martedì 15 settembre 2015

UN CAMMINO DI CHIESA

ARCHVIOBRASILE




LETTERA CIRCOLARE
(Luglio 2006)

Paolo Cugini

 Ormai mi sto abituando e ogni sei mesi circa, scrivo una lettera circolare, un testo che mi serve per riflettere su ciò che sto realizzando come missionario e, allo stesso tempo, mantenere un legame con le persone che conosco in Italia.
Inizio condividendo alcune esperienze pastorali, per passare, poi, ad alcune riflessioni.

1.Come già vi scrivevo nella lettera precedente, il grande problema di Tapiramutá è l’alto indice di persone che emigrano in cerca di lavoro finendo, spesso, nelle mani di sfruttatori senza scrupoli. Ciò provoca la difficoltà di organizzare soprattutto nella zona rurale, una vita di comunità. Oltre a ciò, c’è anche il fatto che da maggio ad ottobre moltissime persone sono impegnate nella raccolta del caffè e dei fagioli e, di conseguenza, durante la settimana è difficile organizzare qualcosa. A dire il vero questo discorso no vale solo per la zona rurale, ma anche per la città. Ieri sera, per esempio, sono stato in uno dei quartieri della città per celebrare un Messa. Quando sono arrivato nella casa, ho trovato solo due bambini e un giovane, il quale mi ha detto che i due camion che trasportano le persone nelle fazendas del caffè, dovevano ancora tornare. Mi sono, così adeguato e, dopo due chiacchiere con Antonio, il giovane preasente, me ne sono tornato a casa. In ogni modo non è stato tempo perso. Infatti, parlando con Antonio sulla situazione difficile del quartiere che il nome stesso- strada del bicchiere- ne rivela la qualità, abbiamo deciso di iniziare un’esperienza di prima evangelizzazione per i bambini e lui stesso si è offerto per essere il catechista. Antonio ha 26 anni, si é battezzato la notte di Pasqua e sta frequentando il catechismo per ricevere il sacramento della Cresima. Abbiamo deciso di iniziare l’esperienza in una casa vicino alla sua che, per l’affitto mensile, il padrone chiede 30 reais, che corrispondono a 12 euro circa.

 Per alcuni mesi ho concentrato il lavoro pastorale nelle comunità soprattutto il fine settimana, anche a causa dell’insegnamento alla facoltà teologica di Feira Santana che mi occupa da lunedì a mercoledì, ma non sono molto soddisfatto. Ricco della esperienza di Miguel Calmon, in cui passavo la settimana intera in una regione visitando le comunità, organizzando incontri nelle scuole, visitando le famiglie, oltre che naturalmente celebrare le Messe, mi sembra di perdere tempo. Faccio fatica, infatti, a ridurre la mia azione pastorale nelle comunità semplicemente con una Messa. Questo vale soprattutto in questo contesto, nel quale in quasi nessuna comunità ci sono le condizioni per celebrare una santa Messa. Di fatto, solamente in due comunità delle venticinque che sto attualmente seguendo, ci sono ministri della Parola laici che celebrano la liturgia domenicale. Oltre a ciò, c’è il dato di fatto che quasi nessuno ha ricevuto il sacramento del matrimonio e solamente in due comunità é stata celebrata una prima Eucaristia. Del sacramento della penitenza neanche a parlarne: in 17 mesi di Tapiramutá ho confessato 6 persone. Anche per quanto riguarda i funerali i numeri sono gli stessi. L’unica cosa che la gente chiede è il Battesimo dei figli. É a partire da questa richiesta “religiosa” che sto impostando il lavoro pastorale nelle comunità.
 Con il Nuovo Testamento in mano cerco di aiutarli a capire che il Battesimo è legato alla vita della comunità (1 Cor 12, 1ss), che per salvarsi non basta il Battesimo, ci vuole la conoscenza della Parola di Dio ( Mt 28, 16ss) e la fede ( Mc 16, 12ss). Oltre a ciò, conforme una proposta della diocesi, ho tolto tutte le tasse sui sacramenti per incentivare la pastorale della decima, sensibilizzando i fedeli a contribuire mensilmente conforme le possibilità di ognuno, per il mantenimento della parrocchia. Nonostante queste agevolazioni i battesimi nel 2005 sono passati dai 421 del 2004 a 46!. Quasi nessuno mi chiede più di battezzare i propri figli. Si è sparsa la notizie che il nuovo parroco è molto esigente. La verità è che sto pagando il prezzo di secoli di sacramentalizzazione, di identificazione della Chiesa con la pura e santa materialità dei sacramenti, senza il minimo sforzo di spiegare che cosa era quel rito al quale stavano partecipando. É vero che era un’altra epoca e altri tempi, ma continuare con  lo stesso schema, oggi mi sembra assurdo. E allora, quando passano gli evangelici o i neo-pentecostali nelle case, con la bibbia in mano, mietono addetti tutti i minuti.

