Paolo
Cugini
Agosto
1986
È l’eredità culturale, cioè la
trasmissione da una generazione all’altra di credenze o di tecniche. Nel
dominio della filosofia l’appello alla tradizione implica il riconoscimento
della verità della tradizione stessa. La tradizione diventa, da questo punto di
vista, una garanzia di verità e talvolta l’unica garanzia possibile. (U.T.E.T. voce curata da N.
Abbagnano).
Ogni singolo uomo è
situato all’interno di una tradizione che, nel suo senso etimologico significa
consegnare, porgere. Il consegnare indica al contempo due elementi: un essere
che porge e un contenuto che è posto da. Conseguenza immediata di ciò, è che lo
studioso della tradizione deve porre l’attenzione speculativa su due direzioni
diverse, una attenta ad analizzare i modi in cui il contenuto della tradizione
viene consegnato, l’altra capace d’indagare sull’origine del contenuto che
viene tramandato. Noi ci soffermeremo su questo secondo aspetto. Come nascono
gli elementi che vengono a costituire il nucleo della tradizione? Quali sono i
criteri che vengono adottati per selezionare il materiale? Di che natura sono
questi criteri: razionali o qualcosa d’altro?
Prima di addentrarci
all’interno del problema occorre fare ulteriori precisazioni. In primo luogo,
dev’essere chiaro che un’epoca è costituita da un insieme di diverse
tradizioni. Inoltre, queste ultime non sempre sono facilmente individuabili a
causa della complessità della realtà in cui viviamo. Infatti, se per un verso
ci è semplice comprendere la diversità tra la tradizione filosofica e quella
scientifica, per un altro, a volte ci è difficile distinguere gli elementi dell’una
e dell’altra tradizione. Questo lo affermiamo perché riteniamo la realtà, cioè
il vissuto storico, non diviso in scomparti ben determinati, ma un tutt’uno
cresciuto assieme.
È possibile affermare
che la realtà in cui viviamo è tutta tradizione? Proporre l’identità tra realtà
e tradizione può sembrare avventato e assai discutibile, in quanto anche il
nostro senso comune interviene ad informarci che, il termine realtà, sta ad
indicare un insieme di aspetti non completamente e totalmente riconducibili a
quello di tradizione. Quando, infatti, noi parliamo di realtà ci possiamo
trovare in vari universi di discorso: è reale la pianta, una montagna, il mare.
Al contempo, però, è altresì reale Paolo o Pietro. In definitiva tutto ciò che
appartiene al mondo materiale, sia esso minerale, vegetale o animale è reale.
Che ne è, allora, di
tutto il resto? Per tutto il resto, vista la selezione previa, intendiamo il
frutto della elaborazione intellettuale da parte dell’uomo. A questo punto,
diventa estremamente interessante soffermarci sul procedimento conoscitivo
elaborato dall’idealismo. Difatti, la distinzione sopra effettuata tra mondo
materiale e mondo ideale, tipica di una certa tradizione filosofica, può essere
messa in discussione proprio dall’idealismo. Quando discorriamo intorno al
tavolo o alla sedia, non affermiamo solo realtà appartenenti al mondo
materiale. Sedia o tavolo stanno, infatti, ad indicare anche una organizzazione
e un ordine che solo un essere dotato d’intelletto poteva effettuare. Di
conseguenza, il mondo che ci circonda possiamo a ragione considerarlo il frutto
di una lunga e sofferta elaborazione concettuale prodottasi nell’arco del
tempo: la tradizione. Occorre, però, precisare che affermare il mondo come il
risultato di una lunga elaborazione concettuale non porta in sé l’esigenza di
negare al mondo materiale una propria indipendenza rispetto al soggetto che la
percepisce. Entità materiale e soggetto (che è materiale anch’esso) sono posti
da altro. È il loro incontro e ciò che ne consegue, vale a dire il mondo
umanizzato, che è frutto esclusivo dell’operazione intellettiva.
