SPUNTI DI RIFLESSIONE
Paolo Cugini
Introduzione
La nuova prospettiva ecclesiale che
si apre dinanzi a noi con l’esperienza delle Unità Pastorali, cambia il modo di
vivere e comprendere il ministero presbiterale. E’ questo, forse, uno dei dati
di fatto sui quali non si riflette ancora abbastanza. C’è in gioco la struttura
spirituale del presbitero, il suo modo di sentirsi parte della chiesa e di
esprimere questa appartenenza. Da una
lunghissima stagione, perlomeno in Occidente, che ha visto l’identificazione
della parrocchia con il sacerdote, si passa ad una impostazione nuova, nella
quale entrambi i soggetti in causa devono reinventare il proprio ruolo. La
figura del presbitero, in questo nuovo modello ecclesiale che è l’Unità
Pastorale, dev’essere ripensata. Il presbitero non può, infatti, pensare di
vivere il ministero nel modo con il quale lo viveva nella parrocchia. Siamo
dinanzi ad un passaggio epocale che dev’essere colto e sul quale è importante
abbozzare delle riflessioni. Il presbitero è chiamato a compiere una serie di
passaggi significativi e, dentro questi passaggi, dev’essere accompagnato.
Momento di passaggio
Da un servizio pastorale incentrato
sul presbitero, che nella parrocchia è il punto di riferimento di ogni
attività, si passa ad una presenza sempre più mediata da laici, che assumono
responsabilità effettive nella comunità. Il presbitero dovrà essere in questo
nuovo contesto ecclesiale, sempre di più una persona capace d’intessere
relazioni, di essere ponte tra le persone che interagiscono nelle varie
comunità dell’unità pastorale. Se nel contesto parrocchiale il presbitero era
l’unica autorità, nell’unità pastorale il presbitero dovrà condividere la
leadership con figure di laici qualificati e creare relazioni di stima con loro
e tra di loro. Anche se nell’unità pastorale presumibilmente ci saranno più di
una figura presbiterale, ciò non toglie che il presbitero non potrà più
garantire come un tempo la presenza totale nella parrocchia. Possono sembrare
osservazioni banali, ma nel nostro contesto ecclesiali sono fondamentali. Le
persone della comunità parrocchiale, infatti, da secoli sono state abituate a rapportarsi
con un’unica figura di presbitero e a delegare a questa figura tutta la vita
spirituale, liturgica e pastorale della comunità. Questa unicità di presenza ha
prodotto spesso anche il culto della personalità, soprattutto quando il
presbitero era dotato di una personalità forte. Culto della personalità
alimentato sia da una teologia del presbitero che insisteva in modo eccessivo
sul potere conferito al presbitero da parte della chiesa, che lo rendeva
ontologicamente differente in virtù del sacramento dell’ordine; sia anche da
una spiritualità che vedeva nel presbitero un uomo distaccato dal popolo, tutto
dedito al Signore, nei digiuni e nella preghiera.
Uno dei grandi problemi che i presbiteri dovranno affrontare consisterà
nell’accompagnare le persone delle varie comunità parrocchiali presenti
nell’unità pastorale, ad abituarsi a non avere la presenza fisica del sacerdote
24 ore al giorno. Senza dubbio, sarà proprio questo uno dei grandi motivi delle
lamentele. Se il presbitero non vorrà scoppiare in poco tempo, dovrà vincere la
tentazione di voler rispondere a tutte le richieste dei laici, come faceva un
tempo e lo faceva perché era proprio questa una delle caratteristiche della
spiritualità e della mistica del parroco: farsi mangiare. Il prete come cibo
donato alle persone della comunità: erano queste le parole della spiritualità
di Chevrier, che si assimilava nei seminari e che orientava la spiritualità del
presbitero. Il prete come uomo mangiato, consumato per il suo popolo. Il
presbitero come figura eroica, che viveva il ministero in una donazione totale
ed esclusiva per quella porzione di popolo che incontrava nella parrocchia a
lui affidata per tutta la vita. Per questo la parrocchia era fortemente segnata
dalla figura del presbitero che lo serviva, dalla sua personalità e
spiritualità, nel bene e nel male. Non a caso il patrono dei parroci è il santo
curato d’Ars, che racchiude in sé tutte le caratteristiche richieste per
stimolare la santità presbiterale, vale a dire la dedizione totale per le anime
(relativamente poche) a lui affidate, nella preghiera, nel digiuno, nella
disponibilità esclusiva per la vita sacramentale. Oggi, nella prospettiva
