SAN PAOLO DI OLIVENZA
Paolo Cugini
Venerdì 15 marzo.
Alla mattina quasi perdiamo la lancia! Don Gabriele aveva detto a don
Washington che la lancia sarebbe arrivata alle 8, mentre quest’ultimo insisteva
nel dire che sarebbe arrivata alle 9 e che quindi saremmo riusciti
tranquillamente a fare colazione. Mentre stavamo sorseggiando il caffè, arriva
un signore invitandoci a fare alla svelta a prendere le nostre valigie perché
la lancia per San Paulo di Olivenza – la nostra prossima meta – era già
arrivata ed era già sul punto di partire. Ancora una volta, purtroppo, mi tocca
scrivere che don Gabriele aveva ragione: pazienza.
Più
di due ore di viaggio sul rio Solimões: che spettacolo! Mentre Gabriele leggeva
il suo ennesimo libro (ne ha divorati parecchi in questo periodo e tutti sul
tema dell’Amazzonia), io mi sono messo dietro a contemplare il panorama. Quante
piante, quanto verde, quant’acqua! Mentre viaggiavamo e contemplavo questo
panorama paradisiaco, mi venivano in mente i paesaggi della Bahia che ho visto
per circa quindici anni: quanta siccità! Quanta voglia di acqua che non si
decideva a scendere dal cielo! Nell’ultima città in cui sono stato come parroco
e in cui si trova adesso don Luca Grassi – la città di Pintadas – negli ultimi
tre anni non era caduta una goccia d’acqua: roba da pazzi. Qui invece, acqua a
volontà, non solo nei tantissimi fiumi, ma anche durante il giorno: piove
sempre a catinelle.
Arrivati
al porto non troviamo nessuno ad attenderci: forse abbiamo sbagliato giorno? In
ogni modo, visto che san Paulo di Olivenza non è Parigi, ci siamo incamminati
puntando la chiesa. Non abbiamo sbagliato. Arrivati alla chiesa qualcuno, su
nostra richiesta, ci indica la casa parrocchiale che troviamo subito, anche
perché è enorme. San Paulo di Olivenza è stata la prima sede della diocesi di
Alto Solimões, quindi la casa parrocchiale era la casa in cui abitava il
vescovo. Il parroco attuale è un giovanissimo prete di 36 anni, 1,85 per 120 kg
circa: insomma c’è proprio tutto. Un
prete simpatico, gioviale, diocesano del sud del Brasile, un fidei donum come noi. Ci sediamo e, dopo
le presentazioni di rito, iniziamo a parlare e, soprattutto ad ascoltarlo.
Padre Marcello e della diocesi di Uruaçu, nello Stato di Goiais. Dopo otto anni
di presbiterato chiese al vescovo di venire nella diocesi di Alto di Solimões.
Dal 2011 al 2013 Marcello ha lavorato nella Pontificie Opere Missionarie nella
capitale del Brasile, a Brasilia, e in questo contesto ha avuto modo di
percorrere il Brasile, facendo incontri missionari e, in questo contesto ebbe
la possibilità di vedere la realtà amazzonica. Siccome la diocesi di origine
era abbastanza guarnita di preti, chiese al suo vescovo di venire in missione
in Amazzonia con il progetto di chiese sorelle, che in Brasile è attivo dal
1972. Il contratto è triennale con possibilità di rinnovo.
La parrocchia ha sei comunità nella città e
venti lungo il fiume, anche se in realtà sono 16. Il municipio ne ha 72 di
comunità, ma molte sono delle chiese evangeliche: Battista, Assemblea di Dio e
la Cruzada. In parrocchia ci sono anche tre congregazioni di suore, che aiutano
nel lavoro pastorale, oltre a progetti specifici del loro carisma. Una di
queste aiuta i popoli indigeni a coltivare senza appiccare il fuoco.
Nella
casa parrocchiale, assieme a padre Marcello, vivono anche 5 giovani – dai 17 ai
30 anni – che stanno facendo una esperienza comunitaria per un anno, con
l’obiettivo di discernere per verificare la vocazione. Sono arrivati da un
cammino vocazionale nelle parrocchie. Se tutto va bene il prossimo anno
andranno nel propedeutico a Manaus. Questi cinque giovani si chiamano: Alex di
Santo Antonio di Iça con 17 anni; Adelsono (19) e Genilson (22) di san Paolo di
Olivenza; Bartolomeo e Romas di trent’anni che sono della città di Amaturà.
In questa casa non ci sono
giovani di origine indigena. Nella diocesi c’è n’è uno solo – Hercules – di
origine indigena d’etnia tikuna che sta in un cammino vocazionale. Non si trova
qui a san Paulo di Olivenza, ma a Belém di Solimões perché i Cappuccini in
questo luogo hanno svolto un lavoro vocazionale specifico, tentando formare i
giovani con interesse vocazionale nella comunità. Quando vanno fuori dalla
comunità, i giovani indigeni solitamente non ritornano.