A questo livello, si
può chiarire anche il discoro religioso. L’uomo è posto da Dio assieme alle
cose. Il mondo che si formerà attraverso le capacità intellettive dell’uomo,
porterà costantemente con sé l’impronta divina. Il cammino dell’uomo con Dio
acquista, in questa prospettiva, nuovi significati depauperati da quei
misticismi mantenuti per troppo tempo all’interno della tradizione. Ritorniamo,
però, sui nostri passi. Stiamo cercando di delineare le caratteristiche che ci
permettono di tematizzare ciò che intendiamo con il termine tradizione.
Ciò che viene
tramandato deve avere come elemento peculiare, una certa durata nel tempo. Più
un elemento dura alle “intemperie” del tempo più è tradizionale. Il tradendum
ha, quindi, valore solo ed esclusivamente in quanto è antico. L’elemento che in seguito diventerà
tradizionale, ha, però, un momento iniziale nuovo. Problema: come fa questo
elemento nuovo a diventare tradizionale? L’elemento che poi verrà a far parte
di una tradizione non nasce nel nulla, ma da un contesto ben strutturato. In
definitiva, ciò che in seguito si chiamerà tradendum nasce all’interno
di una tradizione. Sembriamo in un circolo chiuso per cui per spiegare una
parte abbiamo bisogno della definizione dell’altra e viceversa. La tradizione
vive costantemente in un presente ed è il continuo procedere di quest’ultimo,
il tempo, che ci permette di parlare di tradizione in modo non astratto.
Infatti, la tradizione non è qualcosa di dato, bensì è una realtà posta
costantemente dall’uomo. Questo è perlomeno il processo che avviene dal punto
di vista teorico. Nel presente dove costantemente abbiamo visto formarsi la
tradizione, quest’ultima è sentita dall’uomo come qualcosa di dato, di posto da
altro. Il tradendum è sentito come una forza immateriale che incute
timore e alla quale va riservata una incondizionata obbedienza. Tutto questo è
disumano proprio perché è una chiara distorsione delle capacità dell’uomo. Il
compito di quest’ultimo, da un punto di vista teorico, sarebbe quello di
passare al setaccio del proprio intelletto tutte le informazioni che ogni
giorno e ogni istante gli presentano. Che cosa in realtà avviene? Al posto
della personalizzazione delle cose, subentra la passività di fronte ad esse.
Invece di farsi promotore attivo del suo mondo, diventa succube di ciò che
dovrebbe dominare. Va, comunque, specificato che la personalizzazione del mondo
è posta sul piano esigenziale e, di conseguenza, trova non poche difficoltà ad affermarsi
nella concretizzazione storica. In questa prospettiva, la tradizione arriva
all’individuo come patrimonio genetico già dato e posto da altro. Quando il
senso comune parla di tradizione si riferisce ad una realtà oggettiva già
stabilita, che dev’essere assunta. Il rifiuto della tradizione da parte
dell’individuo pone quest’ultimo ai margini del sociale, del mondo al quale
appartiene.
I criteri per cui un
nuovo elemento può diventare appartenente al patrimonio genetico della
tradizione, sono contenuti nella stessa. Questo implica che, il nuovo elemento,
per passare alla storia deve costantemente subire il giudizio della verità che
viene attribuita ad essa. Infatti, dire tradizione significa implicitamente
riferirsi ad un determinato concetto di verità. Che cos’è che è più vero? Che
cosa del mondo nel quale ci troviamo vale di più? Vale di più ciò che
corrisponde maggiormente agli elementi che la tradizione della cultura
dominante possiede. Noi così affermiamo la maggiore o minore validità di una
cosa rispetto ad un’altra in base a dei criteri oggettivi contenuti nella
tradizione. Al soggetto non rimane altro che farsi portatore di un insieme di
elementi mai posti o scelti da lui. Sembra un’affermazione paradossale, ma, a
nostro avviso corrisponde alla realtà nella quale viviamo. Perché, infatti,
affermiamo che una cosa è più bella di un’altra? Oppure, perché critichiamo
alcune manifestazioni come non sensate o fuori luogo? Le nostre tanto decantate
capacità di scelta, in questa prospettiva, vengono ridotte a ben poca cosa. Noi
non siamo nient’altro che i fedeli portatori di un materiale non mai scelto da
noi, e in base a questo giudichiamo, valutiamo, viviamo. A che cosa è dovuta
questa nostra evidente passività? A questa importante domanda risponderemo in
seguito. Ora ci interessa soffermarci più attentamente sulla forza che la
tradizione esercita sul singolo.
