Paolo Cugini
C’è una
categoria ecclesiologica che ha preso piede in America Latina, subito dopo il
Concilio Vaticano II: è l’idea della chiesa come popolo di Dio. Sappiamo quanto
questa idea abbia sudato per entrare nei documenti ufficiali del Concilio,
quando però è passata lo ha fatto in modo eclatante. Sfogliando, infatti, la Lumen Gentium troviamo che il capitolo
sul Popolo di Dio precede la parte sulla gerarchia. E’ una bellissima
indicazione di metodo, perché ci dice tra le righe e senza bisogno di sforzare
troppo la fantasia, che nella chiesa siamo tutti figli e figlie di Dio e che la
diversità di carismi e ministeri è in funzione della comunione. Non c’è
nessuno, allora, che nella chiesa come popolo di Dio è più importante
dell’altro o dell’altra in senso mondano. Tutte le volte che ciò avviene, tutte
le volte che nella comunità cristiana si presenta con privilegi e con pretese d
superiorità sta negando il Vangelo, anzi, lo sta facendo a pezzi. Se tutto ciò è chiaro e comprensibile viene da
chiedersi che cosa sia avvenuto nella storia da rendere il rapporto tra clero e
laici così complicato, ostile, in una parola: teso. In queste righe non
m’interessa fare un’analisi storica, ma recuperare il valore di un’idea, di
un’intuizione. La chiesa come popolo di Dio, significa, innanzi tutto, uno
stile, un modo di essere nel mondo. Di che modo si tratta? Si tratta del modo
di Gesù che da ricco che era si è fatto povero, che si è abbassato per
innalzarci, che è venuto ad abitare in mezzo a noi, che si è fatto uno di
noi. Si tratta anche, del cammino di
discepoli e discepole uguali, dove la differenza non è mai il merito, la
conquista personale che si trasforma in sopruso sull’altro, ma un dono
condiviso. Mettere in un discorso ecclesiologico l’accento sul popolo,
significa desiderare una chiesa che cammina al passo della gente, non davanti o
dietro, ma insieme. Una chiesa che non pone differenze, che non costruisce
barriere e, soprattutto, che non diventa elitaria. E’ questo, forse, uno dei
problemi maggiori che riscontriamo nel cammino della chiesa e che sta
diventando eclatante dinanzi allo stile di papa Francesco: una gerarchia
ecclesiale che invece di porsi al servizio del popolo di Dio, si mette a
comandare, si mette davanti, diventa in altre parole, autoreferenziale. E così,
invece di accompagnare il popolo, lo giudica, invece di usare misericordia, lo
condanna, invece di mettersi in ascolto, lo fa tacere. La chiesa come popolo di
Dio, così com’era stata pensata nel Concilio, era nella prospettiva della
comunità così come viene presentata negli Atti degli Apostoli, dove i credenti
erano un cuor solo e un’anima sola e avevano tutto in comune. Non c’è nulla, in
queste bellissime descrizioni della vita delle prime comunità cristiane, che
faccia presagire a quello che avverrà dopo, e cioè la separazione tra laici e
presbiteri e una classe gerarchica che diviene una élite, distaccata da quel
popolo che dovrebbe guidare con amore.
La chiesa come popolo di Dio offre un’altra
indicazione importante su come dovrebbe svolgersi la vita nella comunità,
soprattutto nelle decisioni che è chiamata a realizzare durante il cammino. Gesù
nel suo viaggio verso Gerusalemme sapeva coinvolgere tutti. Certamente tra i
discepoli e le discepole c’erano funzioni diverse, ma non nel senso del potere
civile o politico, vale a dire di un’importanza mondana, di una differenza di
quantità. Gesù lo ripete più volte e lui stesso vive il fatto che è venuto a
servire e non a farsi servire. Se, allora ci sono delle differenze nella
comunità dei credenti, son sempre in funzione della comunità e non di un
prestigio personale mondano e temporale. Lo stile dell’autorità come servizio
alla comunità si manifesta nella capacità evangelica di coinvolgere le persone
nelle decisioni, nell’accompagnare i membri della comunità ad assumersi le
responsabilità insieme, a valorizzare e a far emergere al massimo i carismi che
lo Spirito Santo suscita in tutti i battezzati. La malattia ecclesiale del
clericalismo ha prodotto alla distanza l’infantilismo dei laici, che non riescono
a muoversi autonomamente ed hanno bisogno del continuo riferimento dei loro
pastori. Più la comunità è segno di un cammino di corresponsabilità e di
valorizzazione dei carismi di tutti, più diventa segno della presenza dello
Spirito del Signore Risorto nella storia.