dell’Unità Pastorale, sarà necessario trovare una nuova figura di santità che
ispiri le nuove generazioni di presbiteri. Sarà, infatti, impensabile – anche
se ci saranno ancora molte persone nelle parrocchie ad esigerlo – pretendere
dai sacerdoti lo stesso tipo di sacramentalizzazione, e lo stesso rapporto di
esclusività con le persone delle comunità. Nell’ecclesiologia sottesa alle
Unità Pastorali il presbitero, più che essere punto di riferimento unico per il
cammino spirituale delle persone presenti nella comunità, dovrà divenire lo
stimolatore dei carismi. Più che essere al centro della vita della comunità,
dovrà essere sempre di più ai margini, favorendo e stimolando il laicato
locale. Nell’unità pastorale formata da diverse comunità, il presbitero non
potrà più essere al centro e riferimento di ogni singolo settore della
parrocchia. Sarà perciò come forzato a proporre dei percorsi formativi che
mettano in grado il laicato locale ad assumere in modo responsabile i diversi
ministeri e servizi. La nuova situazione pastorale che si viene a delineare
stimola una nuova spiritualità presbiterale, meno incentrata sulla santità
intesa come sforzo individuale, e più attenta alla comunione e alle situazioni
che la rendono possibile, vale a dire, la capacità d’ascolto, l’attenzione alle
relazioni.
Da un modello all’altro
E’ inutile oggi fare della dietrologia:
importante è capire che d’ora innanzi è un altro tipo di presbitero che dovrà
essere pensato per il nuovo aspetto della comunità incontrata nell’unità
pastorale. Questo, senza dubbio, sarà uno dei problemi maggiori in questa prima
fase di cambiamento per i presbiteri formati nella spiritualità sopra
descritta. Occorrerà molta pazienza e una grande capacità di mettersi in ascolto
del cambiamento in atto, assieme ad una buona dose di umiltà per convivere con
la sofferenza interiore, che un tale cambiamento può provocare nell’anima di
colui che è chiamato a cambiare impostazione. Ogni impostazione pastorale,
infatti, ha dietro di sé una propria visione ecclesiologica e, di conseguenza,
una specifica spiritualità. Il presbitero ha sempre vissuto nella parrocchia il
compito dell’evangelizzazione come proprio compito specifico: per questo
raramente delegava agli altri. Solamente a partire dal Concilio Vaticano II –
stiamo parlando di appena 50 anni fa! – la sensibilità verso l’impegno dei
laici si è fatta strada nella vita della chiesa con tantissime fatiche e
incomprensioni presenti ancora oggi. Qual è il ruolo del sacerdote nell’agglomerato
di parrocchie che costituiscono l’unità pastorale, ognuna delle quali molto
spesso viene da una lunga tradizione? Certamente viene meno la mistica
sponsale che vedeva il parroco sposo della sposa (la parrocchia).
Questa mistica alimentava poi tutta una serie di atteggiamenti e di scelte che
identificavano il parroco come figura di riferimento fondamentale all’interno
della comunità. La presenza costante del parroco nella parrocchia contribuiva a
creare legami molto profondi. Nella parrocchia tutto è sempre ruotato attorno
al parroco. E’ lui che fa le benedizioni alle case, gli incontri con i
fidanzati, i funerali e tutti i sacramenti. E’ sempre il parroco che nella
parrocchia si occupa delle minime cose, come l’apertura e la chiusura dei
locali, la formazione degli educatori e gli incontri con le famiglie. Tante
cose, tutte utili, ma che avevano il limite d’identificare la parrocchia con il
parroco. Nella nuova impostazione delle unità pastorali sarà impossibile
mantenere lo stesso sistema pastorale. Sarà dunque necessario un cambiamento
d’impostazione, di modo d’intendere l’evangelizzazione che avrà delle
conseguenze sia sulla spiritualità che sulla teologia dei sacramenti. Per
facilitare la riflessione provo a pormi alcune domande:
·
In
una prospettiva di Unità Pastorale come dovranno essere effettuate le
confessioni? Come faranno due sacerdoti su di un’Unità Pastorale di
15/20 mila abitanti con 4/5 parrocchie come si realizzeranno le confessioni dei
bambini? Sarà ancora possibile realizzarle come si è sempre fatto o sarà
necessario prendere sul serio le celebrazioni penitenziali con assoluzione
comunitaria? La mente va anche a tutti quegli adulti abituati ad una
confessione prima della messa: come accompagnare questi adulti ad una relazione
diversa con il sacramento della riconciliazione?