 Questo discorso potrebbe valere anche per l’Italia. Quanti battesimi di bambini si celebrano senza interrogarsi se i genitori e i padrini credono perlomeno in Dio o hanno una vita parrocchiale! L’ultima volta che sono venuto in Italia, nel 2002, sono stato invitato da un amico prete ad una celebrazione penitenziale, per confessare gli adolescenti che avrebbero ricevuto il sacramento della Cresima nella domenica seguente. Ricordo che ne ho confessati 19 e a tutti ho fatto la stessa domanda: “Partecipi della messa domenicale?”. Solo uno mi ha risposto di si. Qualcuno mi ha risposto dicendo che qualche volta partecipava. La maggioranza non metteva piede in Chiesa. Sono robe da pazzi. E pensare che si trattava del sacramento della Cresima, di cui tanto si parla, soprattutto per la possibilità che questo sacramento offre per offrire cammini più personalizzati e per un cammino di adesione alla fede più autentico e maturo.

. É chiaro che se la preoccupazione principale sono i numeri, le statistiche, si va avanti così, costi quel che costi. Se ci tenessimo un pò di più a fare in modo che i ragazzi incontrassero il Signore, forse personalizzeremmo di più la vita sacramentale e non forzeremmo i ragazzi a ricevere “qualcosa” di cui non sanno nulla e non capiscono perché i genitori e il parroco vogliono che partecipi.

 “Finito la cresima non metterò mai più piede in Chiesa”. Quante volte ho ascoltato questa frase, spesso piena di rabbia e di rancore! E non erano monellacci o monellaccie a dire queste cose, ma ragazzi e ragazze che avrebbero preferito passare il loro tempo altrove.

 Il cammino di fede é una proposta libera ed esige libertà. Dovremmo lavorare pastoralmente di più per coltivare questa libertà. Ed è quello che sto tentando di fare a Tapiramutá. Quando si presenta un ragazzo o una ragazza per fare l’iscrizione per partecipare della catechesi della Cresima, gli leggo la proposta che la parrocchia ha pensato. Questa proposta prevede, oltre alla partecipazione della catechesi, la partecipazione della messa domenicale, di ritiri spirituali e del gruppo di giovani del quartiere in cui vive. Dopo avergli letto, spiegato e dialogato sulla  proposta,  gli chiedo se se la sente di firmare per manifestare il proprio impegno personale su ciò che sta chiedendo alla Chiesa. É su questa firma che, con il consenso dei catechisti e dei coordinatori dei gruppi di giovani, si decide se continuare il cammino o interromperlo. Siamo così partiti lo scorso anno con 140 adolescenti per la catechesi della Cresima e attualmente ne sono rimasti 38.

Il problema non è correre il rischio di creare una Chiesa di élite, come qualcuno potrebbe pensare, ma dare valore e serietà alla proposta di Gesù. É chiaro che i modi e i metodi possono essere tanti, ma credo necessario tentare a tutti i costi di uscire dalla massificazione sacramentale, per creare spazi nelle parrocchie, in cui sia possibile incontrare il Signore, fare un’esperienza personale di Dio. Se no poi non ha senso sparare a zero sui movimenti o impazzire perché gruppetti di persone si incontrano in una casa per leggere la bibbia all'insaputa del parroco.
 Speriamo che a Verona lo Spirito Santo esageri un pò e provochi qualche decisione radicale per un cammino di Chiesa più evangelico e meno ipocrita.

