Paolo Cugini
Una
cosa è certa: non ci s’improvvisa parroco di varie parrocchie. Siamo stati
formati per secoli ad essere guide di una parrocchia. La gente stessa è
abituata così. Ciò significa che, anche l’attuale esperienza delle unità
pastorali, ha bisogno di un tempo prolungato per assestarsi. Inoltre, credo che
abbia bisogno anche dell’esperienza dei missionari rientrati. In fin dei conti,
siamo dei fidei donum, dei doni imprestati ad un’altra Chiesa per poi
rientrare. Proprio su questo rientro mi sembra importante riflettere. Ci sono
dei percorsi formativi per prepararsi all’entrata in nuovo contesto ecclesiale,
in cui si viene orientati a cogliere lo specifico dell’esperienza in cui il
missionario sarà coinvolto. C’è poi, soprattutto, l’attenzione al tempo
necessario per l’adattamento alla nuova realtà. Non si viene, infatti, buttati
subito nella mischia, ma c’è sempre qualcuno che accompagna nella nuova realtà.
I primi anni di missione sono tempi di cambiamento, che esigono un cammino
umano e spirituale molto profondo. La missione passa attraverso l’umanità del
missionario e ognuno reagisce in modo diverso agli stimoli che il nuovo
contesto propone. Questa differenza la si coglie dalle narrazioni, dai
contenuti delle lettere, dalle testimonianze. C’è tutta una ricchezza
ecclesiale e spirituale che viene mediata dall’umanità del missionario, dal
lavoro che lui stesso svolge su di sé per imparare a camminare con il popolo di
Dio incontrato. Per questo motivo siamo così diversi, per certi aspetti
“strani” quando torniamo alla base. Anche al ritorno sarebbe necessario
ipotizzare un periodo di formazione, per mettere in condizione chi rientra di
riadattarsi lentamente alla realtà ecclesiale, sociale che, nel frattempo è
molto cambiata. È in questa fase di rientro che sarebbe importante un percorso
progettuale, per non disperdere tutta quell’esperienza ecclesiale e spirituale
assimilata in tanti anni di missione e metterla a disposizione della diocesi.
Tra queste nuove competenze apprese e che varrebbe la pena incanalare in un
percorso progettuale, c’è la capacità di accompagnare la vita di parrocchie
costituite da tante comunità, quelle che in Italia vengono chiamate Unità
Pastorali. Guidare pastoralmente tante parrocchie non si apprende sui libri, ma
nella vita quotidiana. Mentre in Italia si cerca di capire come fare, in altre
parti del mondo questo stile di Chiesa è in atto da decenni. I missionari che
hanno svolto la loro esperienza in Brasile hanno lavorato proprio in questo
contesto ecclesiale. Sarebbe importante tenerne conto.
Nel
passato ci sono state delle scelte, realizzate in primo luogo dal Vescovo
Baroni e rinnovate dai suoi successori, scelte mosse dal clima di entusiasmo
ecclesiale del dopo Concilio, che promuoveva una Chiesa popolo di Dio, che per
sua natura è missionaria, queste scelte devono in qualche modo dire qualcosa
alla Chiesa locale. L’aprirsi delle diocesi alle missioni è stato vissuto come
la realizzazione del cammino conciliare. Le parrocchie delle aree missionarie
sono state percepite come una realtà ecclesiale che ci appartiene, nel senso ecclesiale
del termine. Così erano presentate le missioni diocesane negli incontri
realizzati con gli studenti di teologia e anche delle superiori (quando
c’erano: io c’ero). Chi si preparava al ministero presbiterale, sapeva che
poteva essere chiamato a servire una delle nostre parrocchie in missione. Lo
sapeva e per questo ci si preparava leggendo le lettere dei missionari,
invitando i preti in rientro dalle missioni ad una celebrazione eucaristica, ad
un incontro formativo o a predicare un ritiro spirituale. Ci si alimentava
della spiritualità missionaria direttamente dalle fonti, i nostri preti
diocesani fidei donum, perché si sapeva che si poteva essere chiamati
per partire. C’era la presa di coscienza
del grande servizio che l’esperienza missionaria stava facendo non solo ai
preti che partivano, ma soprattutto alle parrocchie della nostra diocesi.
