Domenica, 24 marzo. È
un giorno speciale, è il ricordo del martirio di mons. Oscar Romero,
martire della Chiesa, dichiarato santo nell’ottobre dello scorso anno. Per tanti
motivi sono particolarmente legato a questo santo al punto da dedicare l’Unità
Pastorale a cui ero stato affidato proprio a lui. Le reiterate proteste, però,
di alcuni laici e soprattutto, con mia grande sorpresa, di alcuni giovani, mi condussero
a decidere di non insistere su questo nome davvero scomodo, ma segno della
Chiesa che amo, quella che si sporca le mani e si schiera senza mezzi termini
dalla parte dei poveri. Lo scorso anno, alla fine di agosto, ho trascorso una
decina di giorni a san Salvador con un gruppo di preti e suore, guidati da
Maria Soave Buscemi, sulle orme della Chiesa dei martiri salvadoregni. Romero è,
infatti, il personaggio più conosciuto di una Chiesa che è stata letteralmente
massacrata durante dodici lunghissimi anni di dittatura militare, che ha visto
la morte di circa settantamila persone, tra i quali preti, suore, laici
impegnati nelle comunità di base e, soprattutto, tantissimo contadini poveri. Il
martirio di Romero va ricordato perché la sua santificazione rischia di
annacquare la forza del suo messaggio, di vescovo e pastore assassinato durante
una messa per il suo impegno a favore dei contadini poveri della sua diocesi di
San Salvador.
Forse il suo martirio più profondo è avvenuto
dopo la sua morte, quando una fetta significativa della Chiesa salvadoregna ha
imposto un vero e proprio ostracismo sulla vita e la morte di mons. Romero,
ostracismo spezzato solamente da papa Francesco pochi anni fa. La sua morte è
un grido dentro alla storia contro tutti gli impostori, tutti i potenti che non
hanno il minor scrupolo a schiacciare i poveri indifesi e senza parole. Romero
è morto per questo, perché ha dato voce con il suo esempio e il suo impegno a
quelli che non hanno voce, è stato l’anima di un popolo povero e umiliato. La morte
di Romero è anche il grido di Dio contro quella Chiesa che non si fa scrupolo
di abbandonare il gregge, soprattutto le sue pecorelle più indifese, per andare
a braccetto con i potenti, per trarne qualche beneficio. Romero con il suo
sangue sparso per i poveri dice al mondo e alla Chiesa che è Cristo il Signore
della storia, è a Lui che bisogna guardare ed è Lui solo che occorre seguire e dinnanzi
al quale dobbiamo piegare le ginocchia: a Lui solo.
Le "scorciatoie" di Tebito |
Giornata
trascorsa nell’ultima parrocchia della diocesi di Alto Solimões: Atalaia
del Nord. Il viaggio in barca per giungere ad Atalaia è stato il più
suggestivo realizzato sino ad ora. Siamo partiti alle sei del mattino per riuscire
ad essere presenti per la messa delle otto del mattino. Per arrivare in tempo
ci siamo affidati all’esperienza di Tebito, l’autista della lancia-barca della
diocesi che ci ha fatto passare in mezzo alla foresta amazzonica, attraversando
ben sei scorciatoie. All’arrivo ci hanno accolti i due preti saveriani- Alberto
e Pino – che da pochi mesi sono a servizio della parrocchia di Atalaia. Pino è
una figura incredibile che ho conosciuto lo scorso anno nel mese di agosto a
san Bartolomeo.
Padre Pino Leoni è un saveriano che è arrivato in Brasile nel 1968 e dopo 46 anno era stato richiamato in Italia dal suo ordine. In Italia è durato poco, sino a quando il Vescovo Adolfo, anche lui saveriano, conoscendo la “fibra” di padre Pino, gli ha chiesto di venirlo ad aiutare. Dicevo che Pino l’ho conosciuto lo scorso anno a san Bartolomeo in un modo stranissimo. Ci eravamo messaggiati alcune volte nei mesi precedenti perché padre Pino era venuto a sapere che stavo preparando le valige per l’Amazzonia. Una mattina presto padre Pino mi telefona dicendomi che sarebbe arrivato a Reggio verso le 11, per venirmi a trovare a san Bartolomeo. Verso le 9,30 sento suonare il campanello della canonica. Mi affaccio e che c’è alla porta? Proprio lui, padre Pino che dalla stazione di Reggio prese un tram per arrivare a Coviolo e da lì è venuto a piedi – sì proprio a piedi – a san Bartolomeo. Padre Pino ha 77 anni. Questa storia la riporto volentieri perché è un grande insegnamento. Quando vedo ragazzi di 16-18 anni pretendere dai loro genitori di scarrozzarli qua e là, mi viene in mente questo missionario sorridente che bussa alla mia porta dopo essersi fatto 5 km a piedi senza tante balle.
Padre Pino (si intravede in fondo alla foto), padre Alberto e padre Gabriel |
Padre Pino Leoni è un saveriano che è arrivato in Brasile nel 1968 e dopo 46 anno era stato richiamato in Italia dal suo ordine. In Italia è durato poco, sino a quando il Vescovo Adolfo, anche lui saveriano, conoscendo la “fibra” di padre Pino, gli ha chiesto di venirlo ad aiutare. Dicevo che Pino l’ho conosciuto lo scorso anno a san Bartolomeo in un modo stranissimo. Ci eravamo messaggiati alcune volte nei mesi precedenti perché padre Pino era venuto a sapere che stavo preparando le valige per l’Amazzonia. Una mattina presto padre Pino mi telefona dicendomi che sarebbe arrivato a Reggio verso le 11, per venirmi a trovare a san Bartolomeo. Verso le 9,30 sento suonare il campanello della canonica. Mi affaccio e che c’è alla porta? Proprio lui, padre Pino che dalla stazione di Reggio prese un tram per arrivare a Coviolo e da lì è venuto a piedi – sì proprio a piedi – a san Bartolomeo. Padre Pino ha 77 anni. Questa storia la riporto volentieri perché è un grande insegnamento. Quando vedo ragazzi di 16-18 anni pretendere dai loro genitori di scarrozzarli qua e là, mi viene in mente questo missionario sorridente che bussa alla mia porta dopo essersi fatto 5 km a piedi senza tante balle.