Siccome abbiamo visto che in città le persone ancora non riescono ad identificarsi con le comunità formate una decina di anni fa, abbiamo deciso di attivare un maggior numero di circoli biblici settimanali. Dai sette dello scorso anno siamo passati a venti. In queste cose sono abbastanza spregiudicato. Delle persone che vedo partecipare maggiormente della vita della Chiesa, chiedo la disponibilità a guidare un circolo biblico.Tutti i venerdì sera, guido una specie di studio biblico, aperto a tutte le persone e, in modo particolare, per coloro che stanno accompagnando i circoli biblici della città.

 Come sempre l’esperienza iniziale é stata folgorante. Nella verifica che nel mese di maggio abbiamo fatto assieme al vescovo André, in visita pastorale alla nostra parrocchia, l’entusiasmo era alle stelle. Le note più positive sono venute da quelle persone che hanno accettato di avviare il circolo biblico nei quartieri della città da sempre abbandonati. In vari di questi circoli biblici sono già partite anche esperienze di catechesi sia di prima Eucarestia, che di Cresima.

Assieme alle vittorie abbiamo condiviso le prime sconfitte. In un settore della città, infatti, non riusciamo a coinvolgere le persone. Prima ho iniziato io, visitando per ben tre volte in circa due mesi, tutte le famiglie del settore. Alle messe che marcavo, però, non veniva nessuno. Tutte le volte mi trovavo da solo con le persone della famiglia della casa che ospitava la celebrazione. Assieme al consiglio pastorale, abbiamo deciso di insistere: due giovani si sono offerti, ma non è servito a molto. In altri due circoli biblici le persone che si erano rese disponibili per accompagnare, hanno cambiato città in cerca di lavoro. Nel prossimo consiglio pastorale valuteremo il da farsi.
Nonostante Tapiramutá non sia una delle città più grande della diocesi di Ruy Barbosa –in città vivono tredicimila persone e cinque mila nella zona rurale- ci sono ancora strade e quartieri che non siamo ancora riusciti a organizzare pastoralmente.

Questa mattina, per esempio, sono stato a visitare le famiglie di una di queste strade che ancora non rientrano nella programmazione parrocchiale. Ho approfittato dell’uscita dell’ultimo numero del giornale della parrocchia per presentarmi. Per la verità ho trovato molte porte chiuse per causa della raccolta del caffè: le famiglie escono alla mattina presto e ritornano alla sera verso le 19/20. Con le poche persone trovate in casa, mi sono presentato. “Buongiorno, sono il parroco di Tapiramutá: mi conoscete?”. Delle famiglie incontrate solo una ha risposto affermativamente. Quando chiedevo il motivo della non frequenza alla Messa domenicale, la risposta è stata la stessa: troppo distante e pericoloso. In realtà dove abitano  non ci sono lampioni e, di sera, non è igenico uscire al buio, per causa del pericolo di assalti o dei ladri che possono entrare in casa durante l’assenza delle persone. Porterò il caso al prossimo consiglio pastorale per vedere se c’è qualcuno che si rende disponibile per attivare un circolo biblico da queste parti.

