LA TRASFORMAZIONE DELLA MISSIONE DI DAVID. J. BOSCH
ELEMENTI DI UN NASCENTE PARADIGMA MISSIONARIO
ECUMENICO
Recensione di Paolo Cugini
1. MISSIONE COME LIBERAZIONE
Le teologie
della liberazione si svilupparono, soprattutto in America Latina, in polemica
con l’incapacità della chiesa di far fronte ai problemi legati all’ingiustizia
sociale e con l’inadeguatezza del tradizionale modello della carità. La
salvezza dei poveri è molto di più di un aiuto finanziario per mettere al passo
dell’Occidente i paesi poveri. Per i teologi della liberazione il problema
consiste nell’andare alle cause dell’ingiustizia sociale e lottare anche
attraverso la rivoluzione per toglierle. A partire da questa presa di coscienza
inizia una riflessione che giunge ad una prima elaborazione significativa a Medellin
nel 1968, nella Conferenza Generale dei Vescovi dell’America Latina (CELAM II).
È in questo contesto che viene elaborata l’affermazione dell’opzione
preferenziale per i poveri, perché “La
chiesa non ha altra scelta che quella di essere solidale con i poveri”. In
questa prospettiva, Hugo Asmann, uno dei maggiori teologi della liberazione,
sostiene che i poveri sono un privilegio epistemologico. A partire da queste
considerazioni si sviluppa una profonda riflessione che coinvolge non solo i
teologi, ma anche le conferenze episcopali e, soprattutto, il cammino delle
comunità di base. Bosch tenta anche un confronto tra la teologia della
liberazione e la teologia liberale europea. Secondo l’autore la teologia della
liberazione non è solo l’ala radicale e politica della teologia progressista
europea, ma ha qualcosa di originale e, soprattutto, una proposta che si
colloca nella tradizione dei risvegli evangelici e della teologia riformata. La
teologia della liberazione ha aiutato la chiesa a riscoprire la sua antica fede
in YHWH, la cui qualificazione primaria si basava sul suo coinvolgimento nella
storia, quale Dio della rettitudine e della giustizia, che difendeva la causa
dei deboli e degli oppressi. La teologia della liberazione ci ha aiutato a comprendere
in maniera nuova lo Spirito Santo, in particolare: “La sua capacità di trasformare le cose inerti in cose viventi, di
riportare le persone dalla morte alla vita, do conferire potere ai deboli”.
Soprattutto, però, la TL ci ha ricordato che i cristiani possono assumere una
posizione critica di fronte alle autorità, alle tradizioni e alle istituzioni
di questo mondo. In questa prospettiva il teologo Gustavo Gutierrez, riflettendo
sul rapporto profondo tra fede e vita, ricorda che la vera liberazione deve
avvenire a tre livelli: una liberazione dalle situazioni sociali di oppressione
ed emarginazione, da ogni sorta di asservimento personale e dal peccato. I tre
livelli citati sono interconnessi, ma non sono la stesa cosa. Bosch critica la
tendenza ad innalzare la liberazione politica come l’elemento principale del
processo di liberazione integrale. Questo, a suo avviso, è stato il limite
della teologia della liberazione che ha letto la Bibbia nella prospettiva della
liberazione politica, nascondendo l’ altra più profonda liberazione dal
peccato. Sempre secondo Bosch c’è stata un’altra tendenza all’interno della TL che
possiamo considerare negativa, vale a dire l’insistenza sul popolo di Dio a
discapito della chiesa. “Dire che Dio
ascolta le grida degli oppressi – sostiene Bosch – e dà loro risposta, è una cosa; dire che queste grida sono la voce
di Dio è una cosa diversa”. I teologi Segundo Galilea, Gutierrez e Clodovis
Boff stanno denunciando questa situazione. Segundo Galilea, secondo il nostro
autore, è il pioniere di un nuovo corso all’interno della TL. “Il cristiano può trionfare – sostiene
Segundo – anche quando le circostanze non
cambiano, anche quando la liberazione non arriva”.
