venerdì 15 maggio 2015

DESIDERIO DI UNA CHIESA COME POPOLO DI DIO


Paolo Cugini

C’è una categoria ecclesiologica che ha preso piede in America Latina, subito dopo il Concilio Vaticano II: è l’idea della chiesa come popolo di Dio. Sappiamo quanto questa idea abbia sudato per entrare nei documenti ufficiali del Concilio, quando però è passata lo ha fatto in modo eclatante. Sfogliando, infatti, la Lumen Gentium troviamo che il capitolo sul Popolo di Dio precede la parte sulla gerarchia. E’ una bellissima indicazione di metodo, perché ci dice tra le righe e senza bisogno di sforzare troppo la fantasia, che nella chiesa siamo tutti figli e figlie di Dio e che la diversità di carismi e ministeri è in funzione della comunione. Non c’è nessuno, allora, che nella chiesa come popolo di Dio è più importante dell’altro o dell’altra in senso mondano. Tutte le volte che ciò avviene, tutte le volte che nella comunità cristiana si presenta con privilegi e con pretese d superiorità sta negando il Vangelo, anzi, lo sta facendo a pezzi.  Se tutto ciò è chiaro e comprensibile viene da chiedersi che cosa sia avvenuto nella storia da rendere il rapporto tra clero e laici così complicato, ostile, in una parola: teso. In queste righe non m’interessa fare un’analisi storica, ma recuperare il valore di un’idea, di un’intuizione. La chiesa come popolo di Dio, significa, innanzi tutto, uno stile, un modo di essere nel mondo. Di che modo si tratta? Si tratta del modo di Gesù che da ricco che era si è fatto povero, che si è abbassato per innalzarci, che è venuto ad abitare in mezzo a noi, che si è fatto uno di noi.  Si tratta anche, del cammino di discepoli e discepole uguali, dove la differenza non è mai il merito, la conquista personale che si trasforma in sopruso sull’altro, ma un dono condiviso. Mettere in un discorso ecclesiologico l’accento sul popolo, significa desiderare una chiesa che cammina al passo della gente, non davanti o dietro, ma insieme. Una chiesa che non pone differenze, che non costruisce barriere e, soprattutto, che non diventa elitaria. E’ questo, forse, uno dei problemi maggiori che riscontriamo nel cammino della chiesa e che sta diventando eclatante dinanzi allo stile di papa Francesco: una gerarchia ecclesiale che invece di porsi al servizio del popolo di Dio, si mette a comandare, si mette davanti, diventa in altre parole, autoreferenziale. E così, invece di accompagnare il popolo, lo giudica, invece di usare misericordia, lo condanna, invece di mettersi in ascolto, lo fa tacere. La chiesa come popolo di Dio, così com’era stata pensata nel Concilio, era nella prospettiva della comunità così come viene presentata negli Atti degli Apostoli, dove i credenti erano un cuor solo e un’anima sola e avevano tutto in comune. Non c’è nulla, in queste bellissime descrizioni della vita delle prime comunità cristiane, che faccia presagire a quello che avverrà dopo, e cioè la separazione tra laici e presbiteri e una classe gerarchica che diviene una élite, distaccata da quel popolo che dovrebbe guidare con amore.

 La chiesa come popolo di Dio offre un’altra indicazione importante su come dovrebbe svolgersi la vita nella comunità, soprattutto nelle decisioni che è chiamata a realizzare durante il cammino. Gesù nel suo viaggio verso Gerusalemme sapeva coinvolgere tutti. Certamente tra i discepoli e le discepole c’erano funzioni diverse, ma non nel senso del potere civile o politico, vale a dire di un’importanza mondana, di una differenza di quantità. Gesù lo ripete più volte e lui stesso vive il fatto che è venuto a servire e non a farsi servire. Se, allora ci sono delle differenze nella comunità dei credenti, son sempre in funzione della comunità e non di un prestigio personale mondano e temporale. Lo stile dell’autorità come servizio alla comunità si manifesta nella capacità evangelica di coinvolgere le persone nelle decisioni, nell’accompagnare i membri della comunità ad assumersi le responsabilità insieme, a valorizzare e a far emergere al massimo i carismi che lo Spirito Santo suscita in tutti i battezzati. La malattia ecclesiale del clericalismo ha prodotto alla distanza l’infantilismo dei laici, che non riescono a muoversi autonomamente ed hanno bisogno del continuo riferimento dei loro pastori. Più la comunità è segno di un cammino di corresponsabilità e di valorizzazione dei carismi di tutti, più diventa segno della presenza dello Spirito del Signore Risorto nella storia.

