martedì 12 settembre 2017

LA CONTAMINAZIONE CONCILIARE




Paolo Cugini

Nonostante tutti gli sforzi messi in atto da Joseph Ratzinger per dimostrare la continuità del Concilio Vaticano II con i precedenti concili[1], è fuori discussione che il Vaticano II è stata una vera e propria ventata di novità, che ha rotto con lo stile di Chiesa in vigore e indicato un nuovo cammino. Se di continuità si vuole parlare è con la Chiesa dei primi secoli. Non a caso lo stesso Concilio Vaticano II a più riprese e in diversi documenti ha invitato i fedeli a ritornare alle fonti, a cercare le motivazioni del proprio cammino nella Chiesa dell’epoca d’oro, la Chiesa dei Padri. Quali sono, allora, quegli aspetti che hanno contaminato tutta la Chiesa, nonostante gli sforzi fatti nel dopo Concilio per attutirne l’impatto innovativo?
Prima di tutto lo stile. Il teologo francese Christoph Theobald[2] chiarisce che il tanto decantato principio di pastoralità come chiave ermeneutica dei testi del Concilio Vaticano II, non emerge direttamente dalla struttura del corpus, ma è di ordine stilistico: “Indica una maniera di procedere, una conversione o una riforma individuale e collettiva come viene sottolineato con forza dal discorso finale di Paolo VI”. È il modo di gestire la conflittualità e la violenza interna alla Chiesa che offre al Vaticano II la sua credibilità evangelica. Sono diversi i passaggi in cui questa scelta di stile evangelico è evidente. Theobald indica quel passaggio della Dignitatis Humanae in cui nella ricerca della verità il testo manifesta il rispetto delle verità degli altri. In questo frangente come in altri, il Concio Vaticano II opta per lo stile del dialogo più che la condanna, come invece era avvenuto nei precedenti concili. Ecco perché secondo Theobald parlare in termini di stile pastorale è un modo di riconoscere il cambiamento di un paradigma nel modo di affrontare i problemi nella Chiesa. Per confermare questa opinione Theobald riporta la tesi di John W. O’Malley secondo il quale la novità del Concilio consisterebbe nell’evento di linguaggio che esso rappresenta. “A poco a poco – sostiene O’Malley – Il Vaticano II ha configurato un nuovo gioco linguistico, cioè una nuova retorica unica in se stessa, che culmina in Gaudium et spes”[3].
Secondo O’Malley lo stile risulta da due elementi: un genere letterario e una terminologia ad esso adeguata. O’Malley identifica il genere letterario nell’eloquenza epidittica che sostituisce quella giudiziaria. Per quanto riguarda la terminologia individua cinque tratti: l’accentuazione delle relazioni orizzontali; l’insistenza sul servizio a discapito del controllo; l’orientamento verso il futuro; la sostituzione di una terminologia inclusiva a quella di esclusione; la preponderanza della partecipazione attiva di tutti rispetto ad un’adesione passiva. Theobald sostiene che per individuare i tratti distintivi dello stile pastorale del Vaticano II sia necessario collegare il corpus all’evento conciliare stesso, che tra l’altro è l’indicazione dell’Officina Bolognese guidata da Giuseppe Alberigo. Se si prende sul serio il principio di Pastoralità indicato da Giovanni XXIII al Concilio, è necessario collocare l’unità nel modo di procedere, più che cercare nei generi letterari. Questo modo id procedere “consiste nel comprendere il corpus testuale del Vaticano II da subito come espressione di un’esperienza extratestuale, esperienza di ascolto della parola di Dio e di incontro effettivo con l’infinita varietà di coloro ai quali l’assemblea vuole rivolgersi[4].