Come già dicevo sopra, anche qui nella Bahia il problema della vita della Chiesa non è di facile soluzione. Siamo campioni del mondo in progetti sociali, ma se poi si tenta di vedere da vicino, non si capisce molto in che senso questi progetti siano segno della presenza di Cristo o di qualche cosa d’altro. Forse la colpa è anche un pò di noi missionari che presentiamo il volto povero della Bahia e parliamo poco della vita della Chiesa, non condividiamo con voi il cammino ecclesiale. E allora  succede che mentre nei progetti sociali siamo super avanzati, nella vita interna della Chiesa siamo all’epoca di Cabral, lo scopritore del Brasile. Siccome non sappiamo più che farne dei sacramenti, perché per alcuni sono retaggio dell’occidente colonizzatore,  inventiamo altre cose. Siccome siamo pigri per cercare di conoscere meglio la Tradizione della Chiesa per tentare cammini di inculturazione attenti alla realtà in cui viviamo, facciamo i moderni anzi i postmoderni e tutti i giorni ne inventiamo di nostre. E così c’è il prete bahiano che battezza cani e porci anche per fare qualche soldino e, poco più in la il prete italiano con le tasche piene di euro, che battezza gratis nelle decine di chiesette costruite con i soldi stranieri. E ancora, mentre in una parrocchia il prete carismatico celebra le messe con la benedizione finale usando l’ostensorio e invitando l’assemblea ad applaudire, dall’altra il prete socialista inventa di far celebrare la messa ai laici.

Aiutare le persone ad incontrare il Signore; questo dovrebbe essere lo scopo della pastorale. Ciò ha ancora più valore quando si tratta di persone povere, non solo per il fatto che è stato lo stesso Gesù a dire di annunciare il Vangelo ai poveri, ma anche per altri motivi che potremmo chiamare antropologici. Come ha, infatti, ricordato il papa Benedetto XVI nell'udienza con i vescovi del Gana, la povertà porta con sé situazioni umanamente degradanti. Chi è abituato a vivere in situazioni di povertà, a cercare di sopravvivere, a dare da mangiare a 4,5,6 o più figli senza avere un lavoro, è portato dalla propria storia a coltivare sentimenti negativi di invidia, rivalità oltre  alla sensazione che non cambierà mai nulla. Vivere in mezzo ai poveri per qualcuno può sembrare poetico, ma di poetico ha be poco. Si tratta, infatti, di convivere tutti i giorni con persone che in qualche modo cercano di fregarti, di ottenere qualcosa per sé. É difficile avere amici tra i poveri, quelli veri, non quelli inventati dalla fantasia pietista occidentale.

 Tentare di formare comunità ecclesiali nei quartieri poveri richiede tempo e, soprattutto, la disponibilità a morire a se stessi. Solamente con il tempo la gente può capire se la mia azione è interessata o è gratuita. Solamente con il tempo io stesso posso verificare, se sto vivendo in mezzo ai poveri per fare il fenomeno, o perché sto seguendo il cammino di Gesù che ha una sola direzione: la croce. E allora quanto più vivo a contatto con queste persone povere e bisognose di tutto, tanto più mi rendo conto dell’urgenza di annunciare il Vangelo e di creare un’esperienza di Chiesa. Che cosa c´è infatti, di migliore che come prete posso offrire, che la possibilità di un’umanità trasformata, redenta, curata dai mali spirituali che la vita miserabile porta con sé?

Nessun povero sano di mente farebbe la scelta dei poveri, anche perché è una scelta evangelica, è una proposta di vita. Scrivo queste cose perché  le prime reazioni che ascolto dalle persone quando mi vedono scegliere una casa in mezzo a loro è di stupore, di incomprensione. Soprattutto  non ci credono che sia una scelta gratuita, disinteressata. Abituati, come sono, a vedere i politici passare nelle loro case ogni quattro anni, facendo promesse mostruose solamente per strappare il loro voto, non ci credono alla gratuità con la quale mi presento.

 Per questo dico che ci vuole tempo per me e per loro. Per me, per lasciare che Cristo mi incida con il dolore e la sofferenza dei poveri. E questa incisione avviene lentamente, immergendomi nella preghiera, sforzandomi di vivere come loro, accettando di vedere emergere le mie ipocrisie, i miei sotterfugi per fuggire dal peso dell’umiliazione di una vita fatta di poche cose. Sono  ormai sette anni che sono in questo cammino e, in questo lasso di tempo, si sono alternate giornate stupende, ricche della grazia di Dio ad altre pesantissime, a volte insopportabili.