2. MISSIONE COME INCULTURAZIONE
L’inculturazione
rappresenta un secondo importante modello di contestualizzazione della
teologia. Questo modello sostiene che la fede cristiana non esiste se non in
quanto tradotta in una cultura. La fede della comunità primitiva fu inculturata
in una grande varietà di liturgie e contesti. Durante questo primo periodo
l’accento era posto sulla chiesa locale, più che sulla chiesa universale. Dopo
Costantino la chiesa divenne la portatrice della cultura. La sua espansione
missionaria comportò un movimento dai civili ai selvaggi e dalla cultura
superiore a quelle inferiori, un processo che richiedeva la sottomissione.
Bosch fa notare come lentamente il cristianesimo diviene parte della cultura
Occidentale e viceversa e, nell’incontro con altri popoli e altre culture, era
evidente che l’annuncio del vangelo e la conversione includeva l’esportazione
della cultura Occidentale. L’adattamento richiesto non includeva mai la
modificazione della teologia occidentale. La fede nei termini in cui era
concepita nella chiesa occidentale era il nocciolo autentico, mentre i
rivestimenti culturali presso cui si recavano i missionari erano il guscio
sacrificabile. “Nel processo di adattamento
il nocciolo doveva rimanere intatto, ma adattato alle forme della nuova cultura,
la quale doveva essere adattata a sua volta al nocciolo”. Tuto ciò è ben
visibile nella controversia sui riti che coinvolse la Compagnia di Gesù sia in
India che in Cina. Questo sistema rigido di adattamento non poteva durare per
sempre. Infatti, nel Novecento l’ascesa del pensiero antropologico rivelò la
relatività e la contestualità di tutte le culture. Grande impulso in questa direzione
venne dalla maturazione delle chiese più giovani, che andò spesso a braccetto
con la fondazione di chiese indipendenti sottratte ad ogni controllo
missionario. Papa Benedetto XV con l’enciclica Maximum illud (1919) fu uno dei
primi a promuovere il diritto delle chiese di missione di cessare di essere
colonie ecclesiastiche sottoposte al controllo straniero e di avere un proprio
clero e propri vescovi. Da allora sono state introdotte dappertutto delle
gerarchie locali. Lentamente si viene a riconoscere che una pluralità di
culture presuppone una pluralità di teologie e, di conseguenza, per le chiese
del Terzo Mondo, l’addio ad un approccio eurocentrico. La fede cristiana
dev’essere ripensata, riformulata e vissuta in maniera rinnovata in ciascuna
cultura. Negli anni Settanta e Ottanta furono organizzati molti convegni per
riflettere su questo tema e sulle conseguenze pastorali e teologiche
dell’inculturazione. Lo stesso Paolo VI tentennò sull’accettazione o meno di questo
paradigma anche se poi, sia lui che Giovanni Paolo II entrarono e incentivarono
questa nuova frontiera teologica. C’è da dire che già il Concilio Vaticano II
andava in questa direzione quando sosteneva che l’unica chiesa universale trova
la sua vera esistenza nelle chiese particolari (cfr. LG 23, 26). Giovanni Paolo
II ha fatto notare come l’inculturazione segua il modello dell’Incarnazione. Inculturazione
suggerisce comunque un duplice movimento: inculturazione del cristianesimo e
cristianizzazione delle culture. Il cristianesimo offre alle culture la
conoscenza del mistero nascosto aiuta le culture a far sorgere dalla loro
propria viva tradizione espressioni originali di vita. Pedro Arrupe ricorda
che: “Il senso dell’inculturazione è
quello di divenire un principio che animi, diriga e unifichi la cultura,
trasformandola e ricreandola in maniera tale da produrre una nuova creazione”.
Bosch, alla fine del paragrafo ricorda che l’inculturazione non è mai un fatto
compiuto, ma rimane sempre un processo provvisorio. “La relazione tra il messaggio cristiano e la cultura è una relazione
creativa e dinamica, piena di sorprese”.
