata da Giuseppe Alberigo. Se si prende sul serio il principio di
Pastoralità indicato da Giovanni XXIII al Concilio, è necessario collocare
l’unità nel modo di procedere, più che cercare nei generi letterari. Questo
modo id procedere “consiste nel
comprendere il corpus testuale del Vaticano II da subito come espressione di
un’esperienza extratestuale, esperienza di ascolto della parola di Dio e di
incontro effettivo con l’infinita varietà di coloro ai quali l’assemblea vuole
rivolgersi”. Secondo Theobald lo stile pastorale del Vaticano II non può
essere ridotto né alla configurazione sincronica di un evento di linguaggio
((O’Malley) né all’esperienza storica degli attori conciliari (scuola di
Bologna), “ma si colloca bene in un modo
evangelico di procedere e di mettersi d’accordo, inscritto nel corpus testuale
aperto che, proprio a causa di questa <apertura>, resta a sua volta
intimamente legato ad una maniera di collocarsi hic et nunc tra la Parola di
Dio e i suoi possibili recettori”. Il principio pastorale ed ecumenico si
carica di due importanti implicazioni: il suo legame con l’idea di riforma e il
suo rapporto con il radicamento storico e contestuale dei destinatari del
Vangelo vengono progressivamente esplicitati e rifluiscono sulla forma che il
magistero prende man mano durante il suo percorso conciliare. L’autore è
consapevole che l’adozione di un modo evangelico di procedere, non può essere
imposto ma dipende dalla conversione non programmabile dei partecipanti. Forse
è stato questo il problema dell’assunzione di questo stile dialogico e attento
alle diversità all’interno del Concilio composto da tante persone provenienti
da ogni angolo del mondo. Per mostrare il valore della recezione dello stile
pastorale del Concilio Vaticano II, l’autore propone alcuni esempi. Il primo è
l’Esortazione apostolica Evangelii
nuntiandi del 1974. Come sostenne lo stesso autore dell’Esortazione,
l’obiettivo principale del Concilio consisteva nel rendere la Chiesa del XX
secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo. L’altro
esempio riportato dall’autore è l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut Unum sint del 1995 che ripropone una
rilettura di quanto è scaturito nel dibattito teologico sul tema
dell’ecumenismo, in sintonia con il documento conciliare Unitatis redintegratio. Secondo Theobald lo stile del testo è
evangelico e narrativo. Il tono dialogico Ve aperto lo si percepisce anche
dalla domanda che il papa rivolge per aiutarlo a svolgere al meglio il servizio
del primato. Ultimo esempio proposto di recezione dello stile di Pastoralità
proposto dal Concilio Vaticano II è l’incontro interreligioso id Assisi del
1986. La novità principale di questo evento è secondo l’autore, la
visualizzazione, la gestualità del rispetto della differenza religiosa nel
cuore dell’umanità. C’è un grande messaggio di apertura che proviene da questo
evento epocale: “Un nuovo modo di
articolare l’alterità dell’altro e ciò che lega gli uni agli altri: esiste un
modo di comprendere il fondamento comune della comunità umana che non è
superamento o soppressione della differenza religiosa ma, al contrario,
rispetto di quest’ultima in Dio”.
