giovedì 21 marzo 2019

ULTIMA TAPPA DELLA VISITA ALLE PARROCCHIE DELLA DIOCESI DI ALTO DE SOLIMOES




Padre Marcello con a fianco il traduttore



SAN PAOLO DI OLIVENZA

Paolo Cugini
Venerdì 15 marzo. Alla mattina quasi perdiamo la lancia! Don Gabriele aveva detto a don Washington che la lancia sarebbe arrivata alle 8, mentre quest’ultimo insisteva nel dire che sarebbe arrivata alle 9 e che quindi saremmo riusciti tranquillamente a fare colazione. Mentre stavamo sorseggiando il caffè, arriva un signore invitandoci a fare alla svelta a prendere le nostre valigie perché la lancia per San Paulo di Olivenza – la nostra prossima meta – era già arrivata ed era già sul punto di partire. Ancora una volta, purtroppo, mi tocca scrivere che don Gabriele aveva ragione: pazienza.
Più di due ore di viaggio sul rio Solimões: che spettacolo! Mentre Gabriele leggeva il suo ennesimo libro (ne ha divorati parecchi in questo periodo e tutti sul tema dell’Amazzonia), io mi sono messo dietro a contemplare il panorama. Quante piante, quanto verde, quant’acqua! Mentre viaggiavamo e contemplavo questo panorama paradisiaco, mi venivano in mente i paesaggi della Bahia che ho visto per circa quindici anni: quanta siccità! Quanta voglia di acqua che non si decideva a scendere dal cielo! Nell’ultima città in cui sono stato come parroco e in cui si trova adesso don Luca Grassi – la città di Pintadas – negli ultimi tre anni non era caduta una goccia d’acqua: roba da pazzi. Qui invece, acqua a volontà, non solo nei tantissimi fiumi, ma anche durante il giorno: piove sempre a catinelle.
Arrivati al porto non troviamo nessuno ad attenderci: forse abbiamo sbagliato giorno? In ogni modo, visto che san Paulo di Olivenza non è Parigi, ci siamo incamminati puntando la chiesa. Non abbiamo sbagliato. Arrivati alla chiesa qualcuno, su nostra richiesta, ci indica la casa parrocchiale che troviamo subito, anche perché è enorme. San Paulo di Olivenza è stata la prima sede della diocesi di Alto Solimões, quindi la casa parrocchiale era la casa in cui abitava il vescovo. Il parroco attuale è un giovanissimo prete di 36 anni, 1,85 per 120 kg circa: insomma c’è proprio tutto.  Un prete simpatico, gioviale, diocesano del sud del Brasile, un fidei donum come noi. Ci sediamo e, dopo le presentazioni di rito, iniziamo a parlare e, soprattutto ad ascoltarlo. Padre Marcello e della diocesi di Uruaçu, nello Stato di Goiais. Dopo otto anni di presbiterato chiese al vescovo di venire nella diocesi di Alto di Solimões. Dal 2011 al 2013 Marcello ha lavorato nella Pontificie Opere Missionarie nella capitale del Brasile, a Brasilia, e in questo contesto ha avuto modo di percorrere il Brasile, facendo incontri missionari e, in questo contesto ebbe la possibilità di vedere la realtà amazzonica. Siccome la diocesi di origine era abbastanza guarnita di preti, chiese al suo vescovo di venire in missione in Amazzonia con il progetto di chiese sorelle, che in Brasile è attivo dal 1972. Il contratto è triennale con possibilità di rinnovo.

 La parrocchia ha sei comunità nella città e venti lungo il fiume, anche se in realtà sono 16. Il municipio ne ha 72 di comunità, ma molte sono delle chiese evangeliche: Battista, Assemblea di Dio e la Cruzada. In parrocchia ci sono anche tre congregazioni di suore, che aiutano nel lavoro pastorale, oltre a progetti specifici del loro carisma. Una di queste aiuta i popoli indigeni a coltivare senza appiccare il fuoco.


I cinque giovani in cammino vocazionale con padre Marcello


Nella casa parrocchiale, assieme a padre Marcello, vivono anche 5 giovani – dai 17 ai 30 anni – che stanno facendo una esperienza comunitaria per un anno, con l’obiettivo di discernere per verificare la vocazione. Sono arrivati da un cammino vocazionale nelle parrocchie. Se tutto va bene il prossimo anno andranno nel propedeutico a Manaus. Questi cinque giovani si chiamano: Alex di Santo Antonio di Iça con 17 anni; Adelsono (19) e Genilson (22) di san Paolo di Olivenza; Bartolomeo e Romas di trent’anni che sono della città di Amaturà.
In questa casa non ci sono giovani di origine indigena. Nella diocesi c’è n’è uno solo – Hercules – di origine indigena d’etnia tikuna che sta in un cammino vocazionale. Non si trova qui a san Paulo di Olivenza, ma a Belém di Solimões perché i Cappuccini in questo luogo hanno svolto un lavoro vocazionale specifico, tentando formare i giovani con interesse vocazionale nella comunità. Quando vanno fuori dalla comunità, i giovani indigeni solitamente non ritornano.

