mercoledì 25 marzo 2015
lunedì 23 marzo 2015
CAMPAGNA PER IL REDDITO MINIMO DI CITTADINANZA: ADERISCI!
"La povertà è la
peggiore delle malattie in senso sociale, economico, ambientale e sanitario, che
colpiscono il paese. E' necessario rimettere lotta
alle povertà e welfare al centro dell'agenda politica per costruire
una risposta a problemi che riguardano la dignità e la libertà delle persone,
di fronte alle diseguaglianze che aumentano, a una povertà fuori controllo, con
milioni di cittadini coinvolti, una crisi economica che vede il rafforzamento
dell'economia criminale e del potere delle mafie. Essendo già alcuni disegni di
legge in discussione al Senato, chiediamo che in
100 giorni venga calendarizzata , discussa e approvata in aula l'istituzione
del Reddito minimo o di cittadinanza". Libera con la
partecipazione del BIN-Basic Encome
Network eEAPN- European Antipoverty Network, Italia promuove la
campagna "100 giorni per un reddito di dignità", contro la povertà e
le mafie per chiedere al Parlamento di
prendere una decisione importante, una misura prevista già da tutti i
paesi europei, con l'esclusione di Italia, Grecia e Bulgaria. Dal 16 ottobre
2010 che il Parlamento Europeo ci chiede di varare una legge che introduca un
"reddito minimo, nella lotta contro la povertà e nella promozione di una
società inclusiva".
Sono passati cinque anni e nulla è
successo. Una grande
mobilitazione, una firma www.campagnareddito.eu per chiedere al Parlamento di
fare presto: entro 100 giorni una buona legge sul reddito di
dignità arrivi in aula al Senato per essere discussa e approvata. Non è
impossibile, non è una proposta irrealistica: ci sono diverse proposte di legge
già presentate a Palazzo Madama.I numeri sono drammatici: dal 2008 al 2014 la
crisi in Italia secondo i dati Istat, ha raddoppiato e quasi triplicato i numeri della
povertà relativa ed assoluta. Sono infatti 10 milioni quelli
in povertà relativa, il 16,6% della popolazione complessiva, ed oltre 6 milioni, il 9,9% della popolazione, in povertà
assoluta. Ma oltre i dati relativi alla condizione
specifica della povertà, dobbiamo comprendere nel computo finale tutte quelle
fasce sociali a rischio povertà: dai working poor (oltre 3,2 milioni di
lavoratori e lavoratrici) ai precari, dagli over 50 senza alcun lavoro alle
donne, dai migranti ai giovani, dagli anziani a coloro che hanno difficoltà
abitative il numero dei soggetti a rischio potrebbe aumentare in maniera
esponenziale.
Il Reddito Minimo o
di Cittadinanza- si legge nell'appello della campagna di Libera-è un supporto al reddito che garantisce una rete di sicurezza
per coloro che non possono lavorare o accedere ad un lavoro in grado di
garantire un reddito dignitoso o non possono accedere ai sistemi di sicurezza
sociale (ammortizzatori socio-economici) perché li hanno esauriti (esodati,
mobilità) o non ne hanno titolo o vi accedono in misura tale da non superare la
soglia di rischio di povertà. Il Reddito Minimo o
di Cittadinanza, garantisce uno standard minimo di vita per gli individui e
per i nuclei familiare di cui fanno parte che non hanno adeguati strumenti di
supporto economico.
Il Reddito Minimo o di
Cittadinanza, è anche uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie in una
fase di grave crisi e di aumento della povertà e delle diseguaglianze sociali,perché
toglie ossigeno a chi sfrutta il bisogno di lavoro trasformandolo in ricatto
economico, per alimentare circuiti criminali che approfittano della povertà o
per fare dei posti di lavoro merce per il voto di scambio. E impone al
contrario un diritto che rende le persone meno deboli anche di fronte a chi ne
vuole sfruttare i bisogni e le fragilità.La misura- prosegue Libera- è rivolta a coloro che già sono in
una condizione di povertà economica, a coloro che in un dato momento della loro
vita si trovano nella condizione di non poter lavorare o che hanno un reddito
che non permette loro di vivere una vita dignitosa, o che hanno perso i
benefici degli ammortizzatori sociali o che sono in ogni modo al di sotto di
una certa soglia economica. Non c'è bisogno di
misure assistenziali né possiamo immaginare che il reddito di cittadinanza, o
reddito minimo garantito, sia la soluzione del problema. E', però, una misura
indispensabile nel breve periodo per contrastare la povertà assoluta,
l'esclusione sociale e il ricatto delle mafie.
Fonte: http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/11173
MANIFESTAZIONE NAZIONALE A BOLOGNA CONTRO LE MAFIE. 21 MARZO 2015
Paolo Cugini
"La verità illumina la giustizia", questo lo slogan scelto per
XX Giornata delle memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti
delle mafie. Libera per la XX edizione ha scelto l'Emilia Romagna, ha scelto
Bologna. Ho partecipato a questa manifestazione perché credo nella possibilità di cambiare la mentalità mafiosa presente sul nostro territorio con un impegno effettivo, mettendoci la faccia.
La Giornata della Memoria e dell'Impegno ricorda tutte le vittime innocenti delle mafie. Sul palco della manifestazione che ha visto confluire più di duecento mila persone sono stati letti i nomi di circa 900 nomi di vittime innocenti delle mafie, semplici cittadini, magistrati, giornalisti, appartenenti alle forze dell' ordine, sacerdoti, imprenditori, sindacalisti, esponenti politici e amministratori locali morti per mano delle mafie solo perché, con rigore e coerenza, hanno compiuto il loro dovere.
La Giornata della Memoria e dell'Impegno ricorda tutte le vittime innocenti delle mafie. Sul palco della manifestazione che ha visto confluire più di duecento mila persone sono stati letti i nomi di circa 900 nomi di vittime innocenti delle mafie, semplici cittadini, magistrati, giornalisti, appartenenti alle forze dell' ordine, sacerdoti, imprenditori, sindacalisti, esponenti politici e amministratori locali morti per mano delle mafie solo perché, con rigore e coerenza, hanno compiuto il loro dovere.
Di manifestare contro le mafie
ce n’è bisogno eccome. La scelta di Bologna come sede della manifestazione non
è casuale. Come ha ricordato il sindaco di Bologna Virginio Merola “I dati del
rapporto sulle Mafie in Emilia Romagna dicono che nella nostra regione il
volume d’affari delle organizzazioni criminali vale circa 20 miliardi di euro”. È necessario, dunque continuare a combattere e, soprattutto promuovere la
cultura della legalità. Come ha, infatti, recentemente ricordato Papa
Francesco, la Mafia va a braccetto con la corruzione politica. Diviene allora
necessario e sempre più urgente contrastare la cultura mafiosa con la cultura
della legalità e con l’informazione. Lo ha sostenuto il Procuratore di Bologna
Roberto Alfonso, in uno dei seminari tenutisi nel pomeriggio sul tema: Le mafie
in Emilia Romagna.