 Quello che soprattutto in certi giorni, mi rende insopportabile la vita, è il tradimento di colui o colei nel quale confidavo. Nonostante l’apparenza bruta e rude dei miei modi e della mia personalità, confido molto nelle persone. Credo infatti, impossibile e disumano annunciare il Vangelo senza amici. Anzi, in questi anni di ministero, ho notato che la verità del servizio sacerdotale, la incontro proprio nelle amicizie che, lungo il cammino, si realizzano.  Gesù stesso ha annunciato il Vangelo con un gruppo di amici. “Non vi chiamo più servi ma amici” (Gv 14 ). Trovare, formare amici tra i poveri è difficile. Quante fregate abbiamo preso Gianluca ed io nel quartiere Populares di Miguel Calmon! Il rischio che vedo in me è che, dinanzi a certi fallimenti umani, passo dei periodi così neri, così infumanato, che provoco ancora più chiusura negli altri. E allora, quando all'alba mi immergo nella preghiera contemplativa, vedo il volto misericordioso di Gesù e mi sento male. Gli chiedo allora, ancora una volta, di aiutarmi ad uscire da me stesso, dalle mie paure, dalle mie chiusure e, soprattutto, dalle mie famose arrabbiature, per essere un prete più docile e, se fosse possibile, più buono. Anche perché capisco che i poveri che incontro tutti i giorni, non si meritano un prete scorbutico, brutto e cattivo. Ne meritano uno dolce e sorridente, così come era Gesù. Ci vuole tempo anche per i poveri, per prendermi le misure, per verificare la verità delle intenzioni.

 Dopo cinque anni di vita nel quartiere Populares di Miguel Calmon, pochi giorni prima della Messa di addio, Aloisio, la persona di fiducia del quartiere, si è avvicinato a  dicendomi che molte persone nel quartiere ancora non capivano il motivo della mia scelta di vivere in quel quartiere. Annunciare il Vangelo ai poveri vuole dire morire con loro, anche perché tutti sono capaci di fare qualcosa per i poveri. Basta infatti, fare una telefonata in Italia, e piovono soldi da tutte le parti. Forse però i poveri non hanno proprio bisogno dei nostri soldi facili, ma di persone che con  la loro vita mostrano stili di vita diversi da quelli che solitamente incontrano. Non sto discutendo sull’utilità degli aiuti che vengono dalle parrocchie o da amici e neanche sul modo di utilizzarli. L’attenzione della mia riflessione é sulle persone, la loro cultura, il loro modo di essere e di pensare e, a questo proposito sarebbe interessante fare quattro chiacchiere: se volete, quando il prossimo mese verrò in Italia, sono disponibile a riprendere il discorso.

