Paolo Cugini
Il problema, a questo punto del discorso, è il seguente: in che
modo la Chiesa è chiamata ad annunciare il Vangelo ai poveri?
Questa domanda è di difficile risposta nel mondo Occidentale,
perché è di difficile comprensione. Non si capisce il mondo dei poveri se non
conoscendoli, vivendo con loro, stando in mezzo a loro. È sufficiente sfogliare
le pagine dei libri e degli articoli del mondo cattolico Occidentale, per
capire che il problema non è inteso nella sua profondità e realtà. C’è troppa
poesia, troppa demagogia, troppo pietismo: si cerca troppo l’effetto speciale.
C’è tutta una letteratura che enfatizza in modo irreale i poveri, come se
fossero angeli o come se bastasse compiere opere di carità per evangelizzarli.
I poveri sono diseredati da tutto, non
solo dal punto di vista materiale ma, soprattutto, spirituale. Vivere da poveri
in mezzo ai poveri non è per nulla simpatico né tantomeno poetico. È vivere
spesso con sentimenti di tensione per tutto ciò che ingiustamente si è
costretti a sopportare. È vita disumana, perché le condizioni di vita nelle
quali i poveri sono costretti a vivere, sono spesso ai limiti della dignità e
della sopportazione umana. È vita in cui, questa stessa dignità umana, è spesso
e volentieri calpestata senza nessun rimorso, da parte dei politici di turno.
Non piace a nessuno essere considerati inferiori, cittadini di secondo o terzo
grado. La Chiesa che entra in contatto con il mondo dei poveri e non compie un
cammino di discesa per raggiungere le persone povere, condividere la loro
umiliazione, toccare la loro carne, sentire la loro puzza, rischia di
assimilare gli stessi meccanismi di diseguaglianza sociale che il mondo
produce. È vero che la Chiesa, per sussistere
e accompagnare il cammino degli uomini
nella storia, ha bisogno di organizzarsi. È anche vero però che, prima
di organizzarsi, deve immergersi nella realtà per conoscerla. In questa
prospettiva la profonda e ardita lezione di Paolo Manna, insegna molte cose,
soprattutto sul metodo missionario di molte congregazioni religiose.
Dalle riflessioni proposte nelle pagine precedenti risulta
comprensibile come formare un comunità di poveri sia un’impresa così grande che
solo lo Spirito Santo può riuscire a realizzare. Infatti, non basta solamente
compiere un cammino di discesa per annunciare il Vangelo ai poveri, non basta
neanche condividerne la condizione, ma diviene necessario accettare di portare
sulle proprie spalle e nella propria vita il peso della sconfitta dei
crocefissi della storia. Le persone che si dispongono a lavorare pastoralmente
in mezzo ai poveri, che desiderano annunciare e condividere la Buona Novella
con i poveri, devono poter dire con la loro stessa vita la gratuità di Dio.
Gratuità che gli stessi poveri arriveranno a credere e ad accogliere solamente
con l’umiliazione, la crocifissione degli stessi missionari. Chiaramente il
riferimento è a quella crocifissione spirituale fatta della santa sopportazione
delle incomprensioni e delle malignità che, una vita gratuita e spesa per gli
altri, porta naturalmente con sé.
Crocifissione spirituale come
morte anche dei propri desideri di gloria, dei propri sogni giovanili di
realizzazione personale e di successo umano. L’evangelizzazione in mezzo ai
poveri, quando è autentica, è destinata a fallire, non per forze esterne ma per
causa degli stessi poveri. Realizzare una comunità frutto della condivisione
del Vangelo nel mezzo di un’umanità corrosa da gelosie, invidie, rivalità e
divisioni, spesso conseguenza di secoli di umiliazioni e frustrazioni, richiede
tempo, molto tempo, per camminare assieme con pazienza. Districarsi tra i
tentativi di accaparrassi i favori del missionario, sforzarsi di essere il più
possibile imparziale per non provocare le gelosie di nessuno, essere
costantemente ponte di riconciliazione, aiutare le persone ad accogliere la
misericordia di Dio: è questa la prima grandissima opera sociale che La Chiesa
è chiamata a realizzare in mezzo ai poveri. Senza dubbio, ciò non vuole
significare dimenticarsi dei problemi basici e di prima emergenza quali la fame e la sete. In questa
prospettiva non esiste un prima e un dopo.
La Chiesa, comunque, mentre sfama i poveri, lo fa non per un semplice e
pietoso dovere sociale, ma come segno della presenza del Regno dei cieli che,
in Gesù Cristo si è avvicinato al mondo, nella gratuità di Dio per noi.
