Paolo Cugini
Nonostante tutti gli sforzi messi in
atto da Joseph Ratzinger per dimostrare la continuità del Concilio Vaticano II
con i precedenti concili[1],
è fuori discussione che il Vaticano II è stata una vera e propria ventata di
novità, che ha rotto con lo stile di Chiesa in vigore e indicato un nuovo
cammino. Se di continuità si vuole parlare è con la Chiesa dei primi secoli.
Non a caso lo stesso Concilio Vaticano II a più riprese e in diversi documenti
ha invitato i fedeli a ritornare alle fonti, a cercare le motivazioni del
proprio cammino nella Chiesa dell’epoca d’oro, la Chiesa dei Padri. Quali sono,
allora, quegli aspetti che hanno contaminato tutta la Chiesa, nonostante gli
sforzi fatti nel dopo Concilio per attutirne l’impatto innovativo?
Prima di tutto lo stile. Il teologo
francese Christoph Theobald[2]
chiarisce che il tanto decantato principio di pastoralità come chiave
ermeneutica dei testi del Concilio Vaticano II, non emerge direttamente dalla
struttura del corpus, ma è di ordine stilistico: “Indica una maniera di procedere, una conversione o una riforma
individuale e collettiva come viene sottolineato con forza dal discorso finale
di Paolo VI”. È il modo di gestire la conflittualità e la violenza interna
alla Chiesa che offre al Vaticano II la sua credibilità evangelica. Sono
diversi i passaggi in cui questa scelta di stile evangelico è evidente. Theobald
indica quel passaggio della Dignitatis
Humanae in cui nella ricerca della verità il testo manifesta il rispetto
delle verità degli altri. In questo frangente come in altri, il Concio Vaticano
II opta per lo stile del dialogo più che la condanna, come invece era avvenuto
nei precedenti concili. Ecco perché secondo Theobald parlare in termini di
stile pastorale è un modo di riconoscere il cambiamento di un paradigma nel
modo di affrontare i problemi nella Chiesa. Per confermare questa opinione
Theobald riporta la tesi di John W. O’Malley secondo il quale la novità del
Concilio consisterebbe nell’evento di linguaggio che esso rappresenta. “A poco a poco – sostiene O’Malley – Il Vaticano II ha configurato un nuovo
gioco linguistico, cioè una nuova retorica unica in se stessa, che culmina in
Gaudium et spes”[3].
Secondo O’Malley lo stile risulta da
due elementi: un genere letterario e una terminologia ad esso adeguata.
O’Malley identifica il genere letterario nell’eloquenza epidittica che
sostituisce quella giudiziaria. Per quanto riguarda la terminologia individua
cinque tratti: l’accentuazione delle relazioni orizzontali; l’insistenza sul
servizio a discapito del controllo; l’orientamento verso il futuro; la
sostituzione di una terminologia inclusiva a quella di esclusione; la
preponderanza della partecipazione attiva di tutti rispetto ad un’adesione
passiva. Theobald sostiene che per individuare i tratti distintivi dello stile
pastorale del Vaticano II sia necessario collegare il corpus all’evento
conciliare stesso, che tra l’altro è l’indicazione dell’Officina Bolognese
guidata da Giuseppe Alberigo. Se si prende sul serio il principio di
Pastoralità indicato da Giovanni XXIII al Concilio, è necessario collocare
l’unità nel modo di procedere, più che cercare nei generi letterari. Questo
modo id procedere “consiste nel
comprendere il corpus testuale del Vaticano II da subito come espressione di
un’esperienza extratestuale, esperienza di ascolto della parola di Dio e di
incontro effettivo con l’infinita varietà di coloro ai quali l’assemblea vuole
rivolgersi”[4].
Secondo Theobald lo stile pastorale del
Vaticano II non può essere ridotto né alla configurazione sincronica di un
evento di linguaggio ((O’Malley) né all’esperienza storica degli attori
conciliari (scuola di Bologna), “ma si
colloca bene in un modo evangelico di procedere e di mettersi d’accordo,
inscritto nel corpus testuale aperto che, proprio a causa di questa
<apertura>, resta a sua volta intimamente legato ad una maniera di
collocarsi hic et nunc tra la Parola di Dio e i suoi possibili recettori”[5].