Anche
per Marcello la difficoltà della Chiesa cattolica in questa regione amazzonica,
è la mancanza di presenza. “I preti e le
suore vanno per fare una visita, spesso raramente. Solamente quando ci saranno
giovani indigeni religiosi o suore l’evangelizzazione sarà possibile, perché
sapranno parlare con l’idioma che la gente conosce. Questo è il motivo della
grande facilità che gli evangelici hanno per entrare nelle comunità. Sono
persone del posto che conoscono, quindi la lingua, diventano pastori e
rimangono con la gente ad accompagnarli nella fede”. Ci sarebbe da
riflettere sul diverso stile di evangelizzazione tra cattolici e protestanti,
ma mi porterebbe via molto tempo. Dico solo che, a causa dei problemi sopra
descritti, vale a dire una scarsissima presenza, il lavoro missionario
cattolico è stato strutturato su due poli fondamentali: la sacramentalizzazione,
e la diffusione delle devozioni. Per i protestanti, invece, il grande lavoro
che svolgono è la conoscenza della Parola di Dio, il Vangelo. Per questo quando
arrivano in una comunità se li portano via tutta: perché gli annunciano il
Vangelo, parlano di Gesù e non altre storie.
Padre
Marcello parla anche della grande prospettiva del Sinodo. “Il modo di essere Chiesa che abbiamo, a volte rende difficile la
propria evangelizzazione. Molte cose che per noi sono efficaci, come il tema
della catechesi tutti i fini settimana, qui nelle comunità sul fiume è
impossibile. Altro esempio è dalla parrocchia di Belém di Solimões che non
hanno il sacrario, il tabernacolo, perché secondo i Cappuccini che stanno
facendo servizio là, il popolo tikuna non è ancora in grado di comprendere il
mistero eucaristico”. Poi c’è la
realtà dei ministri. “In Amazzonia non ci
saranno mai preti a sufficienza, così come stanno le cose. Alcuni studi
propongono la figura delle diaconesse, o dei diaconi permanenti e la validità
dei presbiteri sposati per l’Amazzonia. Comunque vadano le cose nel Sinodo, è
necessario pensare qualcosa di nuovo rispetto a quello che c’è oggi”. Padre
Marcello sostiene anche che l’Amazzonia nella Chiesa del Brasile “è stata considerato come il purgatorio, in
cui venivano inviati religiosi che venivano puniti. In realtà in Amazzonia
dovrebbero venire i migliori presbiteri e religiosi, proprio per la durezza
dell’esperienza che l’Amazzonia propone”.
Domenica 17 marzo.
Dopo la preghiera e colazione il programma prevede la messa in una comunità del
fiume: Maria di Nazareth. Sono un po' emozionato (è solo un modo di dire)
perché sarà la prima messa che celebriamo in una comunità totalmente indigena.
Quaranta minuti di barca assieme al parroco padre Marcello e ad altre quattro
persone che vengono con noi. Il clima che si respira all’arrivo nella comunità
è da film Mission. Tutti parlano la
lingua nativa: solo qualcuno accenna a qualche frase di portoghese. Sono
davvero curioso di vedere come si svolgerà la messa. Mi colpiscono subito i
volti sorridenti di tutti, non solo dei tantissimi bambini. E poi i colori: che
varietà! Mentre il coro canta diversi canti nella lingua locale tikuna, padre
Marcello si intrattiene con i leader religiosi e sociali della comunità: il
cachiqui. Finalmente inizia la messa. Padre Marcello parla e, un maestro
locale, traduce. L’impressione avuta – dovuta al fatto che in diverse occasioni
ho dovuto tradurre dal portoghese all’italiano e viceversa- è che padre
Marcello diceva troppe cose prima di lasciare al traduttore la parola. Quindi,
a mio avviso, più che ripetere le parole del prete, il traduttore interpretava
a suo modo. La messa si è svolta nel modo classico, con l’interprete che è
intervenuto solo in due momenti: il Vangelo e l’omelia. Ciò significa che nella
gran parte della celebrazione la gente non ha partecipato.
Finita
la messa ci siamo incontrati con Gabriele in mezzo alla cappella, mentre la
gente usciva e la domanda è stata spontanea e immediata: ma a che cosa serve e
a chi una messa così, dove i partecipanti non capiscono nulla perché non viene
celebrata nella loro lingua? È mai possibile che in tutto questo tempo non si
sia mai pensato a qualcosa di diverso, più inculturato, per fare in modo che i
tikuna partecipino attivamente come, tra l’altro, è indicato dallo stesso
Concilio Vaticano II? Ci toccherà mettere mano anche a questo.