Il Procuratore Alfonso ha fondato la propria relazione
parlando dello specifico della presenza mafiosa in Emilia Romagna utilizzando
due termini: delocalizzazione e radicamento che sono “due facce della stessa
medaglia. Delocalizzazione significa esportazione
dalla Calabria all'Emilia Romagna delle modalità mafiose per raggiungere il
risultato. Radicamento è qualcosa di più
che un’infiltrazione. La mafia è stanziale dal giugno del 1982 in Emilia. Si
sono installati in Emilia per operare in termini stabili e definitivi. Stiamo
parlando dei calabresi. É un fenomeno che utilizza nel territorio modalità
calabresi. Tutto ciò è appurato attraverso l’indagine”. Non si tratta di una presenza sporadica, ma di un vero e proprio
insediamento per controllare il territorio. Durante il seminario in varie
occasioni si è ricordato la stranezza della presenza mafioso su di un
territorio che, per storia e tradizione, si pensava immune. E invece si deve
parlare di mafia come “valore
aggiunto: è un termine economico che applichiamo all'organizzazione criminale
dell’andrangheta. È una multinazionale, infatti è de localizzata. L’imprenditoria
locale accetta perché è un vantaggio. L’omertà è dettata per lo più dalla paura
di vedere il bos. Qui è un silenzio dettato dall'economia, delle agevolazioni
che può ottenere. “C’è una relazione di complicità – ha sostenuto Alfonso - che
diventa sempre più profonda e quando decide di sganciarsi non ce la fa. Quando
gli imprenditori rimangono incastrati in questi meccanismi accumulano dei debiti
e per questo falliscono”.
Le nuove
generazioni, presente massicciamente alla manifestazione di Bologna sono la presenza,
non solo per il futuro, ma anche nel presente, della possibilità di un
cambiamento di mentalità, per passare dalla cultura dell’omertà e dei favori ad
personam, alla cultura della legalità e della giustizia. Che bella gioventù!
martedì 17 marzo 2015
DON LORENZO MILANI E L'ESPERIENZA DI BARBIANA MESSO IN SCENA DAI BAMBINI DI REGINA PACIS
Paolo Cugini
Sono alcuni
anni che i vescovi italiani insistono per una catechesi più esperienziale, meno
legata al modello scolastico e più coinvolgente. Oltre a ciò è nota anche
l’insistenza per un maggior coinvolgimento delle famiglie nel processo
dell’iniziazione cristiana dei bambini. Come riuscire a dire il Vangelo di Gesù
in modo tale da interessare i bambini, da coinvolgerli attivamente? Sembrano
domande importanti che a volte lasciamo cadere nel vuoto, sopraffatti da una
rotina catechetica che non lascia spazio alla creatività, al desiderio di
tentare percorsi nuovi. A volte, però è importante provarci perlomeno per
capire se la proposta del Vangelo è ancora attuale e cioè se ha qualcosa da
dire alle nuove generazioni.
In virtù di
queste esigenze nella parrocchia di Regina Pacis si è pensato di tentare un
percorso sperimentale coinvolgendo i bambini delle classi quinte, l’anno cioè
che non è legato a nessun sacramento e, quindi più libero. Abbiamo pensato di
proporre una figura cristiana significativa sia per i bambini che per i
genitori, una figura che fosse significativa anche per i contenuti, per il
messaggio proposto valido per la nostra società. La nostra attenzione si è
spostata sulla figura di don Lorenzo Milani e la sua esperienza pastorale di
Barbiana. Dire don Milani significa un certo modo d’intendere la chiesa e l’oratorio,
un’attenzione preferenziale per i poveri, il bisogno di giustizia e,
soprattutto, un certo modo d’intendere l’educazione, sia scolastica che
religiosa. Quella di don Milani è senza dubbio un’esperienza di quelle che
fanno riflettere e che non lasciano spazio all’ambiguità. Sfogliando le lettere
che don Milani scirveva ai ragazzi ci si rende conto della grande sensibilità che
questo prete aveva, del significato di guidare un cammino di fede che sappia incarnarsi
nella vita e, soprattutto, del rispetto della libertà personale nelle scelte
importanti della vita. Abbiamo poi
cercato qualcuno che ci potesse aiutare. Non basta, infatti conoscere qualcosa
quando si tratta di trasmissione di contenuti ai bambini, occorre anche la
capacità di saperlo trasmettere. Per la competenza assunta in questi anni e
anche per la conoscenza dell’esperienza di don Milani abbiamo chiesto a frate Antonello
Ferretti di accompagnarci in questo percorso. Detto e fatto.
Vedere coinvolti nel cammino d’iniziazione cristiana non solo i catechisti e i bambini, ma anche i loro genitori assieme ad alcuni educatori è stata l’idea che ci ha spinto ad osare qualcosa di nuovo. Abbiamo sentito l’esigenza di prendere sul serio le indicazioni dei vescovi, che ci consigliano di avere il coraggio di uscire dallo schema di una catechesi scolastica per proporre qualcosa di coinvolgente e, allo stesso tempo interessante. Troppo spesso, infatti, nel percorso di catechesi, ci si preoccupa più dei contenuti che del modo di comunicarli e trasmetterli, esattamente come accade a scuola. Abbiamo iniziato con una frequenza mensile, anche perché la richiesta non era quella di trascorrere assieme la classica ora di catechismo, ma il pomeriggio intero. Oltre a ciò, abbiamo pensato di finalizzare il percorso con qualcosa di concreto, qualcosa di visibile e di presentabile alla comunità, una specie di messaggio finale del percorso svolto da poter condividere. Fr. Antonello ci ha raccontato alcune storie della vicenda di Barbiana vissuta da don Milani e dai suoi ragazzi. Storie che lentamente hanno preso corpo nella fantasia dei bambini della catechesi, che hanno ricostruito le storie assieme a genitori e catechisti, pensando insieme alle musiche, alle scene, ai testi. Cogliere il vangelo non come una dottrina, ma come un’esperienza di vita, uno stile, un modo di vivere alternativo che s’inserisce nel cammino vitale quotidiano, nell'impegno scolastico, che per un bambino è di fondamentale importanza, nelle scelte della vita quotidiana che un genitori deve poter fare: è questo il senso della proposta. Nel percorso di catechesi diviene importante potersi confrontare con esperienze che hanno segnato le persone coinvolte, ne hanno condizionato le scelte, indicato un cammino. Significativo, allora, è iniziare e continuare a lavorare assieme - genitori, bambini, catechisti, educatori – allo stesso progetto, scambiando idee, punti di vista, toccando con mano un’esperienza di vangelo vissuto e, allo stesso tempo, temi di grande attualità come l’educazione, la diseguaglianza sociale, i poveri, l’importanza della scuola e della formazione nella vita di una persona. Parola che si fa carne, pensiero che diventa azione, che si realizza in scelte concrete, modo di essere che illumina e orienta.
Il progetto iniziato in punta di piedi ha avuta una ricaduta quasi immediata anche sulla comunità. Si è avvertita, infatti, l’esigenza di aiutare gli adulti, assieme ai catechisti e agli educatori dei gruppi delle superiori di approfondire l’esperienza di Barbiana con una serie d'incontri. Significativo, in questa prospettiva, è stato il reading di alcune lettere di don Milani, commentate da fr. Antonello. Oltre a ciò, si è pensato di estendere la figura del priore di Barbiana anche in altri percorsi formativi. Il campeggio invernale delle medie dell’unità pastorale ha avuto come tema dominante proprio l’esperienza di Barbiana, percorso che intendiamo continuare anche nella proposta del medio-grest estivo.