Il principio pastorale ed ecumenico si carica di due importanti implicazioni:
il suo legame con l’idea di riforma e il suo rapporto con il radicamento
storico e contestuale dei destinatari del Vangelo vengono progressivamente
esplicitati e rifluiscono sulla forma che il magistero prende man mano durante
il suo percorso conciliare. L’autore è consapevole che l’adozione di un modo
evangelico di procedere, non può essere imposto ma dipende dalla conversione
non programmabile dei partecipanti. Forse è stato questo il problema
dell’assunzione dello stile dialogico e attento alle diversità all’interno del
Concilio composto da tante persone provenienti da ogni angolo del mondo.
Per
mostrare il valore della recezione dello stile pastorale del Concilio Vaticano
II, Theobald propone alcuni esempi. Il primo è l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1974. Come
sostenne lo stesso autore dell’Esortazione, l’obiettivo principale del Concilio
consisteva nel rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare
il Vangelo all’umanità del XX secolo. L’altro esempio riportato dall’autore è
l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut Unum
sint del 1995, che ripropone una rilettura di quanto è scaturito nel
dibattito teologico sul tema dell’ecumenismo, in sintonia con il documento
conciliare Unitatis redintegratio.
Secondo Theobald lo stile del testo è evangelico e narrativo. Il tono dialogico
e aperto lo si percepisce anche dalla domanda che il papa rivolge per aiutarlo
a svolgere al meglio il servizio del primato. Ultimo esempio proposto di
recezione dello stile di Pastoralità proposto dal Concilio Vaticano II è
l’incontro interreligioso id Assisi del 1986. La novità principale di questo
evento è secondo Theobald, la visualizzazione, la gestualità del rispetto della
differenza religiosa nel cuore dell’umanità. C’è un grande messaggio di apertura
che proviene da questo evento epocale: “Un
nuovo modo di articolare l’alterità dell’altro e ciò che lega gli uni agli
altri: esiste un modo di comprendere il fondamento comune della comunità umana
che non è superamento o soppressione della differenza religiosa ma, al
contrario, rispetto di quest’ultima in Dio”[6].
Lo stile evangelico del dialogo, più
che del giudizio, dell’ascolto, più che la presunzione sommario di sentirsi in
dovere d’indicare al mondo cosa deve fare, ha contaminato positivamente il
cammino della Chiesa. I consigli pastorali, gli organi sinodali a vari livelli,
rappresentano senza dubbio il frutto positivo dello sforzo messo in atto dal
Concilio.
Un altro elemento emerso nel Concilio
Vaticano II che ha contribuito a contaminare tutta la Chiesa è stato il
dibattito sulla chiesa povera e dei poveri. È vero che non molto di questo
dibattito è passato nei documenti conciliari. Sta di fatto, però, che le
riflessioni proposte e dibattute all’interno del Concilio hanno lasciato un
segno profondo in molti vescovi, al punto da contaminarne le scelte future
nelle diocesi di appartenenza. Figura importante del dibattito sulla Chiesa dei
poveri è il sacerdote francese Paul Gauthier[7].
Vicino alle esperienze dei piccoli fratelli di Charles de Foucauld e attento
all’esperienza dei preti operai già presenti in Francia sin dalla decada degli
anni ’30, Gauthier durante le prime settimane del Concilio diffonde un dossier
in titolato: “Gesù, la chiesa e i poveri”,
che offrirà l’occasione ai vescovi e ai teologi approfondire la riflessione sul
rapporto tra la Chiesa e i poveri. Il dossier nasceva dalla percezione che la
chiesa avendo perso il contatto con la classe operaia aveva perso il contatto
con i poveri. Da qui la domanda centrale: la separazione tra la Chiesa e le
masse operaie era sintomo della frattura più profonda tra la Chiesa e Cristo?
Gauthier metteva il dito sulla piaga della percezione che il mondo aveva di una
Chiesa distante dalle masse lavoratrici, “Gauthier
mise in connessione – Come ricorda il teologo Matteo Mennini in un suo
recente lavoro[8] - l’idea che Cristo si era inserito nel mondo
dei lavoratori e dei poveri direttamente alla dottrina della Mystici
Corporis, in cui si affermava che quanto proveniva dalla divina pienezza di
Cristo affluisce alla Chiesa affinché essa quanto è più possibile sia a Lui
somigliante”[9].