Anche per Marcello la difficoltà della Chiesa cattolica in questa regione amazzonica, è la mancanza di presenza. “I preti e le suore vanno per fare una visita, spesso raramente. Solamente quando ci saranno giovani indigeni religiosi o suore l’evangelizzazione sarà possibile, perché sapranno parlare con l’idioma che la gente conosce. Questo è il motivo della grande facilità che gli evangelici hanno per entrare nelle comunità. Sono persone del posto che conoscono, quindi la lingua, diventano pastori e rimangono con la gente ad accompagnarli nella fede”. Ci sarebbe da riflettere sul diverso stile di evangelizzazione tra cattolici e protestanti, ma mi porterebbe via molto tempo. Dico solo che, a causa dei problemi sopra descritti, vale a dire una scarsissima presenza, il lavoro missionario cattolico è stato strutturato su due poli fondamentali: la sacramentalizzazione, e la diffusione delle devozioni. Per i protestanti, invece, il grande lavoro che svolgono è la conoscenza della Parola di Dio, il Vangelo. Per questo quando arrivano in una comunità se li portano via tutta: perché gli annunciano il Vangelo, parlano di Gesù e non altre storie.

Padre Marcello parla anche della grande prospettiva del Sinodo. “Il modo di essere Chiesa che abbiamo, a volte rende difficile la propria evangelizzazione. Molte cose che per noi sono efficaci, come il tema della catechesi tutti i fini settimana, qui nelle comunità sul fiume è impossibile. Altro esempio è dalla parrocchia di Belém di Solimões che non hanno il sacrario, il tabernacolo, perché secondo i Cappuccini che stanno facendo servizio là, il popolo tikuna non è ancora in grado di comprendere il mistero eucaristico”.  Poi c’è la realtà dei ministri. “In Amazzonia non ci saranno mai preti a sufficienza, così come stanno le cose. Alcuni studi propongono la figura delle diaconesse, o dei diaconi permanenti e la validità dei presbiteri sposati per l’Amazzonia. Comunque vadano le cose nel Sinodo, è necessario pensare qualcosa di nuovo rispetto a quello che c’è oggi”. Padre Marcello sostiene anche che l’Amazzonia nella Chiesa del Brasile “è stata considerato come il purgatorio, in cui venivano inviati religiosi che venivano puniti. In realtà in Amazzonia dovrebbero venire i migliori presbiteri e religiosi, proprio per la durezza dell’esperienza che l’Amazzonia propone”.

Arrivo alla comunità Maria di Nazareth

Domenica 17 marzo. Dopo la preghiera e colazione il programma prevede la messa in una comunità del fiume: Maria di Nazareth. Sono un po' emozionato (è solo un modo di dire) perché sarà la prima messa che celebriamo in una comunità totalmente indigena. Quaranta minuti di barca assieme al parroco padre Marcello e ad altre quattro persone che vengono con noi. Il clima che si respira all’arrivo nella comunità è da film Mission. Tutti parlano la lingua nativa: solo qualcuno accenna a qualche frase di portoghese. Sono davvero curioso di vedere come si svolgerà la messa. Mi colpiscono subito i volti sorridenti di tutti, non solo dei tantissimi bambini. E poi i colori: che varietà! Mentre il coro canta diversi canti nella lingua locale tikuna, padre Marcello si intrattiene con i leader religiosi e sociali della comunità: il cachiqui. Finalmente inizia la messa. Padre Marcello parla e, un maestro locale, traduce. L’impressione avuta – dovuta al fatto che in diverse occasioni ho dovuto tradurre dal portoghese all’italiano e viceversa- è che padre Marcello diceva troppe cose prima di lasciare al traduttore la parola. Quindi, a mio avviso, più che ripetere le parole del prete, il traduttore interpretava a suo modo. La messa si è svolta nel modo classico, con l’interprete che è intervenuto solo in due momenti: il Vangelo e l’omelia. Ciò significa che nella gran parte della celebrazione la gente non ha partecipato.
Finita la messa ci siamo incontrati con Gabriele in mezzo alla cappella, mentre la gente usciva e la domanda è stata spontanea e immediata: ma a che cosa serve e a chi una messa così, dove i partecipanti non capiscono nulla perché non viene celebrata nella loro lingua? È mai possibile che in tutto questo tempo non si sia mai pensato a qualcosa di diverso, più inculturato, per fare in modo che i tikuna partecipino attivamente come, tra l’altro, è indicato dallo stesso Concilio Vaticano II? Ci toccherà mettere mano anche a questo.