Vedere coinvolti nel cammino d’iniziazione cristiana non solo i catechisti e i bambini, ma anche i loro genitori assieme ad alcuni educatori è stata l’idea che ci ha spinto ad osare qualcosa di nuovo. Abbiamo sentito l’esigenza di prendere sul serio le indicazioni dei vescovi, che ci consigliano di avere il coraggio di uscire dallo schema di una catechesi scolastica per proporre qualcosa di coinvolgente e, allo stesso tempo interessante. Troppo spesso, infatti, nel percorso di catechesi, ci si preoccupa più dei contenuti che del modo di comunicarli e trasmetterli, esattamente come accade a scuola. Abbiamo iniziato con una frequenza mensile, anche perché la richiesta non era quella di trascorrere assieme la classica ora di catechismo, ma il pomeriggio intero. Oltre a ciò, abbiamo pensato di finalizzare il percorso con qualcosa di concreto, qualcosa di visibile e di presentabile alla comunità, una specie di messaggio finale del percorso svolto da poter condividere. Fr. Antonello ci ha raccontato alcune storie della vicenda di Barbiana vissuta da don Milani e dai suoi ragazzi. Storie che lentamente hanno preso corpo nella fantasia dei bambini della catechesi, che hanno ricostruito le storie assieme a genitori e catechisti, pensando insieme alle musiche, alle scene, ai testi. Cogliere il vangelo non come una dottrina, ma come un’esperienza di vita, uno stile, un modo di vivere alternativo che s’inserisce nel cammino vitale quotidiano, nell'impegno scolastico, che per un bambino è di fondamentale importanza, nelle scelte della vita quotidiana che un genitori deve poter fare: è questo il senso della proposta. Nel percorso di catechesi diviene importante potersi confrontare con esperienze che hanno segnato le persone coinvolte, ne hanno condizionato le scelte, indicato un cammino. Significativo, allora, è iniziare e continuare a lavorare assieme - genitori, bambini, catechisti, educatori – allo stesso progetto, scambiando idee, punti di vista, toccando con mano un’esperienza di vangelo vissuto e, allo stesso tempo, temi di grande attualità come l’educazione, la diseguaglianza sociale, i poveri, l’importanza della scuola e della formazione nella vita di una persona. Parola che si fa carne, pensiero che diventa azione, che si realizza in scelte concrete, modo di essere che illumina e orienta.
Il progetto iniziato in punta di piedi ha avuta una ricaduta quasi immediata anche sulla comunità. Si è avvertita, infatti, l’esigenza di aiutare gli adulti, assieme ai catechisti e agli educatori dei gruppi delle superiori di approfondire l’esperienza di Barbiana con una serie d'incontri. Significativo, in questa prospettiva, è stato il reading di alcune lettere di don Milani, commentate da fr. Antonello. Oltre a ciò, si è pensato di estendere la figura del priore di Barbiana anche in altri percorsi formativi. Il campeggio invernale delle medie dell’unità pastorale ha avuto come tema dominante proprio l’esperienza di Barbiana, percorso che intendiamo continuare anche nella proposta del medio-grest estivo.
Sabato 18
aprile nella sala polivalente del nuovo oratorio di Regina Pacis vi invitiamo,
allora, ad assistere a: BARBIANA: DOVE I SOGNI DIVENTANO REALTÀ. Molto più di
uno spettacolo, potremmo dire una storia intessuta di tante storie. Senza
dubbio c’è la storia dei bambini che partecipavano quotidianamente alla scuola
di Barbiana con don Lorenzo Milani. Ci sono anche le storie dei bambini della
quinta elementare della parrocchia di Regina Pacis, con le loro catechiste e i
loro genitori. È stato bello vedere i genitori non solo a portare e scaricare i
loro figli per la catechesi, ma a rimanere con loro, a costruire assieme a loro
IL PONTE DI LUCIANO, interessarsi delle musiche, delle sceneggiature, a
scrivere insieme i testi. Piccole cose, che però possono diventare
significative per il fatto che, facendole si sono appassionati, hanno
desiderato incontrarsi, hanno vissuto in prima persona quel percorso che
solitamente vivono da spettatori.
lunedì 16 marzo 2015
CORSO DI LETTURA POPOLARE DELLA BIBBIA A REGGIO EMILIA
Paolo
Cugini
Tra aprile e maggio verrà realizzato nei
locali dell’Oratorio cittadino un Corso di Lettura popolare della Bibbia. Si
tratta di un metodo messo in atto in America Latina nella realtà delle comunità
di base, vale a dire in quel modo di essere chiesa dove le parrocchie sono
costituite da tante piccole comunità, che si trovano settimanalmente a leggere
la Parola di Dio e a celebrare nel giorno del Signore. Il metodo è stato messo
a punto durante gli anni della dittatura militare, vale a dire tra gli anni
sessanta e ottanta del secolo scorso; certamente uno dei periodi più negativi
dell’America Latina. Nelle Comunità di base si comincia a leggere la Bibbia per
cercare risposte alla situazione. Il grido del popolo d’Israele schiavo in
Egitto diviene il modello di questo percorso di liberazione. Si tratta, dunque,
di una lettura contestualizzata in cui la comunità ascolta la Parola di Dio per
cercare luce e forza per affrontare la situazione di oppressione che vive. È la
comunità riunita la chiave interpretazione del testo ascoltato e meditato. È in questa prospettiva che il legame fede e vita, amore al Signore e vita
vissuta s’intrecciano sempre di più. Legame poi, che divieni visibile nelle
celebrazioni domenicali sempre vissute con molta partecipazione.
La lettura Latino-americana
della Bibbia nasce dalla speranza di milioni di contadini e contadine che
resistevano all'avanzata del sistema del latifondo, nei sindacati e nelle
associazioni delle periferie delle favelas, nei quartieri poveri ammucchiati
dal grande fenomeno dell’esodo rurale che mandava via i contadini dal campo, ed
è quindi figlia delle pastorali sociali e delle comunità ecclesiali di base. L’esperienza
dell’ascolto della Parola in un simile contesto crea entusiasmo, perché le
persone che vi partecipano iniziano a percepire la presenza del Signore,
suscitando il desiderio di uscire dalle situazioni di oppressione. Il momento
settimanale di ascolto della Parola non diviene fine a se stesso, in una
ricerca di conoscenza vuota, ma stimolo per comprendere meglio il proprio
vissuto e alimentare la speranza di un mondo migliore.
La lettura
popolare della Bibbia è anche una lettura critica della realtà perché cerca di
promuovere dei cambiamenti effettivi nel contesto in cui viene realizzato
l’ascolto della Parola. Senza dubbio, un simile percorso può sembrare strano,
contrario al nostro modo di accostarci al testo sacro. Soprattutto, può
sembrare un metodo che forza il testo sacro per ottenere risposte concrete.
Ogni critica è positiva perché aiuta a migliorare il modo di vedere la realtà.
È questo che ci sta insegnando la chiesa e cioè che non esiste un unico modo di
leggere la Parola, un unico punto di vista da cui guardare. Del resto, se i
vangeli sono quattro deve pur significare qualcosa, vale a dire l’impossibilità
di cogliere il mistero di Dio da un’unica prospettiva, da uno stesso punto di
vista. Per cogliere la bellezza e, allo stesso tempo, la ricchezza del metodo
di Lettura popolare della Bibbia occorre fare lo sforzo di spostarsi dal proprio
punto di vista, di mettersi da parte per portarsi verso il punto di vista dell’altro,
il punto di vista dei milioni di poveri e di oppressi che hanno trovato nella
Parola di Dio una lampada per il proprio cammino di salvezza.
Questo tipo di lettura biblica è
molto bene illustrata da una storia raccontata da Frà Carlos Mesters, uno dei
pionieri della Lettura Popolare della Bibbia in Brasile: “In una piccola
comunità di agricoltori molto poveri, è stato letto un testo che proibisce la
possibilità di mangiare carne di maiale ( Lv11,7-8;Dt 14,8). La gente presente
alla riunione ha domandato:- Che cosa Dio ci vuole dire oggi attraverso questo
testo?-La gente ha discusso sull’argomento e alla fine ha concluso:-attraverso
questo testo Dio vuole dirci oggi che dobbiamo mangiare carne di porco!-
L’argomento usato era il seguente:-Dio si preoccupa soprattutto con la vita e
la salute del suo popolo. La carne di maiale, quando non è tenuta bene, può
provocare malattia e morte. Per questo, nel tempo della Bibbia, Dio proibiva
alla gente di mangiare carne di maiale. Oggi però noi sappiamo come fare con la
carne di maiale affinché non provochi malattie, essa non fa più male alla
nostra salute. Oltre a ciò, la carne di maiale è l’unica carne che abbiamo qui da
mangiare. Se non mangiassimo questa carne non faremmo bene alla nostra salute
né alla salute dei nostri figli. Per questo oggi Dio ci comanda di mangiare
carne di maiale. Dobbiamo essere fedeli alla parola di Dio!”