Nel
terzo capitolo della prima parte Theobald affronta il problema della recezione
del Concilio Vaticano II ponendo sullo sfondo la funzione normativa della
storia nella teologia cattolica. Dinanzi ai criteri classici d’interpretazione
– Theobald cita i luoghi teologici di Melchior Cano in cui la storia era al
decimo e ultimo posto – il Concilio Vaticano II proprio per il suo carattere
pastorale sembra avere un valore canonico minore rispetto ai precedenti. Oppure
si tratta di un nuovo genere che ha provocato la mutazione stessa del
“dogmatico” e del “dottrinale” collocandoli all’interno stesso della relazione
pastorale che è segnata dalla storia. Per Theobald la risposta la si trova
solamente dando spazio alla storia del Vaticano II. Sin dal 1962 viene posta in
evidenza l’articolazione tra stile pastorale e stile ecumenico. Lo pone in
risalto per la prima volta Karl Rahner e la maggior parte degli oratori della
maggioranza s’ispirerà a questa argomentazione. Theobald fa notare che a
partire dal terzo e quarto periodo del Concilio verranno precisate due
ulteriori implicazioni del principio di pastoralità. Il primo riguarda l’introduzione
del vocabolario della “riforma” che prevede la presa in considerazione della
ricettività ecumenica. La seconda determinazione riguarda la posizione storica
e culturale dei recettori e, di conseguenza, la storicità della rivelazione
stessa. un certo senso il principio di pastoralità resta controverso e senza
effetto di ritorno sull’interpretazione globale del corpus. Tutto ciò perché,
al di là delle prime apparenze che vedevano emergere nell’elaborazione dei
testi una centralità del tema ecclesiologico, in realtà tale centralità
svanisce nel proseguo del Concilio. C’è a detta di Theobald un’apertura storica
che proviene dal processo di apprendimento interno al Concilio che fa si che: “la formulazione relativamente compiuta del
principio di pastoralità del 1965 resti senza effetto di ritorno sul
trattamento di un certo numero di questioni particolari, sulla comprensione del
legame indissolubile tra il <dottrinale> e il <pastorale> e, a
maggior ragione, sulla comprensione dello statuto normativo del corpus
conciliare nella sua globalità”. E’ per questo motivo che Theobald si
chiede se la redazione di un catechismo come compendio di tutta la dottrina
cattolica, che fu proposto nel 1985 e realizzato nel 1992 sia il sintomo di uno
smarrimento che oggi è ancora più profondo.
Sul
problema del valore teologico dei testi Theobald appoggia la tesi di O.
Semmelroth che sostiene che se il Concilio non ha usato il mezzo della
definizione dogmatica è sempre in vista della forma pastorale che plasma anche
l’impegno dottrinale. In questo modo il Concilio è riuscito ad integrare la coscienza storica del nostro
tempo. La recezione del principio di pastoralità da parte del Concilio ha senza
dubbio richiesto un lungo processo di apprendimento e assimilazione anche nei
decenni successivi allo stesso Concilio. Questo principio di pastoralità che
dice della storicità della verità annunciata da Gesù è comprensibile solamente
se si tiene conto che la relazione originaria di Gesù e i suoi è fondatrice
della storicità stessa del processo di tradizione, E’, allora, la creatività
dei discepoli, come recettori attivi del messaggio di Gesù. Che diviene
visibile nel cammino del Concilio di recepire e trasmettere, sotto l’ausilio
dello Spirito Santo il Vangelo alle nuove generazioni. E’ per questo motivo che
Theobald afferma che: “Il Concilio
Vaticano II ha inaugurato la mutazione stessa del dogmatico, legata nella sua
forma classica alla cristianità, e ha collocato la “normatività”, inscritta
nell’identità cristiana, su un altro piano, ossia all’interno della relazione
pastorale di tradizione, anch’essa sempre segnata dal suo contesto culturale e
storico”. Prendendo spunto dalla famosa espressione di Benedetto XVI che a
proposito del Concilio Vaticano II parlò di ermeneutica della riforma, Theoblad
indica quattro tappe della suddetta riforma. In primo luogo il Vaticano II è
senza dubbio il primo concilio generale che mette in gioco la totalità della
tradizione cristiana nelle sue diverse tappe, anche se questa presa di
coscienza appartiene al periodo post-conciliare. In secondo luogo, Theobald
sottolinea il fatto che l’acquisizione di Dei Verbum consiste nell’aver
iniziato l’integrazione tra la fase patristica, medievale e moderna nella
tradizione della Chiesa. In questa prospettiva, la tradizione nel senso
processuale del termine, diventa il concetto integrativo. In terza battuta
Theobald sostiene la tesi di Rahner che nel 1966 affermava che il Vaticano II
rappresenta il primo Concilio di una Chiesa in via di globalizzazione. Infine,
quando si percepisce il compito di reinterpretazione del Vangelo per il nostro
tempo, ci si può interrogare di nuovo sullo statuto normativo dei testi del
Vaticano II e sul loro genere. Su può così affermare che: “Il concilio ci
propone una visione del mistero della Chiesa nel cuore della storia
dell’umanità illuminata dalla luce del Dio trinitario”.
