NUOVI ORIZZONTI PASTORALI
Don Paolo Cugini
Ritengo importante riflettere sui
cambiamenti in atto sia dal punto di vista culturale che pastorale, pur
restando il fatto che si tratta solo di riflessioni e nulla di più. Parlare di unità pastorale non è la stessa cosa che parlare di
parrocchia. Ciò significa che non è possibile trasferire le modalità pastorali
utilizzate nella parrocchia sull'unità pastorale.
In questo processo di cambiamento di
modalità pastorali un ruolo importante riguarda il parroco. Non è più
possibile, infatti, il rapporto di uno a uno: un parroco una comunità. Essere
presente su diverse comunità parrocchiali è la grande novità per molti
presbiteri che si sono formati nei seminari per accompagnare una sola comunità
alla volta. Il pensiero corre anche verso tutti quei presbiteri che per decenni
hanno vissuto la propria esperienza pastorale a servizio di una comunità,
identificando il proprio ministero con la stessa comunità.
Dicevo che non si può pretendere e,
allo stesso tempo, non ha senso trasferire sulle unità pastorali le modalità
progettuali e di relazione che avveniva nella parrocchia gestita dal parroco.
Senza dubbia i parrocchiani abituati all'assistenza diretta del parroco si
aspettano la continuità di quel modello. Si tratta di passare da un approccio
pastorale personalizzato – è il parroco che fa le cose direttamente – ad un
approccio più comunitario. Il parroco dell’unità pastorale dovrà avere
la pazienza e l’intelligenza di attivare dei processi di evangelizzazione che
non dipendano da lui, dalla sua presenza, ma di laici presenti sul posto. E’
vero che i laici, soprattutto le laiche – è sempre bene ricordarselo che le
comunità parrocchiali hanno una presenza preponderante di donne nei settori
chiave della pastorale – sono sempre stati presenti nelle parrocchie. Il
problema, però non è la presenza o l’attività specifica, ma il modo di vivere
un servizio.
Questo modo di abitare la pastorale,
che richiede un presenza da parte del parroco meno da protagonista e più da
stimolatore, coordinatore, ne orienta anche la spiritualità. Infatti, più che
identificarsi con modelli di santi eroici, capaci di grandi gesti, protagonisti
di imprese mirabolanti (alla Curato d’Ars, tanto per intenderci), dovrà ricercare
un tipo di spiritualità che stimoli maggiormente cammini di condivisione, che
provochi la capacità di mettersi da parte, di fare spazio. Creare spazi nuovi
d’incontro e di evangelizzazione, nei quali chi agisce, chi è presente non è il
parroco, ma i cristiani. La libertà dalla tirannia della presenza fisica a
tutte le azioni pastorali è senza dubbio una delle conquiste più significative
dei presbiteri che accompagnano le unità pastorali ed uno dei segni più
evidenti della maturità sia della comunità che del presbitero. C’è da dire che
non tutti, purtroppo, ci riescono: fanno fatica a non cedere alla tentazione
gratificante di accontentare i parrocchiani.
Ciò vale anche per lo stile di
accompagnamento spirituale, che dovrà essere sempre meno direttivo – che esige
una presenza costante – e più orientativo, che fa leva cioè sia sulla libertà
del laico di riferimento, che sulla maturità affettiva del presbitero.
Chiamati a servire comunità per un
periodo circoscritto – i fatidici nove anni – e non più per tutta la vita, e a
distribuire il proprio impegno pastorale su più comunità contemporaneamente, il
presbitero dovrà apprendere a valorizzare al massimo i laici presenti sul
territorio. Saranno, infatti loro a restare e a dar continuità ai progetti
pastorali e di evangelizzazione messi in atto. L’esperienza insegna che quando
i meccanismi non dipendono da qualcuno, ma hanno passato il vaglio di consigli
pastorali, e degli strumenti pastorali che permettono un discernimento il più
comunitario possibile, il progetto pensato rimane.