Si comprende molto bene che è un
modo di leggere la Scrittura che ha i poveri come interpreti. Il testo è
incorporato alla loro vita e la loro vita al testo, che è percepito come frutto
di una comunità che lotta per la vita e crede nel Dio della Vita. Per i poveri la Parola di Dio non sta nella
lettera delle Scritture, ma nella lettura della Scrittura che attualizza
l’azione salvifica, protettrice e liberatrice di Dio con i poveri.
Il corso
che gli amici della Lettura Popolare della Bibbia hanno promosso si avvale
della presenza di Maria Soave Buscemi, italiana che vive da più di vent'anni in
Brasile e da molto tempo accompagna diversi gruppi di lettura popolare della
Bibbia. Soave, per la competenza acquisita in tanti anni di studio e di pratica
é invitata in varie parti del mondo dalle chiese evangeliche per presentare
questo metodo. Assieme a Soave ci sarà anche don felice Tenero, della diocesi di
Verona, Fidei Donum in Brasile per molti anni. Entrambi da alcuni anni sono
stati invitati dalla CEI a coordinare il percorso formativo al CUM di Verona
per tutti i missionari in partenza per l’America Latina. Arrivederci , allora,
a sabato 18 aprile all'Oratorio cittadino alle 9 per iniziare questo percorso
biblico insieme che sarà senza dubbio ricco di spunti per i nostri cammini di
fede e, speriamo anche per il cammino delle nostre comunità.
venerdì 13 marzo 2015
LE UNITÀ PASTORALI VISTE DALL'AMERICA LATINA: UNO SGUARDO DIVERSO
Paolo
Cugini
Guardare
il cammino della chiesa italiana da quell'angolo di mondo che ha visto il
fermento delle Comunità Ecclesiali di Base (Cebs) può senza dubbio aiutare a
cogliere sfumature che difficilmente si percepiscono quando si osserva un
fenomeno troppo da vicino e, soprattutto, da un unico punto di vista. Del
resto, una delle tante caratteristiche dello Spirito Santo che inventa e guida
la Chiesa affinché divenga sempre segno visibile della presenza del Signore
risorto, è quella dell’imprevedibilità, della creatività. Ciò significa che non
solo non bisogna fissarsi troppo sui modelli ecclesiali sorti storicamente, ma
anche e soprattutto, che bisogna essere attenti ai segni dei tempi e ai
cambiamenti che questi segni esigono. La libertà dei figli di Dio, che lo
Spirito Santo suscita, dovrebbe poter manifestarsi nella capacità di staccarci
dalle forme religiose storiche, per essere pronti ad abbracciare quello che lo
Spirito Santo suscita nella chiesa. Se c'è qualcosa che è chiaro e sorprendente
leggendo i racconti delle prime comunità cristiane, è quello di essere sempre
all'avanguardia nei tempi, anzi spesso e volentieri di essere qualche metro più
avanti. Quelli allora che ci appaiono come problemi insormontabili, che non ci
fanno dormire alla notte, alla luce della presenza misteriosa dello Spirito
Santo, che soffia dove vuole e come vuole, dovrebbero sempre di più apparire
come possibilità nuove, come cammini nuovi che il Signore ci sta presentando ai
nostri occhi.
Se
le caratteristiche delle comunità di base latinoamericane sono la
partecipazione attiva dei laici e la centralità della Parola di Dio, quelle
delle parrocchie italiane sono il sacerdote e l’Eucarestia. La parrocchia
italiana nasce con la presenza del sacerdote residente. Su questo rapporto
stretto tra parroco e parrocchia nasce e si sviluppa anche una specifica
spiritualità, che vede nella comunità parrocchiale la sposa del parroco. Per
questo, una volta entrato in parrocchia il parroco non si spostava più: era
inamovibile. Non può, infatti, lo sposo abbandonare la sposa e per questo le
rimane fedele fino alla morte. Questa identificazione stretta tra parroco e
comunità parrocchiale è ben visibile anche nelle sagrestie parrocchiali nelle
quali spesso viene riportato la lista di parroci che l’hanno servita. Se la
comunità esiste quando c’è un parroco, è chiaro che non si è mai fatto nulla
per mettere in grado i laici di guidare una comunità, di celebrare la Parola.
Forse sarebbe meglio dire che non solo non si è fatto nulla, ma non è mai
venuto in mente. Del resto, l’abbondanza impressionante di sacerdoti durante i
secoli, non ha fatto mai sospettare la possibilità di un cambiamento tanto
radicale come quello avvenuto negli ultimi decenni. Se la parrocchia è sempre
stata pensata a partire dal parroco, è veramente molto difficile cambiare
l’impostazione, anche perché nei secoli i fedeli si sono abituati a pensare la
comunità in funzione di figure stabili, che risiedevano nella comunità per
decenni e, spesso e volentieri, risolvendo tutte le problematiche legate alla
vita di comunità. Che bisogno c’era, infatti, d’interessarsi della catechesi o
della liturgia se in una parrocchia di 300 abitanti c’era il parroco residente?
Nel tempo, la spiritualità della gente di una comunità ha sempre dipeso dalla
spiritualità del parroco.
Le
unità pastorali nascono esattamente in questa prospettiva, tentando, cioè, di
rispondere a questo problema: in che modo le parrocchie possono essere servite
dal sacerdote nell'epoca della crisi di vocazioni? Se la parrocchia dipende
dalla presenza del sacerdote è chiaro che la comunità non esiste senza questa
presenza. Nelle comunità di base latinoamericane il centro non è il parroco, ma
il popolo di Dio, anche perché la comunità non s’identifica con una persona, ma
con l’assemblea riunita attorno alla Parola. E' per questo motivo che il grande
lavoro svolto nel cammino di Chiesa latinoamericano è avvenuto sulla formazione
dei laici, per metterli in grado di celebrare la Parola, di svolgere le
funzioni religiose della comunità, compresi i funerali e i matrimoni.
Chiaramente, non si tratta di contrapporre dei modelli ecclesiologici, o di
dire qual’è il migliore. Si stratta solo di guardare un problema da un altro
punto di vista e provare ad ascoltare l’effetto che fa. Senza dubbio, guardare
il problema pastorale, così come si sta configurando nella realtà italiana,
dalla prospettiva latinoamericana fa un certo effetto. Infatti, dove in
Italia si pone l’accento sulla crisi (di vocazioni) e dove tutte le
problematiche pastorali sono viste in funzione o alla luce della suddetta,
guardando questa crisi di vocazioni con il cannocchiale latinoamericano sembra
si tratti, in realtà, di un’abbondanza.