C’è poi un altro
dato importante suggerito dall’idea di Chiesa come popolo di Dio sul quale vale
la pena soffermare l’attenzione. Si tratta dello stile di vita di coloro che
Dio chiama a guidare la comunità. Siccome siamo tutti uguali e la diversità non
è nell’ordine del merito o della quantità, ma della chiamata che è un dono, ciò
significa che lo stile di vita di un vescovo o di un presbitero dovrebbe essere
segnato dalla semplicità e dall’essenzialità. La somiglianza del vescovo e del
presbitero al Buon Pastore oltre che negli atteggiamenti misericordiosi,
dovrebbe essere visibile e comprensibile nello stile sobrio, così com’è lo
stile delle persone della comunità, soprattutto le persone povere che in molti
contesti ecclesiali costituiscono la maggioranza. L’abitudine consolidata nei
secoli, rafforzata nell’occidente medievale, a identificare il vescovo e il
presbitero con una gerarchia di potere e non di servizio, con gli imperatori
più che con i servi, ha prodotto nell’immaginario collettivo occidentale
un’idea distorta di chiesa, che è difficile da rimuovere. Ci ha provato il
Concilio Vaticano II con l’idea di chiesa come popolo di Dio e di chiesa come
serva dell’umanità, non accompagnato però da un effettivo sforzo di porre il
cammino delle comunità in questa direzione. Quanto più avremo Papi alla
Francesco, vescovi alla Helder Camara e preti alla Puglisi, tanto prima
riusciremo a recuperare l’idea e la pratica del buon pastore, ed avvicinare le
persone che si sono allontanate dalla chiesa a causa dello scandalo della testimonianza
non data. Che cosa ha provocato nei secoli questo stile temporale e mondano di
svolgere il ministero? Primo fra tutti il culto alla personalità, vale a dire
la richiesta da parte delle così dette autorità religiose, di essere
considerate dai laici come qualcosa di diverso, di sacro, aprendo il varco, in
questo modo, ad atteggiamenti idolatrici. Purtroppo sappiamo e constatiamo che
questi atteggiamenti di sapore medievale, sono ancora oggi presenti tra di noi.
L’aderenza al Vangelo, la fedeltà alla tradizione della chiesa delle prime
comunità potrebbe aiutarci a guarire da queste malattie religiose e vivere in
modo più sereno.
La celebrazione
liturgica, infine, è lo spazio nel quale diviene visibile la modalità
ecclesiale che anima la comunità. Nelle comunità in cui si è affermato uno
stile temporale di vivere il ministero, tutto l’accento sarà nell’evidenziare
da una parte la distanza tra presbiterio e fedeli e, dall’altra, nell’accentuare
il potere sacro del ministro. In queste liturgie i laici sembrano non esistere,
quasi invisibili. Ori, orpelli, candelabri, tovaglie raffinate, vestiti
liturgici curati nel dettaglio, diventano il perno di queste liturgie dove la
vita sembra essere un accessorio di poco rilievo. Nella chiesa come popolo di
Dio l’accento liturgico è su tutto ciò che fa emergere la comunione e la
corresponsabilità. In queste liturgie il rapporto tra la fede e la vita vissuta
è ben visibile nel modo di celebrare, di cantare, di muoversi. Protagonista di queste
celebrazioni non è il presidente, ma la comunità. Sono, infatti, i fedeli laici
che trovano spazio per esprimere la vita, manifestandosi nei momenti previsti
dalla liturgia. L’accento non viene messo sulle tovaglie e sui turiboli, che
spesso e volentieri non appaiono nemmeno, ma sulla vita celebrata. Le liturgie
che celebriamo dicono che cosa passa per la testa di quella comunità. Forse le
liturgie medievali esprimevano meglio quel modo di chiesa di essere presente
nella storia. Oggi, mi sembra, che abbiamo più che mai bisogno di recuperare
quell’idea che i padri della chiesa avevano elaborato e che il Concilio
Vaticano II aveva espresso nella Lumen
Gentium parlando di popolo di Dio.
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