Occorre
ricordare, poi, che non solo preti sono partiti per le missioni, ma anche
religiosi, religiose e molti laici e laiche. Una ricchezza ecclesiale
incredibile che, anche se non è mai stato realizzato un progetto di ritorno,
che aiutasse a valorizzare e incanalare questa ricchezza ecclesiale e
spirituale, in ogni modo tutti coloro che sono rientrati dall’esperienza
missionaria hanno contribuito ad arricchire le comunità parrocchiali di
origine. Quante lettere, testimonianze, veglie di preghiera, messe missionarie
sono state realizzate in tutti questi anni? Che dire poi, di tutti quei giovani
che hanno fatto l’esperienza di un mese in missione, organizzato dal Centro
Missionario Diocesano con percorsi formativi specifici. Spesso, molti di questi
giovani non hanno alle spalle un cammino all’interno di una specifica comunità
pastorale, ma si sentono spinti a fare un’esperienza in missione, perché, come
sappiamo, le nostre missioni diocesane sono realizzate in luoghi nel mondo
caratterizzati dalla povertà. Si coglie in questi giovani il desiderio di
sperimentare il cammino di una Chiesa dei poveri, a contatto con realtà sociali
che, in un modo o nell’altro, provocano una riflessione, soprattutto sul
proprio stile di vita e stimolano la ricerca verso uno stile di vita più sobrio
ed essenziale, in altre parole più conforme al Vangelo. Per questo, le missioni
sono importanti nel nostro cammino di Chiesa, non solo per il prete o i
religiosi che partono e ritornano con un bagaglio di esperienze ecclesiali e
sociali che provocano in loro stessi un cambiamento, ma anche per coloro che
rimangono, per le singole comunità parrocchiali. In tutti questi anni il Centro
Missionario Diocesano ha lavorato tantissimo per mettere in circolo i contenuti
provenienti dalle varie esperienze missionarie, contenuti che hanno contaminato
positivamente il cammino delle nostre comunità parrocchiali.
Nella
prossima puntata, che sarà l’ultima, proverò a spiegare perché la missione
aperta in Amazzonia è di fondamentale importanza per il cammino della nostra
Chiesa locale.
Muito bem...meus parabens pelo trabalho svolto no meu Pais.
RispondiEliminaCi provo. Devo dire "ci provo" perchè credo che l'esperienza di Chiesa (e quindi di Unità Pastorale) italiana con quella brasiliana siano contemporanee ma lontane anni luce. Potrebbe essere quindi che il vivere dalla parte della più vecchia e più assonnata delle due versioni mi porti completamente fuori dalla tua analisi. Ma, appunto, "ci provo" e mi chiedo se la Missione sia ancora al centro di un percorso che un tempo era chiaramente delineato. Ora, quantomeno a Reggio, stiamo ancora parlando di una Chiesa Missionaria ? Cioè: che esistano le missioni su cui la Chiesa reggiana agisce è un dato di fatto, ma il Vescovo Baroni ha terminato il suo mandato 34 anni or sono: chi lo ha succeduto ha mantenuto questo indirizzo o non è che mons Gibertini, mons Caprioli mons Camisasca ed ora mons Morandi abbiano via via spostato la barra dirigendo la barca diversamente ? Probabilmente è il mio "essere al di fuori" che mi impedisce di vedere tante cose, tante motivazioni, ma a volte il dubbio fa crescere, più delle certezze (presunte). Grazie, sorry x il tempo rubato
RispondiEliminaanche secondo me è così, ma continuo a fare di tutto per stimolare la diocesi affinchè non perda di vista l'orizzonte missionario
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