 Secondo Theobald lo stile pastorale del Vaticano II non può essere ridotto né alla configurazione sincronica di un evento di linguaggio ((O’Malley) né all’esperienza storica degli attori conciliari (scuola di Bologna), “ma si colloca bene in un modo evangelico di procedere e di mettersi d’accordo, inscritto nel corpus testuale aperto che, proprio a causa di questa <apertura>, resta a sua volta intimamente legato ad una maniera di collocarsi hic et nunc tra la Parola di Dio e i suoi possibili recettori[5]. Il principio pastorale ed ecumenico si carica di due importanti implicazioni: il suo legame con l’idea di riforma e il suo rapporto con il radicamento storico e contestuale dei destinatari del Vangelo vengono progressivamente esplicitati e rifluiscono sulla forma che il magistero prende man mano durante il suo percorso conciliare. L’autore è consapevole che l’adozione di un modo evangelico di procedere, non può essere imposto ma dipende dalla conversione non programmabile dei partecipanti. Forse è stato questo il problema dell’assunzione dello stile dialogico e attento alle diversità all’interno del Concilio composto da tante persone provenienti da ogni angolo del mondo. 
Per mostrare il valore della recezione dello stile pastorale del Concilio Vaticano II, Theobald propone alcuni esempi. Il primo è l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1974. Come sostenne lo stesso autore dell’Esortazione, l’obiettivo principale del Concilio consisteva nel rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo. L’altro esempio riportato dall’autore è l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut Unum sint del 1995, che ripropone una rilettura di quanto è scaturito nel dibattito teologico sul tema dell’ecumenismo, in sintonia con il documento conciliare Unitatis redintegratio. Secondo Theobald lo stile del testo è evangelico e narrativo. Il tono dialogico e aperto lo si percepisce anche dalla domanda che il papa rivolge per aiutarlo a svolgere al meglio il servizio del primato. Ultimo esempio proposto di recezione dello stile di Pastoralità proposto dal Concilio Vaticano II è l’incontro interreligioso id Assisi del 1986. La novità principale di questo evento è secondo Theobald, la visualizzazione, la gestualità del rispetto della differenza religiosa nel cuore dell’umanità. C’è un grande messaggio di apertura che proviene da questo evento epocale: “Un nuovo modo di articolare l’alterità dell’altro e ciò che lega gli uni agli altri: esiste un modo di comprendere il fondamento comune della comunità umana che non è superamento o soppressione della differenza religiosa ma, al contrario, rispetto di quest’ultima in Dio[6].
Lo stile evangelico del dialogo, più che del giudizio, dell’ascolto, più che la presunzione sommario di sentirsi in dovere d’indicare al mondo cosa deve fare, ha contaminato positivamente il cammino della Chiesa. I consigli pastorali, gli organi sinodali a vari livelli, rappresentano senza dubbio il frutto positivo dello sforzo messo in atto dal Concilio.
Un altro elemento emerso nel Concilio Vaticano II che ha contribuito a contaminare tutta la Chiesa è stato il dibattito sulla chiesa povera e dei poveri. È vero che non molto di questo dibattito è passato nei documenti conciliari. Sta di fatto, però, che le riflessioni proposte e dibattute all’interno del Concilio hanno lasciato un segno profondo in molti vescovi, al punto da contaminarne le scelte future nelle diocesi di appartenenza. Figura importante del dibattito sulla Chiesa dei poveri è il sacerdote francese Paul Gauthier[7]. Vicino alle esperienze dei piccoli fratelli di Charles de Foucauld e attento all’esperienza dei preti operai già presenti in Francia sin dalla decada degli anni ’30, Gauthier durante le prime settimane del Concilio diffonde un dossier in titolato: “Gesù, la chiesa e i poveri”, che offrirà l’occasione ai vescovi e ai teologi approfondire la riflessione sul rapporto tra la Chiesa e i poveri. Il dossier nasceva dalla percezione che la chiesa avendo perso il contatto con la classe operaia aveva perso il contatto con i poveri. Da qui la domanda centrale: la separazione tra la Chiesa e le masse operaie era sintomo della frattura più profonda tra la Chiesa e Cristo? Gauthier metteva il dito sulla piaga della percezione che il mondo aveva di una Chiesa distante dalle masse lavoratrici, “Gauthier mise in connessione – Come ricorda il teologo Matteo Mennini in un suo recente lavoro[8] -  l’idea che Cristo si era inserito nel mondo dei lavoratori e dei poveri direttamente alla dottrina della Mystici Corporis, in cui si affermava che quanto proveniva dalla divina pienezza di Cristo affluisce alla Chiesa affinché essa quanto è più possibile sia a Lui somigliante[9].