La
storia delle parrocchie italiane è antichissima. Ci sono parrocchie anche
piccole che risalgono al secolo 12º o anche prima. Si percepisce molta
sofferenza da parte delle persone di una piccola parrocchia che in poco tempo e
quasi per decisione d’ufficio, viene accorpata ad altre, perdendo la sua
identità e, per certi aspetti la sua storia. Bisognerebbe avere la pazienza di
accompagnare le comunità parrocchiali verso il nuovo modello di comunità che si
vuole mettere in atto. Non si può spazzare via una tradizione secolare
solamente per rispondere a quelle che vengono percepite come esigenze
impellenti. Guardare il problema da un altro punto di vista, può aiutare a
percepire il fenomeno in questione, non tanto come un problema, ma come un
segno dei tempi, che ha bisogno di essere letto e interpretato. Si tratterebbe,
allora, non semplicemente di creare queste strutture ecclesiali impersonali,
chiamate unità pastorali – impersonali perché non hanno un’identità ecclesiale
specifica, non hanno storia: sembrano proprio nate a tavolino – per rispondere
sempre al solito problema della presenza del sacerdote nelle parrocchie in
questo nuovo contesto pastorale. Alla luce dell’esperienza latinoamericana si
potrebbe leggere la situazione come un’occasione – un segno dei tempi? – che il
Signore sta presentando alla sua chiesa per investire maggiormente sulla
formazione dei laici. Questo non significa che sino ad ora non si è fatto nulla
in questa prospettiva. Anzi, molto si è fatto anche in Italia, soprattutto dopo
le indicazioni del Concilio Vaticano II. L’impressione, però, è che l’alto
livello della formazione offerta, non corrisponda poi al coinvolgimento dei
laici nelle comunità. Meno presenza dei sacerdoti nelle singole comunità, potrebbe
significare la possibilità una presenza più qualificata, più ministeriale dei
laici nelle suddette. Perché allora, laici debitamente preparati, non
potrebbero celebrare la Liturgia della Parola domenicale, con la distribuzione
dell’Eucarestia per opera dei ministri straordinari? E perché non potrebbero
celebrare i funerali o organizzare in modo diverso e più comunitario le
benedizioni alle famiglie? L’attuazione ministeriale effettiva nelle comunità
parrocchiali, renderebbe più significativo il cammino di formazione proposto ai
laici. Oltre a ciò, diverrebbe anche più visibile e, allo stesso tempo
necessaria, una corresponsabilità sempre maggiore dei laici nella vita della
comunità.
Mettersi
dal punto di vista dell’altro aiuta a vedere meglio il proprio punto di vista.
Non si tratta di copiare modelli pastorali per trasportarli da un posto
all'altro, ma semplicemente di guardare assieme lo stesso fenomeno con occhiali
diversi e cogliere così sfumature diverse. Il tanto agognato scambio di chiese,
può divenire efficace quando apprendiamo a fidarci, a confrontarci serenamente,
ad uscire dall’auto-referenzialità. Probabilmente, solo così potremmo scoprire
che, quello che da un punto di vista appare come un problema che ci toglie il sonno,
dall'altro sembra essere un’ottima occasione per crescere.
giovedì 12 marzo 2015
LETTERA AI SEMINARISTI
ARCHIVIO BRASILE
Pintadas-Ba,
18 giugno 2011
Carissimi amici
del seminario di Reggio Emilia,
Giacomo mi ha sollecitato
di scrivere due righe per riprendere le riflessioni-provocazioni scambiate nel
nostro incontro lo scorso anno. Lo faccio volentieri, anche perché mi permette
di condividere un cammino con coloro che faranno parte della stessa famiglia
sacerdotale. Mi aveva dato come scadenza l’11 giugno: purtroppo non ce l’ho
fatta. Chiedo scusa.
1. La prima forte
provocazione che ho ricevuto dal contesto che ero chiamato a servire é stata la povertà. Chi arriva a Salvador – capitale della Bahia – rimane ben
impressionato per i palazzi sul lungo mare: sembra una città occidentale.
Spostandosi di poche centinaia di metri verso l’interno ecco apparire le
favelas, montagne di case, chiamiamole così, in cui si percepisce la presenza
di un’umanità che lotta tutti i giorni per la sopravvivenza. Arrivato nel
gennaio del 1999, dopo tre anni emmezzo di sacerdozio (sono diventato prete in
giugno del 1995), avevo cominciato a girare i quartieri poveri per cercare di
capire come viveva questa gente. Mi colpiva il niente che incontravo. Annotavo
sul mio quaderno tutto quello che stavo incontrando, un mondo totalmente nuovo
al quale non avevo mai pensato e nemmeno immaginato. Soprattutto non capivo
come riuscissero a vivere queste persone, senza un lavoro, senza un conto in
banca: come facevano a mantenere tanti figli?
Domande ingenue tipiche di colui che analizza una realtà con gli occhi
del mondo di provenienza, senza aspettare di ascoltare la realtà per come è. Mi
chiedevo anche come era possibile risolvere tutti i problemi che incontravo.
Questo impatto
con tanta povertà provocò in me tantissime domande sul senso della vita, del mondo,
sulla misericordia di Dio, l’ingiustizia umana, la disuguaglianza sociale. Non
riusciva a farmi una ragione del perché di tanta differenza, tanta
disuguaglianza. E allora decisi di incentivare quel percorso sul quale stavo
lavorando sin dai tempi del seminario: la preghiera personale. Siccome ero
ancora nella fase di conoscenza della lingua e della cultura, dopo cena, cioè
alle 18, potevo organizzarmi come volevo. Decisi cosi, di dedicare due ore
dopocena alla lettura di romanzi brasiliani, che mi permettessero di
comprendere meglio la cultura locale e di andare a dormire presto – verso le 21
– per alzarmi presto. La bellezza della preghiera mattutina é stata una delle
più belle scoperte della mia vita spirituale. Dedicare prima di aprire la porta
di casa due o tre ore al Signore, dà una forza interiore incomparabile. È stato
in questo primo anno di missione che mi sono innamorato della mistica
ortodossa. Cercavo, infatti, dei libri che mi aiutassero a vivere la
contemplazione, mi aiutassero a capire la vita nello Spirito. In un contesto di
grande povertà, frutto di una disuguaglianza sociale fuori di misura, mi è successo di avvicinarmi ancora di più al Signore, di cercarlo con tutte le mie
forze.
2. La seconda
provocazione che ho ricevuto nella diocesi di Ruy Barbosa è stata lo stile
di Chiesa e, di conseguenza, il modo di essere sacerdote. Como vi ho
raccontato, le parrocchie dalle nostre parti sono costituite da comunità,
chiamate comunità di base. Pintadas, per esempio, che è la parrocchia nella
quale vivo ora, é composta di cinque comunità nella città e 32 nella zona
rurale. La vita del sacerdote consiste accompagnatore la vita delle
comunità, sia celebrando l’Eucaristia e i sacramenti, che dedicando tempo per
la formazione dei liders di comunità. Passavo da una situazione ecclesiale –
Reggio Emilia – in cui in parrocchia c´’e una messa, o quasi, tutti i giorni,
ad un contesto, per esempio Ipirá che è una parrocchia formata da quasi 100
comunità, nelle quali si celebra l’Eucaristia
ogni due o tre mesi. Potete capire lo sconvolgimento mentale e spirituale che
ho vissuto i primi mesi. Da uno stile di
parrocchia fatto di piccoli movimenti – canonica, oratorio, piazza, chiesa – ad
uno stile di parrocchia fatto di distanze enormi; da uno stile di parrocchia
fatto di rapporti personali con persone che vedi quasi tutti i giorni, ad uno
stile di parrocchia dove incontri le persone 4 o 5 volte durante l’anno. Vacci
a capire qualcosa! Confesso che i primi mesi ho fatto molta fatica. Era come se
tutto quello che avevo appreso e vissuto non servisse assolutamente a nulla:
non è una bella sensazione. Il primo anno di Brasile é stato come morire,
seppellire quello che ero per fare il posto a qualcosa d’altro, Passare da una
parrocchia concentrata in poco spazio, il cui lavoro pastorale consiste
nell'attendere le persone che arrivano negli spazi pastorali, ad uno stile di
chiesa decentrato in territori spesso vastissimi (la nostra diocesi è grande
come l’Emilia Romagna e siamo 18 sacerdoti: ok?!). Per me si é trattato di una
vera e propria conversione pastorale: deporre il modello di Chiesa e di
sacerdote che avevo assimilato e vissuto sino a quel tempo, per assumerne uno
totalmente nuovo, che non conoscevo e del quale nemmeno avevo sentito parlare.