Gauthier nel dossier richiamava la
Chiesa alla sua originaria vocazione di annunciare il Vangelo ai poveri e, per
realizzare tale progetto, era necessario vivere in mezzo a loro. Il sacerdote
francese diverrà l’animatore di un gruppo dci vescovi convocati sin dal mese di
ottobre 1962 dai vescovi Himmer e Hakim, per iniziare a riflettere sulle
scottanti questioni del dossier di Gauthier. L’incontro aveva prodotto varie
conclusioni e proposte tra le quali quella di rimuovere gli ostacoli che
impedivano alla Chiesa di mostrare al mondo operaio la sua vera natura e
missione. La percezione condivisa dal gruppo è che i poveri non sono in grado
di accogliere i messaggi della Chiesa perché scandalizzati dai segni esteriori
e dal tenore di vita dei suoi membri. Due membri del gruppo, i vescovi Mercier
e Helder Camara, proposero di rivolgersi al Papa affinché il Concilio
si occupasse esplicitamente della povertà della Chiesa. Veniva sempre più
manifestata una profonda preoccupazione per una rinnovata comprensione della
povertà della Chiesa come condizione per la sua credibilità nel mondo e che la
povertà della Chiesa non poteva semplicemente essere un tema fra gli altri.
Secondo Mennini, fu proprio questa forte presenza del Collegio Belga nel
Concilio che provocò il dibattito della Chiesa povera e dei poveri anche al di
fuori delle stanze vaticane. Di fatto, l’autore cita lettere pastorali di molti
vescovi e riviste cattoliche parlando ampiamente e approfonditamente del tema
in questione.
Nel frattempo Paul Gauthier vero e
proprio animatore del gruppo di lavoro che si era costituito sul tema della
povertà della Chiesa, nel 1963 lancia un nuovo libro nel quale si chiedeva come
mai fosse così arduo parlare della Chiesa dei poveri. Gauthier era consapevole
che il problema della chiesa dei poveri metteva in discussione il tradizionale
impianto ecclesiologico. “Per un
cristiano – sottolinea Mennini –
Cristo è tanto presente nei poveri come lo è nell’Eucarestia e nella gerarchia.
Ammettere ciò significava molto più che un orientamento pastorale, non era
l’aggiornamento di una prassi, ma del contenuto stesso della fede”[10].
Sappiamo come le cose sono andate a
finire. In ogni modo, il patto delle catacombe, sancito da un gruppo di vescovi
alla vigilia del Concilio, per assumere l’impegno di realizzare una chiesa
povera e per i poveri, e la significativa recezione avvenuta nel Continente
latinoamericano proprio su questo punto, rivela quanto importante sia stato
l’influsso del Concilio in questa direzione.
L’altro tema che ha contribuito a
ripensare la Chiesa nel suo modo id presentarsi al mondo e che l’ha contaminata,
è stata la presa di coscienza che, prima di essere una gerarchia e presentarsi
come tale, la Chiesa è popolo di Dio. Molti in questi anni, sono stati gli
studi apparsi su questo modo di pensare la Chiesa. Molto si è scritto anche,
sul recupero del concetto di Chiesa come popolo di Dio dal punto di vista
biblico. Significative mi sembrano le riflessioni di P. Neuner[11]
il quale sostiene che, sfogliando le pagine dei documenti del Concilio Vaticano
II, si percepisce come la chiesa non è più pensata solamente nelle istituzioni
e nei ministri ordinati e che il popolo è più ampio di loro. La riflessione sul
laicato raccoglie la ricchezza della ricerca biblico-patristica dei decenni
precedenti al Concilio. “Ogni laico in
virtù dei doni che gli sono stati fati, è testimonio e insieme vivo strumento
della stessa missione della chiesa” (LG 33). Già da passi come questo si
percepisce l’intenzione dei padri conciliari di andare al di là delle
contrapposizioni, per camminare verso una visione di Chiesa come popolo di Dio.
In questa prospettiva Neuner sottolinea l’importanza storica del decreto
sull’apostolato dei laici nel quale si afferma che i laici sono deputati dal
Signore all’apostolato.