Gauthier nel dossier richiamava la Chiesa alla sua originaria vocazione di annunciare il Vangelo ai poveri e, per realizzare tale progetto, era necessario vivere in mezzo a loro. Il sacerdote francese diverrà l’animatore di un gruppo dci vescovi convocati sin dal mese di ottobre 1962 dai vescovi Himmer e Hakim, per iniziare a riflettere sulle scottanti questioni del dossier di Gauthier. L’incontro aveva prodotto varie conclusioni e proposte tra le quali quella di rimuovere gli ostacoli che impedivano alla Chiesa di mostrare al mondo operaio la sua vera natura e missione. La percezione condivisa dal gruppo è che i poveri non sono in grado di accogliere i messaggi della Chiesa perché scandalizzati dai segni esteriori e dal tenore di vita dei suoi membri. Due membri del gruppo, i vescovi Mercier e Helder Camara, proposero di rivolgersi al Papa affinché il Concilio si occupasse esplicitamente della povertà della Chiesa. Veniva sempre più manifestata una profonda preoccupazione per una rinnovata comprensione della povertà della Chiesa come condizione per la sua credibilità nel mondo e che la povertà della Chiesa non poteva semplicemente essere un tema fra gli altri. Secondo Mennini, fu proprio questa forte presenza del Collegio Belga nel Concilio che provocò il dibattito della Chiesa povera e dei poveri anche al di fuori delle stanze vaticane. Di fatto, l’autore cita lettere pastorali di molti vescovi e riviste cattoliche parlando ampiamente e approfonditamente del tema in questione.
Nel frattempo Paul Gauthier vero e proprio animatore del gruppo di lavoro che si era costituito sul tema della povertà della Chiesa, nel 1963 lancia un nuovo libro nel quale si chiedeva come mai fosse così arduo parlare della Chiesa dei poveri. Gauthier era consapevole che il problema della chiesa dei poveri metteva in discussione il tradizionale impianto ecclesiologico. “Per un cristiano – sottolinea Mennini – Cristo è tanto presente nei poveri come lo è nell’Eucarestia e nella gerarchia. Ammettere ciò significava molto più che un orientamento pastorale, non era l’aggiornamento di una prassi, ma del contenuto stesso della fede[10].
Sappiamo come le cose sono andate a finire. In ogni modo, il patto delle catacombe, sancito da un gruppo di vescovi alla vigilia del Concilio, per assumere l’impegno di realizzare una chiesa povera e per i poveri, e la significativa recezione avvenuta nel Continente latinoamericano proprio su questo punto, rivela quanto importante sia stato l’influsso del Concilio in questa direzione.
L’altro tema che ha contribuito a ripensare la Chiesa nel suo modo id presentarsi al mondo e che l’ha contaminata, è stata la presa di coscienza che, prima di essere una gerarchia e presentarsi come tale, la Chiesa è popolo di Dio. Molti in questi anni, sono stati gli studi apparsi su questo modo di pensare la Chiesa. Molto si è scritto anche, sul recupero del concetto di Chiesa come popolo di Dio dal punto di vista biblico. Significative mi sembrano le riflessioni di P. Neuner[11] il quale sostiene che, sfogliando le pagine dei documenti del Concilio Vaticano II, si percepisce come la chiesa non è più pensata solamente nelle istituzioni e nei ministri ordinati e che il popolo è più ampio di loro. La riflessione sul laicato raccoglie la ricchezza della ricerca biblico-patristica dei decenni precedenti al Concilio. “Ogni laico in virtù dei doni che gli sono stati fati, è testimonio e insieme vivo strumento della stessa missione della chiesa” (LG 33). Già da passi come questo si percepisce l’intenzione dei padri conciliari di andare al di là delle contrapposizioni, per camminare verso una visione di Chiesa come popolo di Dio. In questa prospettiva Neuner sottolinea l’importanza storica del decreto sull’apostolato dei laici nel quale si afferma che i laici sono deputati dal Signore all’apostolato.