3. MISSIONE COME TESTIMONIANZA COMUNE
All’inizio del
secolo scorso in campo protestante viene lentamente facendosi strada un’idea,
che successivamente diverrà un vero pe proprio programma teologico, vale a dire
la presa di coscienza che la missione e l’unità sono indivisibili. Sempre in
questo periodo vengono organizzati una serie d’ incontri internazionali con l’obbiettivo
di apprendere a camminare insieme (Edimburgo 1910). L’Assemblea di Nairobi del
1975 arrivò a sostenere che: “Lo scopo
per cui siamo chiamati all’unità è perché il mondo creda. Una ricerca di unità
che non sia collocata nel contesto della promessa di Cristo di attirare tutti a
sè sarebbe falsa”. É importante sottolineare che esistono differenti
correnti ecumeniche all’interno del mondo evangelicale. Oltre a ciò Bosch fa
notare come l’accento sull’unità degli evangelicali differisce da quello della
concezione ecumenica. Gli evangelicali tendono a considerare l’unità come
qualcosa di spirituale e come un attributo della chiesa invisibile. In campo
cattolico un grande impulso nella direzione ecumenica venne dal Concilio
Vaticano II. Fu soprattutto il Decreto sull’ecumenismo unitatis redintegratio a parlare a chiare lettere dell’esigenza di
migliori relazioni tra le chiese e di un’accettazione reciproca. Il Decreto
descrive il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani come una delle
preoccupazioni principali del Concilio e dichiara che la divisione tra
cristiani contraddice la volontà di Cristo ed è di scandalo al mondo. Il
Vaticano II e gli sviluppi del protestantesimo segnarono l’avvento di una nuova
era. I progetti di dialogo fra la chiesa cattolica e diverse altre comunità
confessionali, evangelicali inclusi, sono oggi parte integrante della scena
ecclesiale. A partire dal Vaticano II, sostiene Bosch, è divenuto impossibile
dire chiesa e missione senza parlare contemporaneamente dell’unica missione e
dell’unica chiesa. Ciò rappresenta un mutamento di paradigma di enormi proporzioni,
che indica una nuova autocomprensione della chiesa. In questo nuovo paradigma,
diviene irrinunciabile la coordinazione reciproca di missione e unità. È la
presa di coscienza sempre più netta che la comunione, prima di essere uno
sforzo o una situazione sociale, è un dono per tutti coloro che si riconoscono
nell’unico Vangelo di Gesù. É evidente che sostenere questo paradigma non
significa aprire lo spazio a facili irenismi. Chi lavora nel cammino ecumenico
è consapevole che la comunione è possibile soltanto dove le persone si
accettano nonostante le differenze. “La
nostra meta – continua Bosch – non è
una comunione senza conflitti, ma una comunione caratterizzata dall’unità nella
diversità”. La più grande conseguenza dal punto di vista missionario di
questa presa di coscienza è che missione nell’unità significa la fine della
distinzione fra chiese che mandano e chiese che ricevono. Solo in questo modo
divine visibile l’uguaglianza fra i popoli, perlomeno fra i fratelli e le
sorelle che credono nel Signore Risorto. L’importanza dell’unità visibile
diviene non solo un servizio della chiesa ma, attraverso questa, un servizio
all’umanità. L’unità è il grande tema del nuovo paradigma ecclesiale sorto
nella riflessione sulla missione, che trova un posto specifico nel
significativo rapporto della chiesa con il mondo.