Il danno maggiore prodotto dal sistema politico dei potenti senza
scrupolo, consiste nell’aver sradicato dal cuore dei poveri la gratuità. Per
questo Gesù è morto massacrato, umiliato, perché nessuno ha creduto al suo
amore disinteressato, al suo dono, alla sua vita donata gratuitamente. L’odio
del mondo non sopporta l’amore gratuito. Nessuno, nemmeno i suoi discepoli
hanno creduto che l’azione di Gesù non fosse finalizzata per raggiungere
qualche potere politico. Ha, così, dovuto accettare la morte del giusto
innocente, bere il calice amarissimo dell’incomprensione e della solitudine e
affrontare la morte come agnello sbranato, fatto a pezzi dai lupi di questo
mondo accecato dall’egoismo. Se non esiste nel missionario, in coloro che il
Signore chiama per annunciare il Vangelo ai poveri, questa disponibilità alla
donazione totale di sé, all’essere umiliati, insultati dagli stessi poveri, il
Vangelo non passa. Non passa nella sua profondità, nella sua radicalità, nella
sua genuinità e cioè come manifestazione dell’amore gratuito di Dio
realizzatosi in Gesù e che continua, per opera dello Spirito Santo, nella storia degli uomini e donne di ogni tempo
e di ogni luogo.
Certamente anche senza la croce l’azione della Chiesa riesce a far
passare tanti valori, senza dubbio positivi. Ma il cuore dell’umanità si apre
in una forma sorprendente, solamente dinanzi all’umiliazione del giusto, alla
sofferenza dell’innocente. Il perché di questo fatto è racchiuso nei misteri di
Dio che sono insondabili. Comunque, la novità di questo metodo era già presente
nelle profezie dell’Antico Testamento. Dice, infatti il profeta Isaia:
“Disprezzato
e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire… era
disprezzato e non avevamo alcuna stima… Egli è stato trafitto per i nostri
delitti, schiacciato per le nostre iniquità… Al Signore è piaciuto prostrarlo
nei dolori” (Is 53,3.4.10).
Questa è la grandissima novità, lo specifico del Vangelo, che lo
rende incomprensibile agli spiriti superficiali e orgogliosi che pretendono di
capire tutto. È la croce, e solo la croce che apre nel cuore della storia, la
strada per l’ascesa dell’uomo a Dio. Del resto è ciò che ci ricorda ance San
Paolo:
“La parola della croce, infatti è stoltezza
per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è
potenza di Dio (1 Cor1,18).
Dinanzi alle tante difficoltà, alle incomprensioni, alle
resistenze, la Chiesa è costantemente tentata a fuggire dalla sofferenza
cercando cammini più comodi, meno pesanti da portare. E, allora, comincia a
strutturarsi, a rendersi più efficiente, mimetizzandosi nel mondo. È evidente
che l’organizzazione della Chiesa è necessaria: nessuno lo mette in
discussione. Ciò che invece va messo in discussione, è il modo di strutturarsi,
soprattutto nei paesi poveri e in via di sviluppo. La tentazione che si avverte
nel processo dei evangelizzazione dei poveri, è quella di insegnare il Vangelo
dalla cattedra o, perlomeno, rimanendo un gradino più alto, per non confondersi
troppo e non farsi troppo male e non sentire troppo il dolore dei chiodi, nel
cammino di incarnazione che è un cammino di discesa.
In questo senso i poveri costringono la Chiesa a compiere un
cammino di conversione, ad uscire dai castelli, dai palazzi lussuosi, dalle
fortezze costruite in secoli di storia non sempre trasparente che ne hanno
limitato il potenziale, la forza sconvolgente, che le deriva dall’azione dello
Spirito Santo che continuamente riceve. La Chiesa, quando incontra i poveri, si
trova costretta a compiere un scelta: o rafforzare le roccaforti per non essere
assaltata, o lasciarsi spogliare e così condividere, sperimentare come la gloria di Dio vale più di mille psicologi,
capace com’è di curare in profondità le lacerazioni provocate dall’egoismo umano.
La Chiesa che si lascia spogliare dai poveri e si riveste dei
panni sporchi della sorella povertà, apprende davvero a contare solamente sulla
provvidenza di Dio. Per questo la Chiesa che decide di seguire il cammino di
discesa compiuto da Gesù, non può che essere contemplativa. È con gli occhi
fissi in Gesù che la Chiesa entra in contatto permanente con i poveri, per
cogliere nei loro volti il volto sfigurato del crocifisso, volto da amare e da
curare. Se non esiste questo sguardo
costantemente fisso su Gesù, che riempie il cuore del credente dell’amore
gratuito di Gesù, il servizio che la Chiesa compie ai poveri rischia di
fermarsi al piano sociale, che spesso è semplicemente assistenziale e mira
solamente a mettere a tacere la coscienza.
In questa prospettiva, anche i riti che la Chiesa celebra, perdono
progressivamente di forza e significato, perché non esprimono più l’amore di
cui sono stati originati. La Chiesa corre così il rischio di divenire
competitiva, di competere con l’efficienza del mondo, che progetta di risolvere
il problema della povertà con i guanti della festa per non sporcarsi le mani.
La Chiesa pulita dalle mani pulite che elabora progetti sociali in favore dei
poveri, rischia di perdere il senso e, alla stesso tempo, la direzione della
propria missione: morire con i poveri, così come ha fatto Gesù, per essere
segno del suo grande amore. Il rischio è ingrassare il proprio orgoglio con la
fame dei poveri. La Chiesa è chiamata a stare in mezzo ai poveri così come
Cristo ci è stato: da povera, umile, serva, crocifissa.
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