Nei più diversi ambiti tipici della complessità del tempo presente, spesso la missione della chiesa può essere esercitata solo dai laici. Questa presenza significativa dei laici nella comunità viene ribadita nella Sacrosanctum Concilium, dove viene sottolineata la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla celebrazione eucaristica. Neuner parla senza mezzi termini di rottura delle affermazioni conciliari sul laicato rispetto all’insegnamento ufficiale precedente. “La valorizzazione dei laici nella chiesa è uno dei punti nei quali il concilio ha superato se stesso[12]. Neuner riconosce comunque, che il Concilio Vaticano II ha avuto nei confronti della sua minoranza conservatrice un tratto estremamente premuroso. Integrare le minoranze fu un desiderio dei padri conciliari e soprattutto di Paolo VI. In ogni modo “nelle affermazioni del Concilio sui laici si vede allora una nuova e fondamentale presa di coscienza che è in discontinuità con una lunga tradizione di segno opposto[13].
C’è la presa di coscienza che dopo il Concilio i laici hanno assunto di fatto in maniera intensa diversi compiti e doveri che prima erano svolti dai preti. Ci si interroga sulla responsabilità comune di tutti i fedeli, soprattutto in quelle comunità che non possono più beneficiare della presenza permanente del presbitero. Si giunge così a percepire che esiste un’unica missione della chiesa che viene svolta dai molteplici servizi che vanno esercitati in dipendenza l’uno dall’altro. È il principio della comunione nella diversità, che esige dal canto suo la valorizzazione degli organismi che permettano il funzionamento della comunità come, ad esempio, il consiglio pastorale.
Senza dubbio sono molti gli aspetti presenti nel Concilio Vaticano II che hanno rappresentato una novità e una sfida per tutta la Chiesa. Sottolineare lo stile, il dibattito della chiesa povera e dei poveri, il recupero della visione della Chiesa come popolo di Dio, significa stimolare una direzione del discorso ecclesiologico, soprattutto alla luce delle provocazioni pastorali di Papa Francesco. Lo stile conciliare ha messo in discussione il tono arrogante delle asserzioni ecclesiali, ha mostrato cioè il limite di un modo di entrare in relazione con il mondo che, invece di annunciargli il Vangelo, l’ha allontanato. Stile conciliare significa attenzione all’interlocutore, perché Gesù c’insegna che il primo modo per portare la vita di Dio all’uomo e alla donna che incontriamo nel nostro cammino, consiste nell’agganciare l’interlocutore. E se questo comporta l’abbassarsi, il farsi prossimo, la grandezza di quello che si desidera offrire è tale che il discepolo e la discepola non hanno problemi a compiere il cammino di abbassamento, che è il cammino percorso da Gesù nell’incarnazione. Il Concilio, allora, ponendo attenzione all’uomo e alla donna, non ha insistito sull’evidenza delle asserzioni, ma sulla simpatia con coloro alle quali s’intendeva dirigersi. Questo stile dialogico e empatico ha contaminato la Chiesa, smascherando da una parte l’arroganza di uno stile autoritario di porsi con il mondo e, dall’altra provocando il desiderio di vivere sino in fondo la novità del Vangelo, anche nello stile, nel mondo di porsi in relazioni con gli altri, con il mondo.
Lo stile evangelico esige come manifestazione esterna, non la pompa che proviene dalla ricchezza, ma una sobrietà che solo la povertà può donare. Il dibattito sulla Chiesa povera e dei poveri, oltre ad essere un programma dei discepoli e delle discepole del Signore sulla parte nella quale si decide di stare nel mondo, vale a dire dalla parte dei poveri, manifesta anche l’esigenza intrinseca di una vita povera e sobria come conseguenza della sequela. Anche a questo livello la contaminazione provocata dal Concilio apre un processo di smascheramento, che mette il dito sull’inautenticità della ricchezza della Chiesa e sulla necessità di promuovere un cammino di ripensamento delle strategie di evangelizzazione messe in atto, che non possono essere affidate alla sola possibilità delle strutture e delle condizioni economiche. La Chiesa povera e dei poveri mette sotto accusa il modello economico capitalista e neo-liberale, come antitetico al messaggio di Gesù e allo stile della Chiesa. Se, infatti, lo stile di Gesù è povero e a favore dei poveri, basato sulla condivisone e l’attenzione agli ultimi, ben diversa è la proposta della visione capitalista basata sulla rivalità e la competizione, che stimolano uno stile di vita individualiste ed egocentrico. Solamente stando dalla parte dei poveri e toccando la loro carne è possibile smascherare i discorsi edulcorati del capitalismo che con i potenti mezzi comunicativi tende a mascherare le menzogne vendendole come verità. Mentre il Vangelo è annuncio di vita per tutti, promovendo l’uguaglianza degli uomini e delle donne, la proposta del capitalismo che stiamo pagando sulla nostra pelle, è un cammino di esclusione della maggioranza a favore di pochi privilegiati. La contaminazione conciliare che propone lo stile povero di Gesù, mette a nudo l’inganno del discorso capitalista, che favorisce la libertà per pochi privilegiati a scapito delle moltitudini di poveri che vivono di stenti. La Chiesa deve schierarsi denunciando le disuguaglianze del sistema capitalista e proporre uno stile di vita evangelico fondato sulla solidarietà, sulla condivisone nelle piccole comunità di fratelli e sorelle.