Foto di gruppo dopo la messa |
Mentre
stavamo camminando per visitare la moglie del cachiqui, che si trova ammalata
da qualche giorno – la diagnosi che poi ha fatto padre Marcello è appendicite:
come trasportarla all’ospedale di San Paulo di Olivenza? – ho fatto due
chiacchere con uno dei capi della comunità che si chiama Gabriel. È un uomo di
37 anni padre di 8 figli (la moglie ha 36 anni). Quando gli ho chiesto se erano
sposati in qualche modo o rito mi ha risposto: “Siamo amigados
(accompagnati). I tikuna non hanno un rito specifico di matrimonio. Quando due
giovani desiderano vivere insieme riuniscono la comunità e chiedono ai
rispettivi genitori la possibilità di vivere insieme”. C’è un forte senso
comunitario nelle comunità indigene.
Ho
parlato con suor Dora -un’italiana del Pime sull’impressione che ho avuto
osservando con attenzione alcuni volti di bambine indigene, che avevano
un’apparenza strana, triste. Ho avanzato l’ipotesi dell’abuso sessuale e lei me
lo ha ampiamente confermato. “Ci sono
alcune psicologhe che lavorano al campo base della salute indigena e stanno
aiutando le bambine e le donne proprio in questo settore. Stanno consigliando
le donne di non andare sole nei campi, ma di andare assieme. Il fenomeno
dell’abuso sessuale è molto diffuso, legato al tema dell’alcolismo”.
Pensavo che il problema fosse legato alla cultura patriarcale, ma lei non è
molto d’accordo. “È vero che le donne
nelle assemblee non parlano molto, ma se una donna non è d’accordo di una cosa
che è stata decisa e ne parla in casa con il marito, viene rifatta un’altra
riunione per ridiscutere tutto”. Del problema della violenza sessuale sui
minori ne avevano parlato anche al corso a Manaus. Mi ricordo che ne aveva
parlato suor Rose, che fa parte di una équipe allargata di missionarie che
lavorano sulle problematiche legate al traffico di organi e nella regione detta
delle tre frontiere, che sarebbe proprio Tabatinga. Tre frontiere perché in
pochi metri si toccano i confini di tre paesi: Brasile, Colombia e Perù.
COMUNITÀ DI SANTA
RITA
Lunedì, 18 marzo.
Alla mattina salutiamo nella preghiera padre Marcello e i cinque giovani che
stanno riflettendo sulla loro vocazione e salpiamo per santa Rita. Dopo un’ora
circa di battello, arriviamo a destinazione. Santa Rita è una comunità che
appartiene dal punto di vista ecclesiale alla parrocchia di San Paolo di
Olivenza. In questa comunità vive una comunità di tre suore del PIME (Pontificio
Istituto Missioni Estere) due italiane – Laura e Dora – e una brasiliana:
Odete. Sono qui da circa un anno. “Quando
siamo arrivate lo scorso anno – ci racconta suor Dora – nella casa c’era solo
una stanza: il resto lo stavano mettendo a posto. Entrando in “casa” padre
Marcello disse: ho un’idea, andiamo a trascorrere una settimana a san Paolo di
Olivenza!”.
La chiesa della comunità santa Rita |
La
comunità di Santa Rita, dal punto di vista religioso è quasi tutta protestante.
Dal punto di vista sociale è forse la realtà più povera incontrata sino ad ora:
il che è tutto dire. La presenza delle te suore del PIME a santa Rita
corrisponde all’intuizione pastorale del vescovo Adolfo: non si può più pensare
di pretendere di fare missione solamente visitando ogni tanto le comunità come
si è sempre fatto: occorre vivere in mezzo alla gente, occorre essere presenza.
Don Adolfo sta invitando suore, laici e presbiteri da varie parti del Brasile a
viere nelle comunità della diocesi, per essere vicini alle comunità indigene.
Verso sera – cioè le 17, visto che il sole viene giù molto presto – facciamo un
giro nel paesino, per avvisare alcune persone per la messa di domani. Ne
approfittiamo anche per entrare in alcuni negozi. Suor Odete ci spiega che il
commercio locale è tutto in mano ai peruani (abitanti del Perù). Ci spiega
anche i meccanismi loschi che stanno avvenendo in questi negozi, che lei stessa
ha potuto verificare. “La carta di
credito delle famiglie povere che ricevono la pensione o i benefici del governo
viene presa dai commercianti peruani, che trattengono metà della mensilità da
spendere nei loro negozi. Questo tipo di atteggiamento è proibito per legge. Il
problema è che qui siamo così fuori dal mondo che chiunque fa ciò che vuole e i
poveri ci rimettono”. Dalle parole
di suor Odete capiamo che è anche difficile organizzare un lavoro di
coscientizzazione. “I popoli kokama e
tikuna che vivono qui, accettano passivamente la situazione: non sono abituati
a ribellarsi dinanzi alle ingiustizie”.
