domenica 13 settembre 2015

CHIESA E POVERI: USCIRE DALLA DEMAGOGIA




Paolo Cugini

Il problema, a questo punto del discorso, è il seguente: in che modo la Chiesa è chiamata ad annunciare il Vangelo ai poveri?
Questa domanda è di difficile risposta nel mondo Occidentale, perché è di difficile comprensione. Non si capisce il mondo dei poveri se non conoscendoli, vivendo con loro, stando in mezzo a loro. È sufficiente sfogliare le pagine dei libri e degli articoli del mondo cattolico Occidentale, per capire che il problema non è inteso nella sua profondità e realtà. C’è troppa poesia, troppa demagogia, troppo pietismo: si cerca troppo l’effetto speciale. C’è tutta una letteratura che enfatizza in modo irreale i poveri, come se fossero angeli o come se bastasse compiere opere di carità per evangelizzarli. I  poveri sono diseredati da tutto, non solo dal punto di vista materiale ma, soprattutto, spirituale. Vivere da poveri in mezzo ai poveri non è per nulla simpatico né tantomeno poetico. È vivere spesso con sentimenti di tensione per tutto ciò che ingiustamente si è costretti a sopportare. È vita disumana, perché le condizioni di vita nelle quali i poveri sono costretti a vivere, sono spesso ai limiti della dignità e della sopportazione umana. È vita in cui, questa stessa dignità umana, è spesso e volentieri calpestata senza nessun rimorso, da parte dei politici di turno. Non piace a nessuno essere considerati inferiori, cittadini di secondo o terzo grado. La Chiesa che entra in contatto con il mondo dei poveri e non compie un cammino di discesa per raggiungere le persone povere, condividere la loro umiliazione, toccare la loro carne, sentire la loro puzza, rischia di assimilare gli stessi meccanismi di diseguaglianza sociale che il mondo produce.  È vero che la Chiesa, per sussistere e accompagnare il cammino degli uomini  nella storia, ha bisogno di organizzarsi. È anche vero però che, prima di organizzarsi, deve immergersi nella realtà per conoscerla. In questa prospettiva la profonda e ardita lezione di Paolo Manna, insegna molte cose, soprattutto sul metodo missionario di molte congregazioni religiose.

Dalle riflessioni proposte nelle pagine precedenti risulta comprensibile come formare un comunità di poveri sia un’impresa così grande che solo lo Spirito Santo può riuscire a realizzare. Infatti, non basta solamente compiere un cammino di discesa per annunciare il Vangelo ai poveri, non basta neanche condividerne la condizione, ma diviene necessario accettare di portare sulle proprie spalle e nella propria vita il peso della sconfitta dei crocefissi della storia. Le persone che si dispongono a lavorare pastoralmente in mezzo ai poveri, che desiderano annunciare e condividere la Buona Novella con i poveri, devono poter dire con la loro stessa vita la gratuità di Dio. Gratuità che gli stessi poveri arriveranno a credere e ad accogliere solamente con l’umiliazione, la crocifissione degli stessi missionari. Chiaramente il riferimento è a quella crocifissione spirituale fatta della santa sopportazione delle incomprensioni e delle malignità che, una vita gratuita e spesa per gli altri, porta naturalmente con sé.  Crocifissione spirituale come  morte anche dei propri desideri di gloria, dei propri sogni giovanili di realizzazione personale e di successo umano. L’evangelizzazione in mezzo ai poveri, quando è autentica, è destinata a fallire, non per forze esterne ma per causa degli stessi poveri. Realizzare una comunità frutto della condivisione del Vangelo nel mezzo di un’umanità corrosa da gelosie, invidie, rivalità e divisioni, spesso conseguenza di secoli di umiliazioni e frustrazioni, richiede tempo, molto tempo, per camminare assieme con pazienza. Districarsi tra i tentativi di accaparrassi i favori del missionario, sforzarsi di essere il più possibile imparziale per non provocare le gelosie di nessuno, essere costantemente ponte di riconciliazione, aiutare le persone ad accogliere la misericordia di Dio: è questa la prima grandissima opera sociale che La Chiesa è chiamata a realizzare in mezzo ai poveri. Senza dubbio, ciò non vuole significare dimenticarsi dei problemi basici e di prima emergenza  quali la fame e la sete. In questa prospettiva non esiste un prima e un dopo.  La Chiesa, comunque, mentre sfama i poveri, lo fa non per un semplice e pietoso dovere sociale, ma come segno della presenza del Regno dei cieli che, in Gesù Cristo si è avvicinato al mondo, nella gratuità di Dio per noi.