C’è poi un altro dato importante suggerito dall’idea di Chiesa come popolo di Dio sul quale vale la pena soffermare l’attenzione. Si tratta dello stile di vita di coloro che Dio chiama a guidare la comunità. Siccome siamo tutti uguali e la diversità non è nell’ordine del merito o della quantità, ma della chiamata che è un dono, ciò significa che lo stile di vita di un vescovo o di un presbitero dovrebbe essere segnato dalla semplicità e dall’essenzialità. La somiglianza del vescovo e del presbitero al Buon Pastore oltre che negli atteggiamenti misericordiosi, dovrebbe essere visibile e comprensibile nello stile sobrio, così com’è lo stile delle persone della comunità, soprattutto le persone povere che in molti contesti ecclesiali costituiscono la maggioranza. L’abitudine consolidata nei secoli, rafforzata nell’occidente medievale, a identificare il vescovo e il presbitero con una gerarchia di potere e non di servizio, con gli imperatori più che con i servi, ha prodotto nell’immaginario collettivo occidentale un’idea distorta di chiesa, che è difficile da rimuovere. Ci ha provato il Concilio Vaticano II con l’idea di chiesa come popolo di Dio e di chiesa come serva dell’umanità, non accompagnato però da un effettivo sforzo di porre il cammino delle comunità in questa direzione. Quanto più avremo Papi alla Francesco, vescovi alla Helder Camara e preti alla Puglisi, tanto prima riusciremo a recuperare l’idea e la pratica del buon pastore, ed avvicinare le persone che si sono allontanate dalla chiesa a causa dello scandalo della testimonianza non data. Che cosa ha provocato nei secoli questo stile temporale e mondano di svolgere il ministero? Primo fra tutti il culto alla personalità, vale a dire la richiesta da parte delle così dette autorità religiose, di essere considerate dai laici come qualcosa di diverso, di sacro, aprendo il varco, in questo modo, ad atteggiamenti idolatrici. Purtroppo sappiamo e constatiamo che questi atteggiamenti di sapore medievale, sono ancora oggi presenti tra di noi. L’aderenza al Vangelo, la fedeltà alla tradizione della chiesa delle prime comunità potrebbe aiutarci a guarire da queste malattie religiose e vivere in modo più sereno.

La celebrazione liturgica, infine, è lo spazio nel quale diviene visibile la modalità ecclesiale che anima la comunità. Nelle comunità in cui si è affermato uno stile temporale di vivere il ministero, tutto l’accento sarà nell’evidenziare da una parte la distanza tra presbiterio e fedeli e, dall’altra, nell’accentuare il potere sacro del ministro. In queste liturgie i laici sembrano non esistere, quasi invisibili. Ori, orpelli, candelabri, tovaglie raffinate, vestiti liturgici curati nel dettaglio, diventano il perno di queste liturgie dove la vita sembra essere un accessorio di poco rilievo. Nella chiesa come popolo di Dio l’accento liturgico è su tutto ciò che fa emergere la comunione e la corresponsabilità. In queste liturgie il rapporto tra la fede e la vita vissuta è ben visibile nel modo di celebrare, di cantare, di muoversi. Protagonista di queste celebrazioni non è il presidente, ma la comunità. Sono, infatti, i fedeli laici che trovano spazio per esprimere la vita, manifestandosi nei momenti previsti dalla liturgia. L’accento non viene messo sulle tovaglie e sui turiboli, che spesso e volentieri non appaiono nemmeno, ma sulla vita celebrata. Le liturgie che celebriamo dicono che cosa passa per la testa di quella comunità. Forse le liturgie medievali esprimevano meglio quel modo di chiesa di essere presente nella storia. Oggi, mi sembra, che abbiamo più che mai bisogno di recuperare quell’idea che i padri della chiesa avevano elaborato e che il Concilio Vaticano II aveva espresso nella Lumen Gentium parlando di popolo di Dio.


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