Altro dato
significativo del nuovo stile di Chiesa incontrato é la presenza dei laici.
Nelle comunità chi svolge un ruolo effettivo di guida sono i laici. Chi celebra
la Parola alla domenica, chi dirige il consiglio pastorale della comunità, chi
risolve i problemi nella comunità sono i laici, che esercitano una funzione
effettiva dentro la comunità. L’incontro con questo stile di chiesa
ministeriale e laicale dal volto femminile ( la maggior parte dei liders delle
comunità sono donne) mi ha aperto gli occhi sullo stile di prete che avevo
dentro e cioè autoritario e autoreferenziale. Nei nostri consigli pastorali
occidentali l’ultima parola spetta sempre al prete. In tutte le cose che
avvengono in una parrocchia é il prete che decide. Nelle nostre parrocchie
brasiliane o, meglio baiane, questo sistema non funzionerebbe. Il decentramento
della parrocchia nelle comunità di base, ha come conseguenza immediata la
necessità di valorizzare il laicato locale e, per questo, concentrare gli
sforzi sulla loro formazione permanente. A Pintadas, per esempio, c’è un
incontro mensile di formazione cristiana aperto a tutti, un corso di formazione
mensile per ministri della parola, ministri dell’Eucaristia, catechisti, in
giorni diversi. Oltre a ciò tutti i lunedì alla sera ci troviamo per leggere la
Bibbia assieme. Nelle comunità incontro persone e famiglie semplici, per lo più
contadini che lavorano nel piccolo pezzo di terra che possiedono o, spesso e
volentieri, lavorano nelle fazendas per guadagnare qualche soldo. Tutto questo
per dire che nelle comunità di base non incontriamo dottori, avvocati, banchieri,
professori. Sottolineo questo perché, per me, é uno dei grandi paradossi della
vita ecclesiale. Assumono, infatti, molto più responsabilità i poveri che
incontriamo nelle nostre comunità, persone che spesso sono analfabete o quasi, che
i professionisti delle parrocchie di Reggio Emilia. Chi ci capisce qualcosa è bravo. Aiutare i laici, che per la maggior parte dei casi dalle nostre parti
sono donne, a svolgere bene il loro servizio nelle comunità di appartenenza, é
la nostra grande sfida. Apprendere a deporre lo scettro per concederlo a coloro
che vivono nella comunità é un esercizio spirituale che fa molto bene al
ministero. Un ministero sacerdotale più di servizio, più attento a stimolare i
carismi delle persone incontrate e meno concentrato su di sé, sulle proprie
capacità, sul “potere” ricevuto: fa molto bene alla Chiesa e al mondo . Per me
non si tratta di esportare un modello di Chiesa, ma di scambio di doni. Un dono
bellissimo che la Chiesa Latinoamericana ha da offrire alla Chiesa Cattolica é
questo modo di vivere la comunità, di valorizzare le persone e d’intendere il
ministero sacerdotale. Una Chiesa piú democratica e meno autoritaria guadagna
in umanità e perde in arroganza. E poi fa molto bene a noi preti, che ci
sentiamo investiti di chissà quali poteri e, in virtù di questi trattiamo i
laici spesso e volentieri come delle marionette.
Anche con i
giovani il lavoro pastorale é diverso. Non possiamo organizzare campeggi,
settimane bianche o gialle, ritiri spirituali di tre giorni da qualche parte,
viaggio a Madrid con il Papa, per il semplice fatto che le famiglie non hanno
condizioni economiche per sostenere simili esperienze. Inventare qualcosa di
valido e formativo con i mezzi che ci sono a disposizione: é questa la grande
sfida della pastorale giovanile dalle nostre parti. Oltre a ciò, la difficoltà
maggiore del lavoro pastorale con i giovani è il fenomeno migratorio. Nelle
nostre città del Nordes baiano non c’è nulla. E allora i giovani verso i 16/17
anni, terminate le scuole superiori – che in Brasile durano solo tre anni – se
ne vanno nelle grandi città (San Paulo, Rio de Janeiro, Brasilia, Salvador,
ecc.) in cerca di opportunità migliori di vita. Ciò significa che tutti gli
anni il lavoro di pastorale giovanile deve ripartire da zero, o quasi. Facciamo
fatica ad organizzare un cammino vero di accompagnamento spirituale con i
giovani. Quasi non esiste la confessione ( il perché ve lo spiego un’altra
volta), la direzione spirituale non si sa cosa sia (ho provata a metterla in
piedi nella prima parrocchia che ho accompagnato, ma ho capito che chi ha a che
fare con problemi di immediato interesse, non ha molto tempo da dedicare alla
vita spirituale). Come strumenti formativi ho messo in pedi alcuni progetti tra i quali segnalo uno studio
biblico per giovani che sto realizzando nelle comunità. Altro dato importante.
Quando parliamo di giovani dalle nostre parti ci riferiamo soprattutto agli
adolescenti di 13-17 anni. Dopo questa data è difficile seguirli. Molti si
sposano presto (più che altro si mettono insieme, anche perché lo sposarsi
presuppone un progetto di vita che le scarse condizioni economiche non permette
di elaborare), altri, come ho già detto vanno via e, chi rimane, si deve
arrangiare per riuscire a fare qualcosa. Se la pastorale vocazionale ha fatto
fatica a decollare nelle parrocchie della nostra giovane diocesi (52 anni!), è anche dovuto alla difficoltà di un lavoro pastorale formativo a lunga distanza
con i giovani.
3. La solitudine. Ci sono delle giornate
che non passano mai, sembrano infinite, lunghissime. In un contesto poi che non
offre nulla, la situazione diventa ancora piú pesa. Ho scoperto sulla mia pelle
che non è vero, come dicono alcuni saggi, che la preghiera risolve tutto. Ci
sono, infatti giorni, che neanche la preghiera sembra bastare. Ho passato
giorni che avrei avuto voglia di scambiare chiacchiere umane con persone normali.
Ho passato serate che mi sarebbe piaciuto giocare a briscola in compagnia di
amici. Il problema è che in contesti di povertà, come sono i nostri, è difficile instaurare rapporti alla pari, disinteressati di amicizia. Chi ci
cerca é sempre per qualcosa di materiale e, alla distanza, pesa, soprattutto
svuota. Per questo, dopo tanti anni di missione le persone amiche le conto
sulle dita di una mano. Ci sono delle situazioni nella missione che ho scoperto
solamente sul posto: una di questa é la solitudine. Ho impostato la missione in
modo tale da essere sempre in mezzo alla gente. Ma ció non significa nulla, o
quasi. Anche tra noi preti in missione è difficile incontrarci: le distanze
sono enormi. Quando ci troviamo é sempre un momento molto bello e piacevole. Anche
in questo caso per sopperire alla difficoltà di rapporti umani autentici ho
incentivato il rapporto con il Signore, dedicando settimane di deserto in
alcuni monasteri della regione. Come ho già scritto sopra non sempre la
preghiera riesce a sopperire alla mancanza di rapporti umani veri. Per questo
coltivo i pochi rapporti che sono riuscito ad intessere qui e i pochi che si
sono mantenuti con l’Italia. Quando ero in Italia e sentivo la notizia di
qualche prete che si sposava rimanevo profondamente scandalizzato. Ora, vivendo
qui, in una realtà spesso disumana, fatta di rapporti interessati, non mi
scandalizzo più. Come diceva Totó: siamo uomini e non caporali! Su questo punto,
tanto delicato, avrei voglia di scrivere altre cosette, ma le lascio per una
prossima occasione.