4. MISSIONE COME MINISTERO DI TUTTO IL POPOLO
Il passaggio dal
ministero come monopolio di uomini ordinati al ministero come responsabilità di
tutto il popolo di Dio, ordinato e non, è uno dei più importanti mutamenti,
secondo il Nostro autore, oggi in corso nella chiesa. La crisi che dobbiamo
affrontare a riguardo del ministero è parte integrante di quella crisi che
fronteggia la chiesa e la missione in questo tempo di mutamenti di paradigma,
in cui praticamente ogni elemento tradizionale della fede e della vita sociale
è sottoposto a gravi pressioni. Bosch propone un excursus storico per mostrare
l’ampiezza e la profondità del mutamento in corso. Dopo aver analizzato alcuni
dati biblici, l’attenzione di Bosch si ferma sui dati storici. “La clericalizzazione della chiesa andò a braccetto
con la sacerdotalizzazione del clero”. Lentamente il sacramento dell’ordine
diviene mezzo per separare il sacerdote dalla comunità, ponendolo di fronte ad
essa come una figura mediatrice e come una sorta di alter Christus. La chiesa
era così composta da due categorie di persone chiaramente distinte: il clero e
il laicato, quest’ultimo concepito come immaturo, assolutamente dipendente dal
clero nelle faccende religiose. Con una simile impostazione l’attività della
chiesa è concepita esclusivamente nella sfera del sacro. La chiesa cattolica
nell’epoca medievale, sviluppò l’abitudine di concepire se stessa come il vero
regno di Dio in terra. “La chiesa
cattolica – sostiene Bosch – si
considerava provvista di una fornitura di grazie celesti che i proprietari
clericali potevano erogare ai loro clienti”. Lo stesso tipo d’impostazione
avviene anche in campo protestante. La differenza è che il punto focale della
“cura delle anime” non sono più i sacramenti, ma la Parola di Dio. Del resto,
in entrambe le tradizioni il sacerdote-uomo del clero, custodito in una
posizione centrale e privilegiata, rimaneva il fulcro della chiesa. E così, le
missioni protestanti come quelle cattoliche, esportarono come cosa del tutto
naturale il modello clericale in esse dominante in “terra di missione”,
importandolo agli altri come unico modello legittimo, rendendo difficile alle
chiese locali di mettere in atto il loro ministero particolare. L’apostolato
dei laici e l’idea del sacerdozio di tuti i credenti sono idee apparse da pochi
decenni, appunto in un’epoca di grandi trasformazioni di paradigma. Dopo la
seconda guerra mondiale cominciò a farsi strada nelle chiese, sia cattolica che
protestante, l’idea che i tradizionali modelli monolitici dell’ufficio
ecclesiastico non corrispondessero più alla realtà. L’aggiornamento teologico
di ambedue le principali confessioni occidentali riscoprì che l’apostolicità
era un attributo di tutta la chiesa e che il ministero ordinato poteva essere
inteso solo come esistente all’interno della comunità di fede. Sappiamo
l’apporto significativo del Concilio Vaticano II sul ruolo dei laici nella
chiesa. Nonostante ciò, la vecchia dicotomia tra laici e presbiteri continua ad
essere presente nella vita delle comunità. Anche se lo stesso Leonardo Boff
sostiene che il problema di questa dicotomia non si risolve eliminando il
ministero ordinato, è comunque un dato di fatto che la chiesa fa ancora fatica
a vivere il ministero come servizio umile, piuttosto che come segno di potere e
comando. Secoli di connubio con il sacro romano Impero vogliono pur dire
qualcosa sia sul piano della storia, che su quello dell’impostazione pastorale
e della riflessione teologica.
5. MISSIONE COME TESTIMONIANZA AI MEMBRI DI ALTRE
FEDI VIVE
Sia nel modello
cattolico che in quello protestante missione voleva dire conquista e
sostituzione. Il cristianesimo era concepito come unico e superiore, definitivo
e normativo, come l’unica religione che aveva il diritto divino di esistere e
di espandersi. Secondo Bosch uno dei fattori decisivi per il crollo di questa
impostazione granitica è stato l’illuminismo. Il paradigma illuministico,
infatti, prevedeva che la religione sarebbe scomparsa, quando le persone
avessero scoperto che i fatti erano tutto ciò di cui avevano bisogno per sopravvivere
e che i così detti valori avrebbero terminato il loro fascino e la loro
parvente necessità. Paradossalmente a queste prospettive oggi stiamo scoprendo
il mondo della religione dopo l’illuminismo. Bosch fa notare come da molte
parti oggi si riscontri una rinnovata urgenza di fare i conti con l’intera
questione della teologia delle religioni, che si sta rivelando molto complessa.