Il danno maggiore prodotto dal sistema politico dei potenti senza scrupolo, consiste nell’aver sradicato dal cuore dei poveri la gratuità. Per questo Gesù è morto massacrato, umiliato, perché nessuno ha creduto al suo amore disinteressato, al suo dono, alla sua vita donata gratuitamente. L’odio del mondo non sopporta l’amore gratuito. Nessuno, nemmeno i suoi discepoli hanno creduto che l’azione di Gesù non fosse finalizzata per raggiungere qualche potere politico. Ha, così, dovuto accettare la morte del giusto innocente, bere il calice amarissimo dell’incomprensione e della solitudine e affrontare la morte come agnello sbranato, fatto a pezzi dai lupi di questo mondo accecato dall’egoismo. Se non esiste nel missionario, in coloro che il Signore chiama per annunciare il Vangelo ai poveri, questa disponibilità alla donazione totale di sé, all’essere umiliati, insultati dagli stessi poveri, il Vangelo non passa. Non passa nella sua profondità, nella sua radicalità, nella sua genuinità e cioè come manifestazione dell’amore gratuito di Dio realizzatosi in Gesù e che continua, per opera dello Spirito Santo,  nella storia degli uomini e donne di ogni tempo e di ogni luogo.

Certamente anche senza la croce l’azione della Chiesa riesce a far passare tanti valori, senza dubbio positivi. Ma il cuore dell’umanità si apre in una forma sorprendente, solamente dinanzi all’umiliazione del giusto, alla sofferenza dell’innocente. Il perché di questo fatto è racchiuso nei misteri di Dio che sono insondabili. Comunque, la novità di questo metodo era già presente nelle profezie dell’Antico Testamento. Dice, infatti il profeta Isaia:
 “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire… era disprezzato e non avevamo alcuna stima… Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità… Al Signore è piaciuto prostrarlo nei dolori” (Is 53,3.4.10).
Questa è la grandissima novità, lo specifico del Vangelo, che lo rende incomprensibile agli spiriti superficiali e orgogliosi che pretendono di capire tutto. È la croce, e solo la croce che apre nel cuore della storia, la strada per l’ascesa dell’uomo a Dio. Del resto è ciò che ci ricorda ance San Paolo:
“La parola della croce, infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio (1 Cor1,18).

Dinanzi alle tante difficoltà, alle incomprensioni, alle resistenze, la Chiesa è costantemente tentata a fuggire dalla sofferenza cercando cammini più comodi, meno pesanti da portare. E, allora, comincia a strutturarsi, a rendersi più efficiente, mimetizzandosi nel mondo. È evidente che l’organizzazione della Chiesa è necessaria: nessuno lo mette in discussione. Ciò che invece va messo in discussione, è il modo di strutturarsi, soprattutto nei paesi poveri e in via di sviluppo. La tentazione che si avverte nel processo dei evangelizzazione dei poveri, è quella di insegnare il Vangelo dalla cattedra o, perlomeno, rimanendo un gradino più alto, per non confondersi troppo e non farsi troppo male e non sentire troppo il dolore dei chiodi, nel cammino di incarnazione che è un cammino di discesa.
In questo senso i poveri costringono la Chiesa a compiere un cammino di conversione, ad uscire dai castelli, dai palazzi lussuosi, dalle fortezze costruite in secoli di storia non sempre trasparente che ne hanno limitato il potenziale, la forza sconvolgente, che le deriva dall’azione dello Spirito Santo che continuamente riceve. La Chiesa, quando incontra i poveri, si trova costretta a compiere un scelta: o rafforzare le roccaforti per non essere assaltata, o lasciarsi spogliare e così condividere, sperimentare  come la gloria di Dio vale più di mille psicologi, capace com’è di curare in profondità le lacerazioni provocate  dall’egoismo umano.

La Chiesa che si lascia spogliare dai poveri e si riveste dei panni sporchi della sorella povertà, apprende davvero a contare solamente sulla provvidenza di Dio. Per questo la Chiesa che decide di seguire il cammino di discesa compiuto da Gesù, non può che essere contemplativa. È con gli occhi fissi in Gesù che la Chiesa entra in contatto permanente con i poveri, per cogliere nei loro volti il volto sfigurato del crocifisso, volto da amare e da curare.  Se non esiste questo sguardo costantemente fisso su Gesù, che riempie il cuore del credente dell’amore gratuito di Gesù, il servizio che la Chiesa compie ai poveri rischia di fermarsi al piano sociale, che spesso è semplicemente assistenziale e mira solamente a mettere a tacere la coscienza.


In questa prospettiva, anche i riti che la Chiesa celebra, perdono progressivamente di forza e significato, perché non esprimono più l’amore di cui sono stati originati. La Chiesa corre così il rischio di divenire competitiva, di competere con l’efficienza del mondo, che progetta di risolvere il problema della povertà con i guanti della festa per non sporcarsi le mani. La Chiesa pulita dalle mani pulite che elabora progetti sociali in favore dei poveri, rischia di perdere il senso e, alla stesso tempo, la direzione della propria missione: morire con i poveri, così come ha fatto Gesù, per essere segno del suo grande amore. Il rischio è ingrassare il proprio orgoglio con la fame dei poveri. La Chiesa è chiamata a stare in mezzo ai poveri così come Cristo ci è stato: da povera, umile, serva, crocifissa.

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