Dai sacerdoti
baiani ho imparato a rilassarmi, a prendermi i miei tempi (anche se rimango
strutturalmente una persona tesa). Nei primi cinque anni di missione non mi
sono praticamente schiodato dalla parrocchia, vittima della spiritualità del
sacrificio, o meglio del massacro ereditata a Reggio Emilia. Poi mi sono
svegliato. Qui dalle nostre parti nel mese di gennaio (che corrisponde al mesi
di agosto italiano) si chiude la
baracca. Le suore vanno nelle case madri delle congregazioni e i preti vanno in
ferie a trovare amici e parenti. Questi preti sono venuti su in un modo e in un
mondo differente, valorizzando i momenti umani della vita. Non c’è bisogno di
spiegare ai preti che incontriamo nelle parrocchie baiane che sono uomini: lo
sanno benissimo. Mi ricordo l’impressione sconvolgente che ho avuto
partecipando di una festa di lettorato e accolitato in seminario a Feira de Santana.
Dopo la cerimonia solenne svolta con tutta la pompa necessaria al caso, è iniziata la festa nel cortile del seminario. E qui la festa bisogna intenderla
nel senso letterale della parola. Sono rimasto impietrito vedendo sacerdoti,
seminaristi, suore parenti e amici ballare sorridenti! Qualcuno aveva avuto il
coraggio d’invitarmi e io, un pó indignato, ho declinato l’invito. Il vescovo André e l’Arcivescovo di Feira Santana erano presenti, non ballavano, ma
chiaramente approvavano. È la cultura. Contesti differenti in culture
differenti dalle quali c’è sempre da apprendere qualcosa. Un ministero un pò più umano non significa meno santo.
Questa è stata una delle scoperte più belle della missione, che senza
dubbio voi sapete già. E così, come dicevo, mi prendo i miei tempi, come fanno
i sacerdoti baiani. Nel mese di gennaio - che é il mese nel quale le mie
parrocchie lavorano di più a causa dei progetti che in questi anni ho messo in
piedi – ne approfitto per un pò di preghiera e per aggiornarmi. Il mese di
gennaio é anche il periodo dei Forum Sociali ( ho già partecipato a due Forum
Sociali Mondiali, uno regionale e uno continentale), che si sono rivelati
esperienze stupende, sia per le nuove conoscenze che si riescono ad intessere,
sia per i dibattiti che avvengono. Sempre in gennaio, poi avvengono gli
incontri dei preti Fidei Donum presenti in America Latina o in Brasile, tutte
occasioni utili per scambiare esperienze e respirare aria nuova. Non so se,
tornando in Italia, riuscirei a prendermi i miei tempi. Da un lato, c’è la
spiritualità del sacrificio che ci frega, dall'altra ci sono i laici che non
ti lasciano respirare. Quando la scorsa domenica ho annunciato che nel mese di
luglio sarei andato a visitare mia sorella, che vive a Toronto, varie persone
si sono avvicinate dicendomi: “Padre, ci porti con lei nella valigia!”. Se fossi
stato in Italia probabilmente mi avrebbero detto: “Sei sempre in giro”. In una
parrocchia nella quale i laici assumono i servizi pastorali come funerali,
battesimi, matrimoni, celebrazioni, il prete può anche permettersi il lusso di
visitare i parenti e, ogni tanto ritirarsi per aggiornarsi un pó. Meditate
gente, meditate.
4. Mi ricordo che
nell’incotro che avevamo avuto qualcuno mi aveva chiesto perché ho chiesto di andare in
missione. In realtà non ho mai desiderato di andare in missione, anche
perché ho sempre avuto dinnanzi, sin da piccolo, il modello di prete diocesano,
che mi bastava e avanzava. Quando negli anni settanta e ottanta passavano in
seminario nel mese di ottobre i missionari, quel modo di essere sacerdote, che
loro presentavano, non mi attraeva più di tanto. Anche durante gli studi di
teologia il mio ardore missionario non era molto elevato. Tutto è cominciato
quando, durante la preparazione al diaconato, ho deciso di dare la
disponibilità anche per le missioni diocesane, più per un entusiasmo del
momento, che per una vera convinzione missionaria. Dopo due anni di sacerdozio,
nella quaresima del 1997, mi aveva colpito un articolo apparso sulla Libertà di
don Luciano Pirondini, che a quel tempo era direttore del Centro Missionario,
in cui si lamentava del fatto che pochissimi sacerdoti avevano dato la loro
disponibilità per le missioni diocesane. Il giorno dopo andai direttamente al
Centro Missionario per parlare con don Luciano e lui mi invitò di rinnovare la
mia disponibilità alle missioni con il vescovo. Detto e fatto. Fu così che l’anno
successivo, era il febbraio del 1998, il vescovo Paolo mi chiese se ero
disponibile ad andare in Brasile a sostituire don Antonio Davoli, che aveva
chiesto di rientrare dopo 17 anni di missione. Ricordo la sensazione di freddo
polare che entrò dentro di me, sensazione di qualcosa che avrebbe cambiato
radicalmente la mia vita. Il Signore si serve proprio delle briciole che gli offriamo
per realizzare il so progetto.
Vi saluto,
augurandovi di passare gli esami (in bocca al lupo) e di trascorrere sane
vacanze. Aquele abraço
Pe Paolo Cugini
martedì 10 marzo 2015
COMUNIONE E CORRESPONSABILITÀ
ARCHIVIO BRASILE
Incontro com i centri missionari della
regione Emilia Romagna – Bologna 19/10/2010
Paolo
Cugini
L’esperienza
missionaria in America Latina é stata un vero e proprio dono del Signore, dono
che in ogni momento sento la necessità di condividere con i fratelli e le
sorelle che il Signore mi pone dinnanzi nella vita di ogni giorno. Esperienza
vissuta alla guida di parrocchie composte da molte comunità ha provocato in me
un cammino di conversione a differenti livelli.
1. Decentralizzazione. Il
contatto con parrocchie costituite da tante comunità provoca come conseguenza
immediata, alla necessità di modificare il proprio ruolo, solitamente
accentratore della figura del sacerdote. Il servizio pastorale svolto nelle
parrocchie italiane e totalmente accentrato nelle mani del sacerdote: tutto
deve passare al vaglio del parroco di turno. In che modo il modello di
pastorale delle parrocchie come comunione di comunità può influenzare il
modello italiano di parrocchia? Credo che lo stimolo che ci proviene dalla
chiesa brasiliana sia quello d’incentivare la lettura e la condivisione della
Parola di Dio in piccoli gruppi di famiglie. Decentrare la lettura del vangele
nelle case della gente sarebbe già un grandissimo passo verso la scoperta di
carismi nuovi dentro la comunità. È il contatto con la Parola in un contesto di
vita nuovo e, allo stesso tempo, semplice e quotidiano, che può provocare un
interesse, un desiderio di impegno in un particolare settore della comunità.