 Quello che in ogni modo desidero condividere é che le persone che incontro le sento vuote, svuotate dalla fatica di vivere, anzi di sopravvivere e, quando cominciano ad aprirsi, avverto tutto il dramma spirituale ed esistenziale di una vita povera in tutti i sensi. È in queste circostanze che mi sembra di capire che, in realtàciò che di migliore gli posso offrire come prete, è qualcosa che li possa aiutare a credere ancora e nonostante tutto nella vita. Anche perché i poveri sono abituati alla povertà e non cercano quello che noi occidentali cerchiamo e no desiderano quello che noi desideriamo. Il rischio che anche noi missionari corriamo é di trasferire la mentalità occidentale nel servizio che svolgiamo. Con questo non voglio marcare negativamente la mentalità occidentale, ma solo mostrare che l’incontro con l’altro per essere autentico, deve essere frutto di un ascolto, una ricerca.
 Mi vengono in mente, a questo proposito le parole del grande teologo ortodosso Pavlev Florenskij, che nel secondo capitolo della sua monumentale opera intitolata “La colonna e il fondamento della verità”, che sto leggendo in questi giorni per la seconda volta – approfitto della lettera per ringraziare l’amico Adriano Nicolussi per avermela mandata – diceva; “É possibile per l’uomo conoscere la verità? Solamente quando è frutto di una ricerca”. Florenskij scriveva queste cose dopo aver meditato sul versetto 11 del salmo 33, che dice così: “Nessun bene manca a chi cerca il Signore”.
 La vita è una costante ricerca della Veritá ed è in questa prospettiva che vivo il ministero. Ho trascorso la giovinezza con la testa nei libri di filosofia, ma non ho trovato gran ché. Ho iniziato, così, ad ascoltare con più attenzione la Parola, che mi ha rivelato il cammino dei poveri del Signore. Vivo, allora, in un quartiere povero perché il Signore non vive nei palazzi dei ricchi, ma è misteriosamente nascosto nei poveri (Mt 25). É questa una grandissima verità che non poteva che essere rivelata, e rivelata nella vita drammatica della Verità incarnata. Che la vita sfigurata dei poveri nasconda il volto trasfigurato di Gesù, non è assolutamente frutto di un sillogismo, ma di una rivelazione dall’alto, che è necessario ascoltare e meditare in silenzio, se no sembra assurda. Desidero una Chiesa che prenda sempre più a cuore i suoi figli più poveri chiunque essi siano e dovunque essi si trovino, non come semplice impegno sociale, ma come cammino di ricerca e di conoscenza della Verità, che è nascosta al mondo e rivelata a chi la cerca. In questa linea volevo condividere le bellissime riflessioni che il  padre della Chiesa Gregorio di Nissa, fratello di Basilio il Grande- approfitto della lettera per ringraziare anche Damiano e Rossana che da quattro anni mi pagano l’abbonamento della rivista: “Testi dei padri della Chiesa” della comunità Monastica di Bose, e saluto anche tutti gli amici del centro di ascolto di Castelnovo Sotto del quale Damiano e Rossana fanno parte, che tutte le domeniche s’incontrano nella casa di Ines e Marco per meditare la Parola di Dio: Valeu galera! -  dirigeva ai fedeli della sua comunità, che manifestavano difficoltà ad accogliere i poveri, soprattutto coloro che in quella epoca, era il quarto secolo dopo Cristo, si rifiutavano di avere contatti con i lebbrosi.

 “La salvezza, dice il Signore, non sta nelle parole, ma nel mettere in pratica le opere di salvezza. Non dobbiamo, dunque, liberarci del comandamento che ci ordina di avere cura di loro. Ma nessuno mi venga a dire che è sufficiente portare loro del cibo dopo averli condotti in un luogo a grande distanza dalla nostra vita; tale soluzione non dimostra misericordia e compassione, ma rappresenta in apparenza i buoni sentimenti  di chi intende eliminare questi uomini dalla nostra vita; tale soluzione non dimostra misericordia e compassione, ma rappresenta in apparenza i buoni sentimenti di chi intende eliminare questi uomini dalla nostra vita. Non ci vergogniamo della nostra vita se ospitiamo sotto lo stesso tetto maiali e cani? Il cacciatore spesso non si separa del suo cane nemmeno a letto; il contadino abbraccia il vitello. E ancora, il viaggiatore pulisce le zampe dell’asino con le sue mani, mette la mano sulle sulle sue ferite, pulisce lo sterco, ha cura della stalla. E il nostro simile, della nostra stessa razza, lo considereremo degno di minor onore degli animali? No fratelli, non prevalga questa decisione disumana”.
Se noi cristiani non spostiamo l’accento della nostra attenzione ai poveri dal piano puramente sociale per un livello più spirituale, saremo costretti a sentire anche dentro i nostri consigli pastorali, tante stupidaggini sugli stranieri, sugli emarginati della società e anche sulle missioni, che nessuno di noi merita ascoltare.

2. In questi giorni nella preghiera del mattino, stavo meditando su una realtà nella quale mi sono imbattuto spesso in questi ultimi mesi e cioè la sete di potere. Mi colpisce la falsità delle persone, fuori e dentro la Chiesa, la menzogna travestita da verità, che si presenta con il sorriso seducente solamente per ingannare e trarre un profitto personale. Ci vuole un’anima molto pura, piena e stracolma dell’amore di Dio, per non uscire rovinati o corrotti dentro da incontri con i lupi di questo mondo. “Ecco che vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10, 16).