Martedì, 19 marzo.
Alla mattina preghiamo insieme con le suore: lodi della solennità di san
Giuseppe. Dopo colazione cerchiamo Nicanor, che è il cachiqui della comunità
che, in canoa ci porta a visitare alcune comunità vicine. Se fosse stagione di
bassa marea le comunità potrebbero essere raggiunte a piedi, ma essendo
stagione di alta marea, il fiume si è alzato e sta allagando tutto il paese,
comprese le strade. Con Nicanor (di anni 81), quindi, prendiamo una canoa: e
qui comincia l’avventura. Infatti, appena entriamo nell’igarapé (è una parte
del fiume che entra in uno spazio senza uscita) con la canoa, guidata da
Nicanor e da una ragazzina di 13 anni chiamata Rita, cerchiamo di entrare nel
fiume Solimões (che sarebbe il fiume delle Amazzoni). Nicanor e Rita,
nonostante remino con tutte le forze, non riescono a remare contro corrente, in
direzione della comunità di Porto Franco verso cui siamo diretti, e la canoa
per alcuni momenti è trascinata dalla forte corrente del fiume.
Per fortuna, da lontano Nicanor vede la barca a motore di uno dei suoi 7 figli e lo invita ad affiancarsi. A quel punto Nicanor lega la nostra canoa alla barca del figlio, che lentamente ci trascina al posto desiderato. Appena arrivati suor Dora riconosce sulla strada della comunità, la psicologa Renata, di Manaus, che visita le famiglie, e soprattutto attende donne che hanno subito violenze. Oltre a ciò, entra nelle scuole per orientare i giovani sui temi dell’alcol e della droga. Assieme a Renata e ad alcune persone della sua équipe facciamo due passi per la comunità per conoscere un po' il territorio.
Don Gabriele al lavoro per non affondare! |
Per fortuna, da lontano Nicanor vede la barca a motore di uno dei suoi 7 figli e lo invita ad affiancarsi. A quel punto Nicanor lega la nostra canoa alla barca del figlio, che lentamente ci trascina al posto desiderato. Appena arrivati suor Dora riconosce sulla strada della comunità, la psicologa Renata, di Manaus, che visita le famiglie, e soprattutto attende donne che hanno subito violenze. Oltre a ciò, entra nelle scuole per orientare i giovani sui temi dell’alcol e della droga. Assieme a Renata e ad alcune persone della sua équipe facciamo due passi per la comunità per conoscere un po' il territorio.
Nel pomeriggio visita al
quartiere di Santa Rita chiamato favela. È la zona più povera della comunità.
Quasi tutto il quartiere è evangelico. Mentre passiamo vari bambini e signore
riconoscono le suore, che salutano con calore. Tra una zona allagata e una no,
attraversiamo il quartiere in mezzo a campetti di calcio improvvisati in cui
giocano tanti bambini e ragazzi/e. Mentre camminiamo in mezzo a tanta povertà
penso alla vita di queste tre suore. Ci vuole veramente tanta fede, tanto
amore, anzi un amore per Dio fuori dal normale, per accettare la proposta di
vivere in mezzo a questo nulla. È vero che sono tre donne con dell’iniziativa,
ognuna con caratteristiche e doni diversi. In ogni modo, la loro presenza qui
chiama in causa molte pagine del Vangelo, le pagine della sequela a Gesù che
chiede di rinnegare se stessi, di rinunciare a tutto. Nella vita di queste tre
donne a Santa Rita appare lo stile del seme gettato nel terreno, del fermento
nella massa, di qualcosa che viene svolto in piena e pura fiducia, affidandosi
a Dio, più che alla possibilità di controllare i risultati di un lavoro svolto.
Per chi nasce qui forse è normale, ma per chi viene dall’Italia o dal sud del
Brasile, molto normale non è.
Alla
sera messa nella cappella di santa Rita. Celebriamo la solennità di san
Giuseppe. Nella piccola chiesetta arrivano lentamente alcune persone. Oltre
alla celebrazione domenicale realizzata dalle suore, nella cappella durante la
settimana viene celebrato il rosario, oltre alla catechesi dei bambini. Alla
celebrazione guidata da don Gabriele e ben preparata, le persone si lasciano
coinvolgere. È un bel momento che rimarrà senza dubbio segnato nella loro
memoria.
Fantastico il tuo resoconto, don Paolo! Un vento fresco che spazza via ogni strisciante allusione e qualsiasi subdola falsità. Ti abbraccio con affetto, certo che la tua opera missionaria sia guidata e sorretta dallo Spirito Santo!
RispondiEliminaMeravigliosa la foto di gruppo dove don Gabriele tiene amorevolmente quel bimbo(o bimba)in braccio !
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