La tradizione è
diventata una potenza irresistibile. Non è assolutamente possibile pronunciare
un giudizio senza riferirsi ad un contesto tradizionale. L’uomo è uomo solo in
quanto è capace di farsi fedele portatore della tradizione. La forza di
quest’ultima si è venuta a costituire gradualmente nel tempo. Occorre precisare
che, ogni epoca e ogni società, ha avuto e ha una propria tradizione. La
comunità degli uomini ha sempre posto in un nucleo di proposizioni i criteri di
veridicità per la propria epoca. La tradizione filosofica ci dice che fa parte
della struttura antropologica dell’uomo il bisogno di verità. È una esigenza
irrinunciabile, pena la disintegrazione del sé. Possedere dei costanti punti di
riferimento per vagliare qualsiasi esperienza umana è una condizione
fondamentale. La tradizione è proprio questo schema di riferimento. Com’è
possibile, però, che lo schema di riferimento di un’epoca possa valere anche
per quelle successive? Come mai gli elementi di una tradizione resistono alla
prova del tempo, rimanendo per parecchi secoli inalterati? Spesso, noi uomini
del duemila, valutiamo situazioni o cose utilizzando gli stessi criteri che
venivano presi in considerazione da persone e, quindi, società vissute parecchi
secoli fa. Non sarebbe più opportuno formulare uno schema di riferimento per
ogni epoca? Alla luce di questi interrogativi, possiamo considerare l’uomo
piuttosto lento nel cambiare le proprie abitudini. Per certi versi, l’uomo di
oggi è lo stesso di quello di ieri. Le capacità riflessive non servono che a
confermare quello che gli avi avevano pensato.
Se la tradizione ha
sempre avuto una tale potenza, come si è venuta a costituire? Come nasce, ad
esempio, il criterio per cui una cosa è più bella di un’altra? Quando
osserviamo un oggetto e intendiamo valutarlo con la categoria del bello, non
facciamo un’invenzione, ma ci serviamo di strumenti già dati (occorre studiare
la genealogia della formazione dei criteri valutativi: perché un quadro è più
bello dell’altro? Che cosa mi spinge ad affermare ciò? Per rispondere a questa
domanda occorre conoscere la tradizione artistica e più specificatamente quella
pittorica): in fin dei conti che cosa vogliamo dimostrare con queste
affermazioni sulla tradizione? Vogliamo soprattutto trovare due risposte: una
riguardante il grado di libertà di scelta del singolo; l’altro la possibilità
di riscoprire un cristianesimo essenziale, liberato, cioè, da tutti i residui
ricevuti dalla tradizione.
Rispetto alla
tradizione, la libertà del singolo si situa ad un secondo livello di
complessità. Noi, infatti non creiamo mai nulla di nuovo, ma continuamente
scegliamo in base a cose già date, già poste dalla tradizione. Alla mattina
quando ci alziamo possiamo scegliere se metterci la camicia rossa o gialla, ma
mai potremo optare per il kimono. Il nostro unico compito verso il quale
indirizziamo il nostro bagaglio intellettivo è valutare gli elementi posti
dalla tradizione. A questo punto, sarebbe estremamente interessante indagare
sui motivi che hanno portato ad affermarsi un elemento anziché un altro,
comprendere quali fattori sono intervenuti per far si che la nostra realtà sia
strutturata in un modo anziché in un altro. In fin dei conti c’è molta
soggettivismo nei contenuti della tradizione, che vengono spacciati come contenitori
di valori oggettivi […].
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