Bosch prende come punto di riferimento lo studio di Kung del 1987 perché a suo
avviso é il più chiaro e sintetico su questo tema. Kung divide l’atteggiamento
del cristianesimo nei confronti delle altre religioni in tre concezioni:
a.
Esclusivismo. Questo atteggiamento è stato
premoderno.
b.
Compimento. É l’idea che sostiene il
cristianesimo come compimento delle altre religioni, idea ben presente
all’epoca delle missioni nel periodo della colonizzazione. Kung presenta la
posizione di Rahner dei cristiani anonimi. Rahner riconosce elementi
soprannaturali di grazia nelle altre religioni, elementi che egli ipotizza
essere stati dati agli esseri umani per mezzo di Cristo. All’interno delle
altre religioni vi è la grazia salvifica, ma questa grazia è la grazia di
Cristo. Ciò fa degli aderenti alle altre fedi dei “cristiani anonimi” e
attribuisce alle loro religioni un ruolo positivo nel disegno salvifico di Dio.
c.
Relativismo. Principale esponente di questa
impostazione fu Ernst Troeltsch, che sostenne l’esistenza di uno stretto legame
tra una data religione e la sua cultura. In questa prospettiva il cristianesimo
conserva una validità oggettiva per gli occidentali. Sempre in questa direzione
John Hick sostiene che tutte le religioni sarebbero risposte umane differenti
all’unica Realtà divina ed incarnano percezioni diverse che si sono formate in
circostanze storiche e culturali eterogenee. Sono, comunque, le posizioni di
Knitter quelle che segnano oggi il cammino del dibattito teologico sul tema
delle religioni dal punto di vista del relativismo. Knitter mette in
discussione il carattere normativo e ultimo di Cristo e del cristianesimo. Knitter
postula la nozione di “Pluralismo unitivo”, che non ha nulla a che vedere con
l’idea novecentesca della religione mondiale. Knitter sostiene che tutte le
religioni sono ugualmente valide e altri rivelatori e salvatori possono essere
importanti quanto Gesù Cristo.” L’incontro
interreligioso – sostiene Knitter -
deve basarsi sull’esperienza religiosa personale e su solide pretese di verità,
ma senza insinuare che qualcuno degli interlocutori possiede la verità ultima,
definitiva e irriformabile”.
Secondo Bosch,
oggi abbiamo bisogno di una teologia delle religioni caratterizzata da una
tensione creativa che vada al di là della sterile alternativa fra una comoda
pretesa di assolutezza e un arbitrario pluralismo. La teologia delle religioni
ha più bisogno di poesia che di teoria: “Sia
il dialogo che la missione si manifestano infatti, in un incontro dei cuori più
che delle menti”. La prima prospettiva che è necessario adottare è
l’accettazione della coesistenza di fedi differenti. In secondo luogo, è
necessaria l’adesione alla propria fede, nel nostro caso, l’adesione al
Vangelo. Non si può entrare nel dialogo tra le religioni rinunciando alla
propria identità. In terzo luogo, nella prospettiva di Bosch, “il dialogo è possibile solo muovendo dalla
convinzione che non facciamo un salto nel vuoto, ma partiamo dall’aspettativa
d’incontrare il Dio che ci ha preceduti e che ha già preparato le persone nel
contesto delle loro culture e religioni”. Altro atteggiamento importante
per il dialogo tra le religioni è l’umiltà che deve portare a non contrapporre
mai dialogo e missione. Convertirsi, in fin dei conti, non è aderire a una
comunità per procurarsi la salvezza eterna; è invece un mutamento di lealtà in
cui Cristo è accettato come Signore e centro della propria vita.