Popolo di Dio, allora, - ed è la terza contaminazione che intendo sottolineare promossa dal Concilio Vaticano II – dice dell’uguaglianza dei figli e delle figlie di Dio, fratelli e sorelle del Signore. Uguaglianza che non significa negazione delle differenze, ma valorizzazione delle stesse. Solo in una Chiesa Popolo di Dio, infatti, le persone possono esprimere la propria diversità in quanto nella comunità trovano spazio per esprimerla. Al contrario, in un modello di Chiesa che s’identifica con il potere gerarchico, solo qualcuno trova spazio per esprimersi, a scapito della maggioranza. La Chiesa come Popolo di Dio stimola la democraticità della comunità, che non si ferma ad aspettare che qualcuno dica dall’alto che cosa si deve fare e pensare, ma trova lo slancio, stimolati dall’esempio di Gesù, di cercare il cammino da intraprendere mettendosi in ascolto della Parola e camminando assieme ai fratelli e le sorelle incontrati nella comunità. Le intuizioni Conciliari espresse nella Lumen Gentium e nella Dei Verbum hanno stimolato non solo la Chiesa latinoamericana, che sin dall’Incontro avvenuto a Medellin (1968) ha fatto proprie le indicazioni conciliari promovendo e incentivando le Comunità ecclesiali di Base (CEBs), ma anche nelle tante scelte pastorali messe in atto nelle diocesi di tutto il mondo nell’immediato post-concilio, affinché i fedeli prendessero sempre più coscienza della loro dignità di Figli e figlie di Dio, membri attivi della Chiesa, chiamati a prendere l’iniziativa nella vita della comunità.
Contaminazioni quelle conciliari, che, anche se in alcuni momenti si è fatto di tutto per disinnescarne la forza dirompente, sono ormai il fermento di un nuovo modo di essere Chiesa, ben visibile nell’attuale papato di Francesco.




[1] Nell'indire un Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Concilio Vaticano II, Joseph Ratzinger parlò di una "giusta ermeneutica" di quell'evento. La corretta comprensione del Concilio – precisano le istruzioni per l'Anno della fede – non è la cosiddetta "ermeneutica della discontinuità e della rottura ma l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa".
[2] Christoph Theobald, L’avvenire del Concilio. Nuovi approcci al Vaticano II, EDB Bologna 2016
[3] Ivi, p. 71.
[4] Ivi, p. 83
[5] Ivi, p. 96.
[6] Ivi, p. 113.
[7] Paul Gauthier (1914-2002) è stato un prete e teologo francese, considerato uno dei precursori della Teologia della Liberazione. Ha operato soprattutto in Medio Oriente e in America Latina in favore delle persone più povere. Assieme ad Ettore Masina ha fondato la Rete Radie Resh per la solidarietà internazionale.
[8] MENNINI, M., La chiesa dei poveri. Dal Concilio Vaticano II a Papa Francesco, Guerini e Associati, Milano 2016
[9] Ivi, p. 38.
[10] Ivi, p. 79.
[11] NEUNER, P., Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana, Brescia 2016
[12] Ivi, p. 110.
[13] Ivi, p. 111.

Nessun commento:

Posta un commento