sabato 30 aprile 2016

DAL PRETE ALLA COMUNITÀ





NUOVI ORIZZONTI PASTORALI


Don Paolo Cugini
Ritengo importante riflettere sui cambiamenti in atto sia dal punto di vista culturale che pastorale, pur restando il fatto che si tratta solo di riflessioni e nulla di più. Parlare di unità pastorale non è la stessa cosa che parlare di parrocchia. Ciò significa che non è possibile trasferire le modalità pastorali utilizzate nella parrocchia sull'unità pastorale.
In questo processo di cambiamento di modalità pastorali un ruolo importante riguarda il parroco. Non è più possibile, infatti, il rapporto di uno a uno: un parroco una comunità. Essere presente su diverse comunità parrocchiali è la grande novità per molti presbiteri che si sono formati nei seminari per accompagnare una sola comunità alla volta. Il pensiero corre anche verso tutti quei presbiteri che per decenni hanno vissuto la propria esperienza pastorale a servizio di una comunità, identificando il proprio ministero con la stessa comunità.

Dicevo che non si può pretendere e, allo stesso tempo, non ha senso trasferire sulle unità pastorali le modalità progettuali e di relazione che avveniva nella parrocchia gestita dal parroco. Senza dubbia i parrocchiani abituati all'assistenza diretta del parroco si aspettano la continuità di quel modello. Si tratta di passare da un approccio pastorale personalizzato – è il parroco che fa le cose direttamente – ad un approccio più comunitario. Il parroco dell’unità pastorale dovrà avere la pazienza e l’intelligenza di attivare dei processi di evangelizzazione che non dipendano da lui, dalla sua presenza, ma di laici presenti sul posto. E’ vero che i laici, soprattutto le laiche – è sempre bene ricordarselo che le comunità parrocchiali hanno una presenza preponderante di donne nei settori chiave della pastorale – sono sempre stati presenti nelle parrocchie. Il problema, però non è la presenza o l’attività specifica, ma il modo di vivere un servizio.

Questo modo di abitare la pastorale, che richiede un presenza da parte del parroco meno da protagonista e più da stimolatore, coordinatore, ne orienta anche la spiritualità. Infatti, più che identificarsi con modelli di santi eroici, capaci di grandi gesti, protagonisti di imprese mirabolanti (alla Curato d’Ars, tanto per intenderci), dovrà ricercare un tipo di spiritualità che stimoli maggiormente cammini di condivisione, che provochi la capacità di mettersi da parte, di fare spazio. Creare spazi nuovi d’incontro e di evangelizzazione, nei quali chi agisce, chi è presente non è il parroco, ma i cristiani. La libertà dalla tirannia della presenza fisica a tutte le azioni pastorali è senza dubbio una delle conquiste più significative dei presbiteri che accompagnano le unità pastorali ed uno dei segni più evidenti della maturità sia della comunità che del presbitero. C’è da dire che non tutti, purtroppo, ci riescono: fanno fatica a non cedere alla tentazione gratificante di accontentare i parrocchiani.

Ciò vale anche per lo stile di accompagnamento spirituale, che dovrà essere sempre meno direttivo – che esige una presenza costante – e più orientativo, che fa leva cioè sia sulla libertà del laico di riferimento, che sulla maturità affettiva del presbitero.

Chiamati a servire comunità per un periodo circoscritto – i fatidici nove anni – e non più per tutta la vita, e a distribuire il proprio impegno pastorale su più comunità contemporaneamente, il presbitero dovrà apprendere a valorizzare al massimo i laici presenti sul territorio. Saranno, infatti loro a restare e a dar continuità ai progetti pastorali e di evangelizzazione messi in atto. L’esperienza insegna che quando i meccanismi non dipendono da qualcuno, ma hanno passato il vaglio di consigli pastorali, e degli strumenti pastorali che permettono un discernimento il più comunitario possibile, il progetto pensato rimane.