Foto di gruppo dopo la messa


Mentre stavamo camminando per visitare la moglie del cachiqui, che si trova ammalata da qualche giorno – la diagnosi che poi ha fatto padre Marcello è appendicite: come trasportarla all’ospedale di San Paulo di Olivenza? – ho fatto due chiacchere con uno dei capi della comunità che si chiama Gabriel. È un uomo di 37 anni padre di 8 figli (la moglie ha 36 anni). Quando gli ho chiesto se erano sposati in qualche modo o rito mi ha risposto: “Siamo amigados (accompagnati). I tikuna non hanno un rito specifico di matrimonio. Quando due giovani desiderano vivere insieme riuniscono la comunità e chiedono ai rispettivi genitori la possibilità di vivere insieme”. C’è un forte senso comunitario nelle comunità indigene.
Ho parlato con suor Dora -un’italiana del Pime sull’impressione che ho avuto osservando con attenzione alcuni volti di bambine indigene, che avevano un’apparenza strana, triste. Ho avanzato l’ipotesi dell’abuso sessuale e lei me lo ha ampiamente confermato. “Ci sono alcune psicologhe che lavorano al campo base della salute indigena e stanno aiutando le bambine e le donne proprio in questo settore. Stanno consigliando le donne di non andare sole nei campi, ma di andare assieme. Il fenomeno dell’abuso sessuale è molto diffuso, legato al tema dell’alcolismo”. Pensavo che il problema fosse legato alla cultura patriarcale, ma lei non è molto d’accordo. “È vero che le donne nelle assemblee non parlano molto, ma se una donna non è d’accordo di una cosa che è stata decisa e ne parla in casa con il marito, viene rifatta un’altra riunione per ridiscutere tutto”. Del problema della violenza sessuale sui minori ne avevano parlato anche al corso a Manaus. Mi ricordo che ne aveva parlato suor Rose, che fa parte di una équipe allargata di missionarie che lavorano sulle problematiche legate al traffico di organi e nella regione detta delle tre frontiere, che sarebbe proprio Tabatinga. Tre frontiere perché in pochi metri si toccano i confini di tre paesi: Brasile, Colombia e Perù.


COMUNITÀ DI SANTA RITA

Lunedì, 18 marzo. Alla mattina salutiamo nella preghiera padre Marcello e i cinque giovani che stanno riflettendo sulla loro vocazione e salpiamo per santa Rita. Dopo un’ora circa di battello, arriviamo a destinazione. Santa Rita è una comunità che appartiene dal punto di vista ecclesiale alla parrocchia di San Paolo di Olivenza. In questa comunità vive una comunità di tre suore del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) due italiane – Laura e Dora – e una brasiliana: Odete. Sono qui da circa un anno. “Quando siamo arrivate lo scorso anno – ci racconta suor Dora – nella casa c’era solo una stanza: il resto lo stavano mettendo a posto. Entrando in “casa” padre Marcello disse: ho un’idea, andiamo a trascorrere una settimana a san Paolo di Olivenza!”.
La chiesa della comunità santa Rita



La comunità di Santa Rita, dal punto di vista religioso è quasi tutta protestante. Dal punto di vista sociale è forse la realtà più povera incontrata sino ad ora: il che è tutto dire. La presenza delle te suore del PIME a santa Rita corrisponde all’intuizione pastorale del vescovo Adolfo: non si può più pensare di pretendere di fare missione solamente visitando ogni tanto le comunità come si è sempre fatto: occorre vivere in mezzo alla gente, occorre essere presenza. Don Adolfo sta invitando suore, laici e presbiteri da varie parti del Brasile a viere nelle comunità della diocesi, per essere vicini alle comunità indigene. Verso sera – cioè le 17, visto che il sole viene giù molto presto – facciamo un giro nel paesino, per avvisare alcune persone per la messa di domani. Ne approfittiamo anche per entrare in alcuni negozi. Suor Odete ci spiega che il commercio locale è tutto in mano ai peruani (abitanti del Perù). Ci spiega anche i meccanismi loschi che stanno avvenendo in questi negozi, che lei stessa ha potuto verificare. “La carta di credito delle famiglie povere che ricevono la pensione o i benefici del governo viene presa dai commercianti peruani, che trattengono metà della mensilità da spendere nei loro negozi. Questo tipo di atteggiamento è proibito per legge. Il problema è che qui siamo così fuori dal mondo che chiunque fa ciò che vuole e i poveri ci rimettono”.  Dalle parole di suor Odete capiamo che è anche difficile organizzare un lavoro di coscientizzazione. “I popoli kokama e tikuna che vivono qui, accettano passivamente la situazione: non sono abituati a ribellarsi dinanzi alle ingiustizie”.