Secondo
Theobald la sfida principale oggi consiste nell’entrare più profondamente nelle
modalità di procedere che il concilio ha saputo inventare. La posta in gioco di
una lettura genetica o processuale del Vaticano II è di poter mettere il futuro
del Vangelo e della Chiesa in seno alla società nelle mani di tutto il popolo
di Dio. Nel capitolo settimo Theobald riflette sul concetto di stile che
secondo lui è implicato nel principio pastorale proposto al Concilio da
Giovanni XXIII. Ci sono tre aspetti indispensabili che il concetto di stile
evoca. In primo luogo, la singolarità di un’opera o la creatività unica del suo
autore. Quest’opera creativa non può dispiegare – ed è il secondo aspetto – il
suo effetto specifico che in un determinato processo d’incontro dove: “lo spettatore, l’uditore o il lettore si
impegnano personalmente nel processo creativo della messa in forma artistica”.
Questo effetto dell’opera sul suo recettore si dispiega, in terzo luogo, nel
mondo. Lo stile, allora, dice di un modo di abitare il mondo. Il Vaticano II ha
aiutato a comprendere che il cristianesimo non può essere integralmente colto
attraverso enunciati dogmatici, ma dev’essere compreso come un processo
d’incontri e di mutue relazioni. È questo che s’intravede nello stile di Gesù,
che non ha semplicemente offerto delle informazioni, ma ha trasmesso dei
contenuti attraverso le relazioni che stabiliva.
Secondo Theobald la
prospettiva di fondazione di Lumen Gentium e il punto di partenza della visione
ecclesio-genetica di Ad Gentes possono convergere proprio a partire da questa
indicazione dello stile evangelico che rimanda sempre ad una reciprocità tra relazione
ed annuncio. “La presenza ecclesiale del
cristianesimo si mostra come un processo specifico d’incontri e di mutue
relazioni nel mondo, che diventa sacramentale quando le persone implicate in
questo processo nella loro unicità, soprattutto gli ultimi di un gruppo o di
una società, diventano segni messianici”. La Lumen Gentium approfondisce il
discorso sullo stile nel capitolo riguardante la vocazione universale alla
santità nella Chiesa (c. V). Considerando l’andamento della Chiesa in Europa
Theobald sostiene che il suo avvenire non può essere affrontato che attraverso
un rapporto creativo con l’origine del cristianesimo. Per questo l’autore
sottolinea come tappe significative della ripresa da parte della Chiesa di
elementi significativi dello stile delle origini l’ospitalità, la relazione con
la Sacra Scrittura, la percezione delle dimensioni corporali della fede, la
presa in considerazione della dimensione universale della Chiesa e, infine, la
vita contemplativa.
Nell’ultimo
capitolo Theobald affronta il tema della recezione della Gaudium et Spes.