6. MISSIONE COME TEOLOGIA
Quando l’Europa
fu cristianizzata e il cristianesimo divenne religione istituzionalizzata
nell’impero romano, la teologia perse la sua dimensione missionaria. Con il
tempo e dopo le grandi epoche missionarie del periodo della colonizzazione, la
missiologia divenne il “dipartimento degli affari esteri” dell’istituzione
teologica, occupandosi delle faccende esotiche ma allo stesso tempo
periferiche. Secondo Bosch a partire dal sesto decennio del secolo scorso,
divenne convinzione generale, in tutte le famiglie confessionali, che la
missione appartenesse all’essenza stessa della chiesa. Ciò provocò un grande
cambiamento di paradigma. La chiesa non fu più percepita come contrapposta al
mondo, ma come inviata nel mondo ed esistente per il mondo. La missione non era
più soltanto un’attività della chiesa, ma un’espressione dell’essere stesso
della chiesa. La teologia, da parte sua, cominciò ad assimilare questa nuova
intuizione molto lentamente. “Affermare
che la chiesa – sostiene Bosch – che
la chiesa è essenzialmente missionaria non significa che la missione abbia come
centro la chiesa. La missione è missio Dei. È trinitaria”. Come la chiesa
cessa di essere chiesa se non è missionaria, così la teologia cessa di essere
teologia se perde il suo carattere missionario. Già Gensichen nel 1971
affermava che: “La missione dev’essere il
tema di tutta la teologia”. Diviene chiaro, in questa prospettiva, che la
missione deve divenire l’oggetto di cui deve trattare la teologia. L’idea
missionaria è un recupero dell’universalità che risiede nel profondo del
Vangelo; per questo motivo dev’essere infusa nell’intero piano di studi, anziché
fornire l’argomento di un corso specifico. “La
missiologia – sostiene Meyer – accompagna
le altre discipline teologiche nella loro opera; le interroga e se ne lascia
interrogare; ha bisogno del dialogo con esse nel loro e nel suo stesso interesse”.
Il compito della missiologia diviene, allora, quello di accompagnare
criticamente l’impresa missionaria, d’indagarne i fondamenti, gli scopi,
l’atteggiamento, il messaggio e i metodi.
7. MISSIONE COME AZIONE NELLA SPERANZA
Una delle
caratteristiche più sorprendenti del ventesimo secolo è la riscoperta
dell’escatologia. Bosch fa notare che non deve meravigliare che la riscoperta
della dimensione escatologica si manifesti con particolare chiarezza negli
ambienti missionari. Fin dai primissimi esordi della chiesa cristiana, sembra
esserci stata una peculiare affinità fra l’impresa missionaria e le attese di
un cambiamento di fondo nel futuro dell’umanità. Solo nel nostro tempo,
tuttavia, abbiamo incominciato a riscoprire la natura fondamentalmente storica
della fede e dell’escatologia bibliche. L’escatologia rappresenta l’elemento
speranza della religione. Wiedenmann distingue quattro grandi scuole
escatologiche del protestantesimo tedesco, ciascuna delle quali ebbe un impatto
significativo sul pensiero missionario:
a. Escatologia
dialettica di Barth
b. Escatologia
esistenziale di Bultmann
c.
L’escatologia attualizzata di Paul Althaus
d. L’escatologia
storico-salvifica di Oscar Cullmann
Secondo Bosch
l’approccio storico-salvifico costituisce il progresso più significativo
rispetto alle posizioni precedenti, sia cattoliche che protestanti. Il teologo
Aagaard sostiene che la prospettiva più rigorosamente escatologica ebbe
particolare risalto negli ambienti missionari dell’Europa continentale, mentre
i nordamericani sottolinearono piuttosto l’impegno sociale. Secondo Bosch
questa distinzioni oggi non sono più così evidenti. “Abbiamo bisogno per la missione – continua il Nostro autore – di un’escatologia che sia allo stesso
tempo rivolta al futuro e orientata al qui e ora. Dev’essere un’escatologia che
mantenga in tensione creativa e redentrice il già e non ancora, il mondo del
peccato e della ribellione e il mondo amato da Dio; la nuova era che è già
iniziata e la vecchia che non è ancora finita; la giustizia e la
giustificazione; il vangelo della liberazione e il vangelo della salvezza”.