Paola e Ilaria |
Mentre
parliamo dopo la messa con le persone del posto, mi accorgo che ci sono due
ragazze con l’accento italiano. Sono Ilaria di Firenze e Paola di Salerno. La
mamma di quest’ultima è amica di vecchia data di padre Alberto e da parecchi
anni desiderava fare un viaggio in Brasile. Quest’anno ha deciso di coinvolgere
la sua amica di studi – Scienza della Pace a Pisa (facoltà che non avevo mai
sentito nominare) – e così eccole qua a trascorre due mesi della loro giovane
vita nella terra brasiliana. Dopo qualche giorno a San Paolo sono arrivate ad
Atalaia del Nord, che è una città di 76 mila Kmq e conta circa 20 mila abitanti.
Sono state Paola ed Ilaria a condurci sulla riva del fiume Yavarì per mostrarci
le imbarcazioni di alcuni popoli indigeni che arrivano in città per ricevere i
soldi del governo, fare la spesa, e altre attività, vivendo nel periodo che
stanno in città sulle loro barche, che si trasformano in case ambulanti.
Le barche in cui vivono le famiglie dei popoli indigeni quando vengono in città |
La caratteristica di questa
parrocchia, che è la più grande del mondo, è il suo territorio immenso,
percorsa dal fiume Yavarì che è lungo 1200 km. Chiaramente le tre suore e i due
preti più una laica saveriana spagnola (Marta) non riescono a coprire con il lavoro
di evangelizzazione tutto questo territorio immenso. Per ora, cercano di dare
continuità al servizio pastorale avviato in città. L’immenso territorio che si
trova sulle rive del fiume Yavari è abitato da sei popoli indigeni. Solamente gli
agenti pastorali del CIMI (Consiglio Indigenista (pro Indios) Missionario) riescono
ad entrare periodicamente a contatto con questi popoli, grazie ad un progetto
di Mani Tese spagnolo. Il lavoro dei tre agenti del CIMI ha come obiettivi di
aiutare i popoli indigeni ad avere coscienza dei loro diritti, ad offrire
orientamenti sulla salute, oltre ad un accompagnamento sul modo di coltivare
alcuni prodotti. È bene ricordare che in questo immenso territorio, oltre ai
sei popoli indigeni ricordati prima, ce ne sono anche sedici che non voglio
nessun contatto con il mondo
Nel
ritorno breve visita all’esperienza delle quattro suore di tre congregazioni
religiose, che avevamo visto nel mese di giugno nella comunità di Islandia che
si trova in Perù. In casa ne abbiamo trovato solo due: Emilia e Fatima.
Diversamente dal nostro primo incontro, in cui manifestavano una certa
pesantezza del loro lavoro pastorale, a causa della resistenza dei popoli
indigeni incontrati, ore le cose sembrano migliorate. “Primo del nostro arrivo – ci dice suor Emilia- le comunità indigene venivano vistate raramente: non c’era un
accompagnamento religioso e pastorale regolare. Ora che andiamo almeno una
volta al mese e a volte due, la gente si sta abituando alla nostra presenza: ci
aspetta e ci riconosce”.
Andremo
a lavorare in ina diocesi, se il Signore vorrà, dove non mancano le sfide.
Credo sia importante per la Chiesa di Reggio mantenere aperta una finestra sul
cammino della Chiesa latinoamericana e, in modo particolare, ora, sulla Chiesa
in Amazzonia. La ministerialità della Chiesa ci interpella per la
strutturazione di comunità che dovrebbero sempre più vedere la corresponsabilità
di laici e laiche. L’incontro con i popoli indigeni, l’attenzione alla loro
cultura e religiosità, ci stimola a confrontarci sempre con le diversità che
incontriamo, per sfuggire alla tentazione di modellare la Chiesa a tinta unica,
la tinta di coloro che sono la maggioranza, escludendo le minoranze. Infine, Il
cammino con la Chiesa in Amazzonia ci ricorda ogni giorno che dobbiamo
prenderci sempre cura di un pianeta che stiamo distruggendo e che l’attenzione
con il creato, opera di Dio, è il primo modo di dire sì alla vita.
Grande Paolo, saluta i 2 Gabriele!
RispondiEliminaOh, no..., pe Paolo!!! Due ragazze!! Chissà adesso che storia torbida potranno imbastire quelle subdole testate giornalistiche, quassù “in Città”, come sequel di tue “presunte” loves stories!!! Questo dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che ogni tuo comportamento non teme esposizioni a letture “distorte” da parte dei mass-media, ma seguono la massima evangelica “la verità vi farà liberi”! AVE ATQUE VALE, AMICO MIO!!
RispondiEliminaP.S. Ci terrei a specificare, a scanso di equivoci, che Ave e Vale non sono due donne.
Ave e Vale non sono due donne? E allora come fanno alle testate giornalistiche ad inventarsi qualcosa di cui riempire la testa di chi li legge? Grazie sempre Paolo dei tuoi aggiornamenti... Preziosi, grazie
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