L’autore si sofferma ad analizzare in modo dettagliato soprattutto la recezione
franco-tedesca del principio dei segni dei tempi. Theobald sottolinea la
tipologia della recezione germano- tedesca così com’è stata presentata da
Hans-Joachim Sander, il quale sosteneva che: “la novità affascinante e inquietante della costituzione consiste nel
suo modo di articolare ciò che non può essere relativizzato, cioè la verità, e
ciò che è relativo, cioè i luoghi dove ne è questione” (193). I segni dei
tempi sono, dunque, secondo Sander, indicazioni di luoghi nel mezzo di questo
tempo. Essi liberano qualcosa che è messo sotto silenzio, ma che è
rappresentativo della lotta per l’umanità dell’uomo e per condizioni di vita degne
di lui. Il Cardinal Lehman, a proposito di questo dibattito, sosteneva che la
versione finale della Gaudium et Spes dev’essere oggi riletta, prestando
attenzione a molte parti del testo che secondo lui comportano diversi livelli,
a volte ricche di tensioni e di contraddizioni. In ogni modo, secondo Theobald,
occorre ammettere le difficoltà che dipendono dal carattere incompiuto del
testo della Gaudium et Spes e dal carattere settoriale del suo approccio da
parte di discipline teologiche diverse. L’autore mette in evidenza anche il
nuovo contesto culturale che provoca il discernimento di nuovi segni dei tempi
che vanno interpretati. A questo riguardo Theobald indica un triplice criterio
di discernimento. In primo luogo la fede, che dev’essere compresa alla maniera
alla maniera dei racconti di guarigione, vale a dire come una fede che sorge a
contatto con il Signore, ma che è già all’opera nel suo interlocutore. La
Gaudium et Spes conosce l’equivalente di questa fede antropologica che
definisce con l’aiuto di nozioni come dignità umana e vocazione dell’uomo.
Altro elemento importante di questa fede così com’è presentata nei vangeli è la
sua presenza in coloro che non fanno parte del popolo d’Israele. È il
meravigliarsi della fede dell’altro che costituisce il secondo criterio di
discernimento nell’epoca attuale. L’ultimo criterio che Theobald sottolinea è
la fecondità che gli eventi messianici che sono prodotti dalla fede, che apre
la storia di qualcuno e che influenzano le moltitudini. “Questo criterio – sottolinea l’autore – si trova nei sinottici, ad esempio nella parabola del seminatore, ma
è già all’opera nella missione apostolica di Paolo. Esso rende difficile il
processo di discernimento perché il tipo di fecondità messianica al quale tende
non cessa di mescolarsi agli eventi prodotti dall’opinione pubblica ed
ecclesiale, formando con essi una sorta di corpus permixtum” (209).
Nella
conclusione Theobald ribadisce che ritiene il Concilio Vaticano II il primo di
una Chiesa divenuta mondiale e interculturale più l’ultimo di una cristianità
euro-atlantica. Dinnanzi alla possibile critica di una lettura parziale in
chiave eurocentrica dei testi del Concilio Vaticano II, soprattutto per quanto
riguarda la Gaudium et Spes, L’autore si difende sostenendo che “il
cattolicesimo europeo ed euro-atlantico rimane insostituibile nella polifonia
delle Chiese particolari”. Al di là di queste affermazioni cha aprono il fianco
a tante critiche, riusciamo ad accompagnare Theobald quando sostiene che è
possibile abbandonare una lettura prevalentemente eurocentrica nell’attuale
contesto storico, riflettendo sulla presa di coscienza che la sua visione
messianica e genetica della Chiesa è sostenuta e attraversata da un’ermeneutica
pastorale. In questa prospettiva si percepisce nelle pagine dei testi
conciliari, il rispetto assoluto dell’alterità dell’altro e quindi di una
pluralità di punti di vista. Questa sensibilità è per l’autore visibile nella
centralità che viene data ai poveri, conforme alla prospettiva data dal gruppo
conciliare “la Chiesa dei poveri”.
La maggior sorpresa di Theobald nei
confronti del dibattito post conciliare, consiste nella percezione del poco
spazio dato alla liturgia. Nonostante ciò vanno riprese e approfondite le
raccomandazioni della Sacrosantum Concilium sulla partecipazione attiva dei
fedeli, che hanno avuto l’intento di consegnare ai fedeli i tratti di una fede
adulta.
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