Essendo certa la vittoria di Dio, i cristiani possono operare con pazienza ed
entusiasmo. La missionarietà, vale a dire l’essere inviati agli estremi confini
della terra, è l’unica risposta che i discepoli ottengono alla domanda su
quando sarà inaugurato il regno di Dio nella sua pienezza. Non è dunque possibile
scegliere l’impegno nella storia della salvezza oppure quello nella storia
profana. Non esistono due storie, ma due modi di comprendere la storia. Per il
cristiano la storia della salvezza è dunque sia rivelata che nascosta, sia
trasparente che opaca. L’escatologia cristiana, pertanto, procede in tutti e
tre i tempi: passato, presente e futuro. Il regno di Dio è già venuto, sta
venendo e verrà nella pienezza. E’ perché Dio sta già regnando e perché
attendiamo la manifestazione pubblica del suo regno che possiamo essere
ambasciatori nel qui ed ora del suo regno. La pienezza del regno di Dio deve
ancora venire, ma proprio la visione di questo regno venturo si traduce in una
preoccupazione radicale per il penultimo, anziché in una preoccupazione per l’ultimo.
Nella morte e risurrezione di Cristo, la nuova era ha avuto irreversibilmente
inizio e il futuro è garantito. Vivendo nel campo di forza della certezza della
salvezza già ricevuta e della vittoria finale assicurata, il credente s’impegna
nell’urgenza del compito a portata di mano. In questo senso, l’escatologia sta
avendo luogo proprio in questo momento. Bosch conclude queste riflessioni
affermando che: “Noi distinguiamo fra la
speranza in ciò che è ultimo e perfetto da un lato e la speranza in ciò che è
penultimo e approssimativo dall’altro. Noi tracciamo questa distinzione
malvolentieri, con sofferenza e, allo stesso tempo, con realismo. Sappiamo che
la nostra missione appartiene, come la chiesa, soltanto a questa età, non a
quella ventura. La compiamo nella speranza”.
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Lo sforzo di
Bosch di presentare in un unico testo, anzi in un unico capitolo, i principali
paradigmi della missione è senza dubbio da lodare. Positiva è la possibilità di
avere un quadro d’insieme di tutta una serie di problematiche teologiche e
anche pastorali che, solitamente, vengono trattate separatamente. Questo
aspetto rappresenta, però, anche il suo limite. Infatti, Volere a tutti i costi
presentare una sintesi di tanti problemi, che spesso nella storia sono passati
attraverso dibattiti accesi e complessi, lascia dietro di sé elementi
significativi.
La seconda
osservazione è sulla proposta di fondo di Bosch. L’autore utilizza una
categoria epistemologica per leggere una serie di mutamenti teologici e
pastorali. Questo modo di procedere funziona sino ad un certo punto, perché se
da una parte riesce a spiegare tutta una serie di spostamenti d’accento
avvenuti nel secolo scorso, dall’altra l’utilizzo dell’apparato concettuale
preso in prestito da Thomas Kuhn non funziona nel senso voluto. Quando,
infatti, Kuhn nel suo famoso testo La
struttura delle rivoluzioni scientifiche utilizza la categoria di
paradigma, la presenta come espressione di un cambiamento epocale. Kuhn per
spiegare quello che intende esprimere con il concetto di cambiamento di
paradigma, utilizza come esempio quello che è avvenuto con la così detta
rivoluzione copernicana. Se le idee di Galileo divulgate da Copernico prendono
piede è perché avevano trovato appoggio in una serie di mutamenti epocali che
ne permettevano l’accettazione. Non era, infatti, solamente un dato astronomico
a mutare, ma anche la filosofia (è l’epoca dell’umanesimo che prepara il
terreno all’epoca moderna), la religione (la riforma luterana), la politica (è
l’epoca del passaggio in occidente della forma politica dello Stato) e la
geografia (siamo esattamente all’epoca della scoperta dell’America). Kuhn fa
notare che le idee di Galileo e Copernico da un punto di vista formale non sono
originali perché Aristarco, nel terzo secolo a.C le aveva già espresse. Perché
la teoria eliocentrica non fu accolta nel III a.C. mentre trovò piena
accoglienza nel XVI secolo d.C.? Secondo Thomas Kuhn la risposta va cercata
nella congiuntura che si era venuta a formare nel XVI secolo d. C., vale a dire
che la teoria eliocentrica era un cambiamento di paradigma che trovava
riscontro in tutta una serie di altri fattori, come ho descritto poco sopra. Si
può, allora parlare di cambiamento paradigmatico quando il cambiamento di
paradigma indicato è suffragato da tutta un’altra serie di cambiamenti
culturali in ambiti diversi e quando il cambiamento indicato è permanente. E’
esattamente questo, a mio avviso, ciò che non funziona nel caso dell’analisi di
Bosch. Ciò che l’autore indica come mutamenti di paradigma in missiologia, in
realtà non lo sono perché non sono permanenti e non si tratta di cambiamenti
epocali che trovano riscontro in altri contesti culturali.