 Gesù lo sapeva, sapeva molto bene della sete di potere e di gloria che sta nel cuore degli uomini e delle donne e che non li lascia dormire, li fa stare  svegli, passare notte insonni a pensare, rimuginare come fregare il collega, come diventare il signore, la signora del mondo, del suo piccolissimo mondo. E allora tu esci di casa  dopo le preghiere del mattino, tutto sereno e felice per quello che hai ascoltato, per le parole piene di vita e di amore uscite dalla liturgia e subito imbatti nei branchi di lupi che cercano di possederti, dominarti, rovinarti. Va bene, Signore, mi avevi avvisato di tutto ciò, e allora prudenza, non essere troppo avventato, cerca di essere intelligente e, soprattutto, semplice per non cadere nel gioco mortale degli arroganti. Ho imparato, allora, a riconoscere con un’occhiata astuta i lupi del mondo: li riconosco da lontano, sono sempre sorridenti, ti danno la mano, ti offrono il caffè e conversano di un sacco di cose amene. É il gioco del lupo travestito di agnello che solitamente serve per mantenere calmi gli altri lupi. Questa è una delle scoperte più interessanti che ho fatto ultimamente: come prete, per il fatto di essere parroco, non sono percepito come un agnello, ma come un lupo.

 La Chiesa è entrata nel Brasile, anzi in tutta l’America Latina, con il Vangelo in una mano e con la spada nell'altra. É vero che ci sono stati anche i preti e i religiosi buoni ma, come in tutte queste storie di sangue, sono sempre le eccezioni che confermano una regola. Secoli di violenza, decenni di autoritarismo rigido, giustificando l’ingiustificabile come la schiavitù, le conversioni forzate, le confessioni come forme di controllo delle coscienze, le stragi di innocenti; e poi l’inquisizione che é stata esportata anche qui in America Latina, come se fosse qualcosa di bello da esportare, lasciando tracce indelebili nel cuore della storia. E allora esco di casa al mattino con la mia faccina di angelo (si fa per dire) e capisco che la percezione che le persone hanno di me è di essere un lupo e non agnello. “Lei padre ha più potere del sindaco, nonè vero?” Quante volte i poveri del quartiere in cui abito mi dicono cose orrende come queste. É vero che me lo dicono con il sorrisino, come per farmi un complimento, ma per me è una delle offese più tremende, perché è la negazione del Vangelo. Gesù, infatti, non aveva detto ai suoi discepoli che litigavano tra di loro per sapere chi era il più importante: “Tra di voi non deve essere così, ma chi vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti”?Che cosa è successo nel passato per giungere ad un simile travisamento della figura del sacerdote? Non dovrebbe essere un servo di Dio? E allora perché è percepito così, come rappresentante del potere politico? Come se il prete fosse un funzionario dello stato, un semplice impiegato statale, un rappresentante del potere.

 Distruggere questa immagine negativa del prete, con una vita il più possibile evangelica, nel limite delle mie forze e della mia coerenza: è diventato il mio obiettivo.
Dalla Chiesa che è Santa per la presenza costante del Signore che la santifica, ricevo tutti i mezzi per la mia santificazione. Come vorrei poterli sfruttare meglio questi santi mezzi, anche perché sono un prete, tutti i giorni maneggiando le cose sante! E invece mi ritrovo tremendamente peccatore, soprattutto quando mi trovo a contatto con i lupi di turno, che non sono solamente fuori dalla Chiesa, ma anche dentro. E allora rimango sconcertato, con la testa piena zeppa di domande e interrogativi. Sconcertato, ma non scandalizzato, perché la Chiesa Santa è pur sempre fatta di uomini e donne peccatori e peccatrici, bisognosi costantemente della misericordia di Dio. Sconcertato ma non scandalizzato, anche perché io stesso faccio parte di questa Chiesa e io stesso sperimento le contraddizioni dentro di me del desiderio di vivere il Vangelo e, allo stesso tempo, incapacità di viverlo pienamente, perlomeno come vorrei. Vivo dentro di me questa tensione del desiderio di una vita santa, evangelica e la lotta contro il mostruoso egoismo che avverto in me e fuori di me, nel povero vicino di casa, che fa di tutto per spillarmi qualcosa, come nel mio collega prete che fa di tutto per mettersi in evidenza e così salire più in alto nella scala del potere.