Nei più diversi ambiti tipici della
complessità del tempo presente, spesso la missione della chiesa può essere
esercitata solo dai laici. Questa presenza significativa dei laici nella
comunità viene ribadita nella Sacrosanctum Concilium, dove viene
sottolineata la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla celebrazione
eucaristica. Neuner parla senza mezzi termini di rottura delle affermazioni
conciliari sul laicato rispetto all’insegnamento ufficiale precedente. “La valorizzazione dei laici nella chiesa è
uno dei punti nei quali il concilio ha superato se stesso”[12].
Neuner riconosce comunque, che il Concilio Vaticano II ha avuto nei confronti
della sua minoranza conservatrice un tratto estremamente premuroso. Integrare
le minoranze fu un desiderio dei padri conciliari e soprattutto di Paolo VI. In
ogni modo “nelle affermazioni del
Concilio sui laici si vede allora una nuova e fondamentale presa di coscienza
che è in discontinuità con una lunga tradizione di segno opposto”[13].
C’è la presa di coscienza che dopo il
Concilio i laici hanno assunto di fatto in maniera intensa diversi compiti e
doveri che prima erano svolti dai preti. Ci si interroga sulla responsabilità
comune di tutti i fedeli, soprattutto in quelle comunità che non possono più
beneficiare della presenza permanente del presbitero. Si giunge così a
percepire che esiste un’unica missione della chiesa che viene svolta dai
molteplici servizi che vanno esercitati in dipendenza l’uno dall’altro. È il
principio della comunione nella diversità, che esige dal canto suo la
valorizzazione degli organismi che permettano il funzionamento della comunità
come, ad esempio, il consiglio pastorale.
Senza dubbio sono molti gli aspetti
presenti nel Concilio Vaticano II che hanno rappresentato una novità e una
sfida per tutta la Chiesa. Sottolineare lo stile, il dibattito della chiesa
povera e dei poveri, il recupero della visione della Chiesa come popolo di Dio,
significa stimolare una direzione del discorso ecclesiologico, soprattutto alla
luce delle provocazioni pastorali di Papa Francesco. Lo stile conciliare ha
messo in discussione il tono arrogante delle asserzioni ecclesiali, ha mostrato
cioè il limite di un modo di entrare in relazione con il mondo che, invece di
annunciargli il Vangelo, l’ha allontanato. Stile conciliare significa
attenzione all’interlocutore, perché Gesù c’insegna che il primo modo per
portare la vita di Dio all’uomo e alla donna che incontriamo nel nostro cammino,
consiste nell’agganciare l’interlocutore. E se questo comporta l’abbassarsi, il
farsi prossimo, la grandezza di quello che si desidera offrire è tale che il
discepolo e la discepola non hanno problemi a compiere il cammino di
abbassamento, che è il cammino percorso da Gesù nell’incarnazione. Il Concilio,
allora, ponendo attenzione all’uomo e alla donna, non ha insistito
sull’evidenza delle asserzioni, ma sulla simpatia con coloro alle quali
s’intendeva dirigersi. Questo stile dialogico e empatico ha contaminato la
Chiesa, smascherando da una parte l’arroganza di uno stile autoritario di porsi
con il mondo e, dall’altra provocando il desiderio di vivere sino in fondo la
novità del Vangelo, anche nello stile, nel mondo di porsi in relazioni con gli
altri, con il mondo.
Lo stile evangelico esige come
manifestazione esterna, non la pompa che proviene dalla ricchezza, ma una
sobrietà che solo la povertà può donare. Il dibattito sulla Chiesa povera e dei
poveri, oltre ad essere un programma dei discepoli e delle discepole del
Signore sulla parte nella quale si decide di stare nel mondo, vale a dire dalla
parte dei poveri, manifesta anche l’esigenza intrinseca di una vita povera e
sobria come conseguenza della sequela. Anche a questo livello la contaminazione
provocata dal Concilio apre un processo di smascheramento, che mette il dito
sull’inautenticità della ricchezza della Chiesa e sulla necessità di promuovere
un cammino di ripensamento delle strategie di evangelizzazione messe in atto,
che non possono essere affidate alla sola possibilità delle strutture e delle
condizioni economiche. La Chiesa povera e dei poveri mette sotto accusa il
modello economico capitalista e neo-liberale, come antitetico al messaggio di
Gesù e allo stile della Chiesa. Se, infatti, lo stile di Gesù è povero e a
favore dei poveri, basato sulla condivisone e l’attenzione agli ultimi, ben
diversa è la proposta della visione capitalista basata sulla rivalità e la
competizione, che stimolano uno stile di vita individualiste ed egocentrico.