·
Come
pensare e vivere nella nuova impostazione pastorale l’Eucarestia? E’ giusto
tirare il collo a due preti (è solo un esempio) che devono alla domenica
celebrare 6/7 messe in 5/6 comunità differenti? Come ripensare un calendario
domenicale che tenga conto la centralità dell’Eucarestia e, allo stesso tempo,
la possibilità del presbitero di vivere l’Eucarestia non solo come momento
celebrativo, ma anche come momento di comunione con i fedeli e di relazione con
loro? E’ veramente poco evangelico assistere alle corse forsennate dei
presbiteri che passano le domeniche a correre tra una chiesa e l’altra senza
avere un minuto da trascorrere con le persone presenti all’Eucarestia. A volte
questo correre è il sintomo di una duplice difficoltà: da una parte dei
presbiteri che fanno fatica a ricollocarsi alla domenica in un modo diverso
nelle comunità; dall’altro dei fedeli laici che fanno fatica a staccarsi dalla
“propria” messa fatta sempre nello stesso orario e nello stesso luogo.
Cambiamento come un dono
Tutte queste problematiche
evidenziate, che mostrano la necessità di cambiare prospettiva e impostazione
pastorale, non sono solo nell’ordine del negativo, ma vanno lette come segno
dei tempi, come opportunità che il Signore offre alla nostra Chiesa per
crescere. Il Signore ci vuole aiutare a crescere nella comunione, nella
corresponsabilità, nel pensare ed attuare insieme l’evangelizzazione del
territorio. Sarà questa la grande fatica che ci aspetta. Da una parte, i laici
sono stati abituati nelle nostre parrocchie, a delegare tutto al prete;
dall’altra i sacerdoti sono da sempre abituati a centralizzare tutto, sin nelle
minime cose. Questo sistema pastorale ha prodotto da un lato l’infantilismo
pastorale dei laici e, dall’altra, il maschilismo paternalista del clero.
Avvicinare questi due mondi molto distanti tra loro è forse uno dei dono che il
Signore ci sta ponendo accanto in questa nuova situazione. Paradossalmente, la
nuova situazione pastorale che il Signore ci presenta dinanzi può aiutare i
presbiteri a vivere il proprio ministero in un modo più umano, più a livello
della gente e meno da star, da padroni della comunità. Quando, infatti, un
presbitero non ha più una singola comunità da accompagnare, ma diverse, non
potrà più far dipendere il cammino della comunità dalla sua presenza, ma dovrà
apprendere a valorizzare i carismi e a mettere in grado le persone della
comunità ad assumersi le proprie responsabilità. Detto in altri termini: le
comunità all’interno di una Unità Pastorale, soprattutto se si tratta di
un’unità estesa sia geograficamente che di numero di abitanti, dovranno
funzionare – pastoralmente parlando – senza la presenza costante del
presbitero. Ciò comporta, da una parte, l’attivazione di percorsi formativi
permanenti, che permetta ai laici le condizioni per assumere il servizio nella
comunità nel quale viene inviato, dall’altra meno presbiteri tutto fare e
onnipresenti, e più presbiteri strumenti di comunione, lievito invisibile nelle
comunità. Forse è all’interno di questa impostazione pastorale che potrà
maturare nell’anima del presbitero quello stile di libertà che caratterizzava
lo stile di Gesù, che non spadroneggiava sul gregge o sui discepoli e discepole
che formava lungo il cammino, ma li lasciava maturare ognuno con i suoi tempi.
Pensiamo al cammino di Pietro o di Tommaso, ma anche di Paolo e della
Maddalena. C’è ancora veramente molto su cui riflettere in questa nuova
impostazione pastorale.
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