La terza
considerazione sul testo analizzato è sui contenuti espressi. Dal punto di
vista generale la missione non si è mossa conforme ai cambiamenti di paradigma
presentati. La Teologia della Liberazione, dopo il 1989, ha abbandonato i temi
più specificamente ecclesiologici, presentati da Bosch, per offrire il proprio
contributo a temi di carattere sociale come, per esempio, l’ecologia, la
salvaguardia del creato, il genere, l’apporto delle teologie indigene. Anche il
tema dell’inculturazione, all’interno del dibattito teologico attuale sembra
più che superato, dimenticato. Da varie parti nella chiesa cattolica assistiamo
ad un ritorno di preoccupazioni ad intra, che spesso e volentieri si traducono
nell’eccessiva attenzione agli elementi esterni della liturgia, più che al contenuto.
Ciò significa che da vari punti di vista quelli che Bosch chiama cambiamenti di
paradigmi, in realtà non sono avvenuti o, perlomeno, non nel modo da lui
descritto. Nonostante tanti sforzi e tante riflessioni teologiche, la dicotomia
presbiteri e laici permane ben accentuata nelle nostre comunità occidentali e
tende ad affermarsi sempre di più anche nella chiesa latinoamericana. Il
paradigma ecumenico espresso nel binomio missione e comunione ha vissuto negli
ultimi vent’anni pesanti sconfitte. La stessa proposta presentata da Bosch di
fare in modo che la teologia della missione più che una materia a sé fornisse i
contenuti per un modo nuovo d’impostare la teologia, a vent’anni di distanza si
presenta come una vera e propria utopia. Il cambiamento di paradigma in ambito
teologico e pastorale è vero quando è accolto dalla base, dal popolo di Dio.
Solo così gli sforzi reiterati della gerarchia di distruggere i cambiamenti per
mantenere la verità immutabile dentro il processo storico, potranno essere
frantumati. La gerarchia ecclesiale è nata per proteggere la struttura: per
questo aborrisce ogni forma di cambiamento perché la interpreta come attacco a
ciò che lei è chiamata a difendere. Quando i cambiamenti sono così profondi da
essere condivisi dal Popolo di Dio, anche la gerarchia si adegua. Se le pagine
di Bosch scritte quasi trent’anni fa ci sembrano dei bei sogni è perché i
cambiamenti da lui analizzati, in realtà sono stati sommersi dal desiderio di
ritorno al passato propugnato dalla gerarchia. Se il nuovo che sembrava
avanzare non è in realtà avanzato, è perché era solo un’elaborazione
intellettuale e non un reale cambiamento strutturale. Quest’ultimo è visibile
nel vissuto delle comunità, nella vita quotidiana del popolo di Dio. E’ a
questo livello, infatti, che avvengono quei cambiamenti di paradigma che la
gerarchia non riesce a fermare. E’ nella comunità che, all’insaputa della
gerarchia, avvengono le inculturazione liturgiche, le modalità nuove di
accostamento alla Parola di Dio, l’ecumenismo effettivo, il dialogo con le
religioni, un nuovo modo di relazionarsi tra laici e presbiteri, l’effettivo
esercizio del ministero femminile. E’ camminando nelle comunità di base che ci
si accorge della forza e della creatività dello Spirito, nonostante la
gerarchia e il tomismo.
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