Solamente stando dalla parte dei poveri e toccando la loro carne è possibile
smascherare i discorsi edulcorati del capitalismo che con i potenti mezzi
comunicativi tende a mascherare le menzogne vendendole come verità. Mentre il
Vangelo è annuncio di vita per tutti, promovendo l’uguaglianza degli uomini e
delle donne, la proposta del capitalismo che stiamo pagando sulla nostra pelle,
è un cammino di esclusione della maggioranza a favore di pochi privilegiati. La
contaminazione conciliare che propone lo stile povero di Gesù, mette a nudo
l’inganno del discorso capitalista, che favorisce la libertà per pochi
privilegiati a scapito delle moltitudini di poveri che vivono di stenti. La
Chiesa deve schierarsi denunciando le disuguaglianze del sistema capitalista e
proporre uno stile di vita evangelico fondato sulla solidarietà, sulla
condivisone nelle piccole comunità di fratelli e sorelle.
Popolo di Dio, allora, - ed è la
terza contaminazione che intendo sottolineare promossa dal Concilio Vaticano II
– dice dell’uguaglianza dei figli e delle figlie di Dio, fratelli e sorelle del
Signore. Uguaglianza che non significa negazione delle differenze, ma
valorizzazione delle stesse. Solo in una Chiesa Popolo di Dio, infatti, le
persone possono esprimere la propria diversità in quanto nella comunità trovano
spazio per esprimerla. Al contrario, in un modello di Chiesa che s’identifica
con il potere gerarchico, solo qualcuno trova spazio per esprimersi, a scapito
della maggioranza. La Chiesa come Popolo di Dio stimola la democraticità della
comunità, che non si ferma ad aspettare che qualcuno dica dall’alto che cosa si
deve fare e pensare, ma trova lo slancio, stimolati dall’esempio di Gesù, di
cercare il cammino da intraprendere mettendosi in ascolto della Parola e camminando
assieme ai fratelli e le sorelle incontrati nella comunità. Le intuizioni
Conciliari espresse nella Lumen Gentium
e nella Dei Verbum hanno stimolato
non solo la Chiesa latinoamericana, che sin dall’Incontro avvenuto a Medellin
(1968) ha fatto proprie le indicazioni conciliari promovendo e incentivando le
Comunità ecclesiali di Base (CEBs), ma anche nelle tante scelte pastorali messe
in atto nelle diocesi di tutto il mondo nell’immediato post-concilio, affinché
i fedeli prendessero sempre più coscienza della loro dignità di Figli e figlie
di Dio, membri attivi della Chiesa, chiamati a prendere l’iniziativa nella vita
della comunità.
Contaminazioni quelle conciliari,
che, anche se in alcuni momenti si è fatto di tutto per disinnescarne la forza
dirompente, sono ormai il fermento di un nuovo modo di essere Chiesa, ben
visibile nell’attuale papato di Francesco.
[1] Nell'indire
un Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario
dell'apertura del Concilio Vaticano II, Joseph Ratzinger parlò di una
"giusta ermeneutica" di quell'evento. La corretta comprensione del
Concilio – precisano le istruzioni per l'Anno della fede – non è la cosiddetta
"ermeneutica della discontinuità e della rottura ma l’ermeneutica della
riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa".
[3] Ivi, p.
71.
[4] Ivi, p. 83
[5] Ivi, p.
96.
[6]
Ivi, p. 113.
[7]
Paul Gauthier (1914-2002) è stato un prete e teologo francese, considerato uno
dei precursori della Teologia della Liberazione. Ha operato soprattutto in
Medio Oriente e in America Latina in favore delle persone più povere. Assieme
ad Ettore Masina ha fondato la Rete Radie Resh per la solidarietà
internazionale.
[8] MENNINI, M., La chiesa dei poveri. Dal Concilio Vaticano
II a Papa Francesco, Guerini e Associati, Milano 2016
[9] Ivi, p.
38.
[10] Ivi, p.
79.
[11]
NEUNER, P., Per una teologia del
popolo di Dio, Queriniana, Brescia 2016
[12] Ivi, p.
110.
[13] Ivi, p.
111.
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