Momento di preghiera con le suore del PIME

Martedì, 19 marzo. Alla mattina preghiamo insieme con le suore: lodi della solennità di san Giuseppe. Dopo colazione cerchiamo Nicanor, che è il cachiqui della comunità che, in canoa ci porta a visitare alcune comunità vicine. Se fosse stagione di bassa marea le comunità potrebbero essere raggiunte a piedi, ma essendo stagione di alta marea, il fiume si è alzato e sta allagando tutto il paese, comprese le strade. Con Nicanor (di anni 81), quindi, prendiamo una canoa: e qui comincia l’avventura. Infatti, appena entriamo nell’igarapé (è una parte del fiume che entra in uno spazio senza uscita) con la canoa, guidata da Nicanor e da una ragazzina di 13 anni chiamata Rita, cerchiamo di entrare nel fiume Solimões (che sarebbe il fiume delle Amazzoni). Nicanor e Rita, nonostante remino con tutte le forze, non riescono a remare contro corrente, in direzione della comunità di Porto Franco verso cui siamo diretti, e la canoa per alcuni momenti è trascinata dalla forte corrente del fiume. 
Don Gabriele al lavoro per non affondare!


Per fortuna, da lontano Nicanor vede la barca a motore di uno dei suoi 7 figli e lo invita ad affiancarsi. A quel punto Nicanor lega la nostra canoa alla barca del figlio, che lentamente ci trascina al posto desiderato. Appena arrivati suor Dora riconosce sulla strada della comunità, la psicologa Renata, di Manaus, che visita le famiglie, e soprattutto attende donne che hanno subito violenze. Oltre a ciò, entra nelle scuole per orientare i giovani sui temi dell’alcol e della droga. Assieme a Renata e ad alcune persone della sua équipe facciamo due passi per la comunità per conoscere un po' il territorio.
Don Gabriele e suor Laura in visita al quartiere allagato


Nel pomeriggio visita al quartiere di Santa Rita chiamato favela. È la zona più povera della comunità. Quasi tutto il quartiere è evangelico. Mentre passiamo vari bambini e signore riconoscono le suore, che salutano con calore. Tra una zona allagata e una no, attraversiamo il quartiere in mezzo a campetti di calcio improvvisati in cui giocano tanti bambini e ragazzi/e. Mentre camminiamo in mezzo a tanta povertà penso alla vita di queste tre suore. Ci vuole veramente tanta fede, tanto amore, anzi un amore per Dio fuori dal normale, per accettare la proposta di vivere in mezzo a questo nulla. È vero che sono tre donne con dell’iniziativa, ognuna con caratteristiche e doni diversi. In ogni modo, la loro presenza qui chiama in causa molte pagine del Vangelo, le pagine della sequela a Gesù che chiede di rinnegare se stessi, di rinunciare a tutto. Nella vita di queste tre donne a Santa Rita appare lo stile del seme gettato nel terreno, del fermento nella massa, di qualcosa che viene svolto in piena e pura fiducia, affidandosi a Dio, più che alla possibilità di controllare i risultati di un lavoro svolto. Per chi nasce qui forse è normale, ma per chi viene dall’Italia o dal sud del Brasile, molto normale non è.

Foto di gruppo dopo la messa nella cappella della comunità santa Rita

Alla sera messa nella cappella di santa Rita. Celebriamo la solennità di san Giuseppe. Nella piccola chiesetta arrivano lentamente alcune persone. Oltre alla celebrazione domenicale realizzata dalle suore, nella cappella durante la settimana viene celebrato il rosario, oltre alla catechesi dei bambini. Alla celebrazione guidata da don Gabriele e ben preparata, le persone si lasciano coinvolgere. È un bel momento che rimarrà senza dubbio segnato nella loro memoria.


2 commenti:

  1. Fantastico il tuo resoconto, don Paolo! Un vento fresco che spazza via ogni strisciante allusione e qualsiasi subdola falsità. Ti abbraccio con affetto, certo che la tua opera missionaria sia guidata e sorretta dallo Spirito Santo!

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  2. Meravigliosa la foto di gruppo dove don Gabriele tiene amorevolmente quel bimbo(o bimba)in braccio !

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