 Quello che invece mi sconcerta e mi scandalizza é quando si fa di tutto per mascherare  e abbellire la bruttezza dell’egoismo trasformato in azioni che mirano  a sopraffare gli altri, chiunque sia il bugiardo. Quando si usano discorsi evangelici o teologici per dire che è bello e santo ciò che è invece brutto e sporco, allora mi agito e divento nervoso. Sto leggendo in questi giorni i discorsi di Efrem il Siro che parla della calma e della pace dell’anima come una delle conquiste più alte della vita interiore e ho così capito che, in questo cammino di perfezionamento e trasformazione, ho ancora parecchi chilometri da percorrere. Diventare piccoli, cercare l’ultimo posto, farsi servo, cercare una vita nascosta non sono appena indizi di una autentica vita spirituale alla sequela di Gesù, ma il risultato della vita cristiana quotidiana a contatto con i lupi del mondo che esigono sempre più spazio, sempre più potere, sempre di più. E allora, Signore, fammi diventare sempre più piccolo, nascondimi qui in Tapiramutá, fammi diventare un servo nella Tua Chiesa per lasciare il potere a chi se lo voglia prendere. Vivere da agnello in mezzo ai lupi, dovunque essi si annidino, fuori e dentro la Chiesa, significa desiderare di scomparire nella povertà evangelica, nel nascondimento spirituale, nel servizio gioioso e obbediente.

 Abbiamo ascoltato in questi giorni nella liturgia il consiglio evangelico di Gesù di non affrontare il malvagio e, nei vespri di giovedì 22 giugno l’Apostolo Pietro ripeteva lo stesso concetto: “Non pagate il male per il male” (1 Pt 3,8). Il male è troppo forte per noi poveri uomini e donne: ci stritola. Quante volte sono stato stritolato dal male, in questi anni, perché ferito nell’orgoglio e desideroso di farmi giustizia da solo con le mie mani. Quanta rabbia ho dovuto ingoiare affrontando i malvagi del mondo, fuori e dentro la Chiesa, e quante volte i lupi furbi del mondo mi hanno iniettato il veleno dell’odio, dell’orgoglio della logica del possesso, dell’avere e io, come un cretino, ci sono caduto. Vivere da agnello in  mezzo ai lupi sembra una bella poesia ma, nella realtà, è l’unico modo di vivere in questo mondo senza lasciarsi immergere dal male. Il problema è che vivere da agnello in mezzo ai lupi non è qualcosa che ereditiamo dalla genetica, ma è uno dei frutti più profondi della vita spirituale, della vita nello Spirito del Signore. Mi ricordo, a questo proposito, che nel viaggio che con il seminario di Reggio avevamo fatto in Israele, mi aveva molto colpito una omelia di don Luciano Monari. Eravamo al Monte delle Beatitudini e, dopo aver letto il Vangelo delle Beatitudini, don Luciano aveva commentato con la sua proverbiale profondità e sapienza dicendo che, nella realtà le beatitudini sono ciò che l’umanitá di Gesù esprime e che lo Spirito Santo dovrebbe realizzare in noi. Dopo la Messa mi ero avvicinato a don Luciano dicendogli: “Senti don Luciano, se quello che hai commentato é vero io parto sfavorito nel cammino della santificazione. Infatti tu conosci bene la mia impazienza e la mia agitazione: e allora come faccio?”. Mi ricordo ancora come se fosse oggi lo sguardo serio di don Luciano che con una pacca sulla spalla mi disse: “Coraggio, Paolo, ce la puoi fare anche te”.
La possibilità di una trasformazione reale che lo Spirito Santo può realizzare nella vita delle persone, trasformazione che vedo visibile in pochissimi grammi nella mia esistenza e che ho visto e continuo vedere all’opera nella vita di tante persone, è ciò che mi spinge a donare la mia esistenza per il Signore e la sua Chiesa.







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