Questo stile pone anche il problema del laicato e del suo impegno nella
comunità in un’ottica nuova. Infatti, il laico no n viene convocato per
svolgere un compito, ma é l’ascolto della parola, condiviso in famiglia e
assieme ad altre persone del quartiere che stimola un interesse e il desiderio
di mettersi a disposizione. C´’e un testo del Vangelo che rafforza questo stile
di realizzare la pastorale, ed è il famoso testo della moltiplicazione dei
pani. Gesú dopo aver trascorso la giornata annunciando la Parola alle folle
sente compassione e interroga i discepoli sulla possibilità di sfamare le folle
sino al punto di coinvolgerli direttamente: “date voi stessi da mangiare”. Gesù
sente il problema, ma non lo risolve da solo: coinvolge i discepoli e li pone
in condizione di esporsi in prima persona assumendosi le loro responsabilità.
Una parrocchia decentrata nel territorio in piccole comunità di famiglie che
settimanalmente meditano il Vangelo e apprendono ad affrontare i problemi della
vita alla luce della Parola, permette anche alla stessa parrocchia di non
puntare per svolgere il proprio servizio pastorale nelle strutture. Oltre a
ció, la distribuzione sul territorio di piccole comunità più informali che il
formalismo della parrocchia, permette senza dubbio più facilmente un Aggancio
con i cosiddetti lontani, con coloro che non sono abituati a frequentare gli
spazi parrocchiali ma che, non per questo sono bisognosi di un’attenzione
spirituale.
2.
De-potenziamento. La
parrocchia decentrate nelle piccole comunità che aiuta a scoprire i carismi e a
valorizzare meglio il laicato, provoca conseguenze immediate sul modo di vivere
il ministero. Accompagnare i responsabili delle comunità, curare la loro
formazione, condividere con loro la responsabilità delle comunità significa
depotenziare il ruolo assoluto e centrale del parroco. Questo processo, che
richiede un vero e proprio cammino di conversione che, senza dubbio, non è indolore, perché passa a scontrarsi con mentalità che si sono costruite nei
secoli, aiuta il sacerdote a vivere il ministero nella sua dimensione autentica
di servizio, a recuperare una dimensione piú umana del prorprio ruolo dentro la
comunità, permettendo di attivare relazioni più umane con i laici della
parrocchia. Quando il sacerdote vive il ministero in una parrocchia sentendosi
il garante assoluto della verità – ed è proprio questo purtroppo quello che si
vede – diventa difficile costruire relazioni autentiche, che esigono il
mettersi allo stesso livello dell’interlocutore. Il de-potenziamento del ruolo del
sacerdote che distribuisce la responsabilità tra laici della comunità
debitamente preparati e accompagnati dovrebbe condurre anche, come conseguenza
di questo cammino di conversione, ad abbandonare i segni esterni del potere
sacerdotale. Mi riferisco a tutti quegli apparati burocratici o a quei titoli
quali: monsignore, eccellenza, eminenza, che pongono una distanza, mettono sul
piedistallo. Se un tempo questi accessori facevano parte di tutto un modo di
fare chiesa che poteva essere anche giustificabile, nella prospettiva che sto
presentando mi sembra chiaro che dovrebbero essere abbandonati. Era questo,
d’altronde, il grido che alcuni vescovi – tra i quali possiamo ricordare il
cardinal Lercaro di Bologna e il brasiliano dom Helder Camara – lanciavano
durante il Concilio Vaticano IIº, invitando i vescovi ad abbandonare le case
lussuose per scegliere di vivere in piccole case umili, vicino ai poveri. Oltre
a ció, un servizio ministeriale più umile e depotenziato, permetterebbe allo
stesso ministro ad avere più tempo per sé, per curare la propria formazione
spirituale e culturale. Spesso e volentieri nelle nostre parrocchie incontriamo
parroci che non si concedono un giorno di riposo o di ferie a causa
dell’eccessiva autoreferenzialità del modo d'intepretare il proprio ruolo.
Vivere il ministero al servizio delle comunità coinvolgendo il più possibile il
laicato locale affinché assuma con sempre maggiori responsabilità spazi
importanti della pastorale aiuta il ministro ordinato a sentirsi dentro la
comunità non come garante indispensabile delle verità dogmatiche della chiesa,
ma come servo umile bisognoso lui stesso di misericordia del Signore, in un
continuo cammino di conversione, di cambiamento, di spogliazione dei toni
arroganti e autoreferenziali per vestire sempre più i panni semplici del servo.
3.
Democratizzazione. La
chiesa decentrata nelle piccole comunità provocando il processo di
de-potenziamento della figura del sacerdote aiuta alla stessa chiesa ad essere
più democratica. È il cammino del coinvolgimento effettivo dei laici nella vita
dell chiesa anche sul piano delle decisioni importanti. Troppo spesso noi
parroci ricordiamo ai nostri fedeli, spesso con tono sprezzante segno di un
autoritarismo di ritorno, che i consigli parrocchiali sono consultivi,
lasciando implicitamente ad intendere che in fin dei conti chi decide alla fine
siamo noi. La vita della chiesa decentrata nelle piccole comunità animata dal
laicato che, spesso e volentieri é femminile, dovrebbe sempre più avere una
parola significativo nel cammino della parrocchia. Democrazia significa
apprendere a camminare assieme per decidere assieme. Questo stile di chiesa che
nasce dall’ascolto della Parola nelle piccole comunità dovrebbe provocare anche
relazioni nuove, più autentiche; relazioni che poi si ripercuotono nello stile
e nel modo di celebrare la liturgia nella comunità.
Per quello che
ho potuto vedere in questi anni d missione, credo che solamente dal basso,
dall’ascolto attento della Parola di Dio nelle piccole comunità di persone
povere la chiesa può convertirsi, diventando così più fedele al suo Signore che,
da ricco che era si fece povere e servo dell’umanità. La chiesa che si pone in
umile ascolto della parola di Dio é tenta di rispondere a questo annuncio senza
dubbio produce uno stile di vita più umano di quello frenetico del mondo nel quale viviamo. Vivere meglio: é questo che il Signore ci chiede. Aiutare le
persone che incontriamo a a vivere meglio, cercando stili di vita piú
evangelici e meno legati alla logica del denaro e del consumo.
CHE BELLA CHIESA!
ARCHIVIO BRASILE
Paolo Cugini
Dal 17 al 20 novembre si è svolta a Ruy Barbosa l’annuale Assemblea diocesana. Presenti oltre al
vescovo e i preti della diocesi, le suore e tanti laici. Nella prima giornata
dell’assemblea è stata presentata una sintesi del lavoro svolto
nelle parrocchie, soprattutto si è cercato di
verificare se le priorità diocesane,
indicate lo scorso anno, sono state messe in pratica. Il secondo giorno è iniziato con l’analisi della situazione della Chiesa seguita da
un dibattito tra i partecipanti dell’Assemblea. Nei
lavori di gruppo del sabato, si è discusso sul
cammino della nostra diocesi e indicato le nuove priorità, che poi sono
state presentate all'’Assemblea riunita.
Durante i tre giorni dell’Assemblea
diocesana, trascorsi tra incontri, lavori di gruppo, liturgie e pasti, la
sensazione era quella di partecipare ad una Chiesa di persone uguali. Può sembrare un pò forte e strana
quest’ affermazione, per questo provo a spiegarmi
meglio. In nessun momento durante questi giorni ho avvertito la sensazione che,
come prete, ero più importante dei laici o delle suore presenti, e che la mia
parola valesse più della loro. Mi sono sentito un figlio di Dio assieme ad
altri figli e figlie di Dio, che discutevano assieme e in modo egualitario sul
cammino dell’unica Chiesa alla
quale apparteniamo. Siccome tutti apparteniamo a questa Chiesa, tutti, sia
uomini che donne, sia laici che religiosi e sacerdoti, sono coinvolti a
discutere con gli stessi diritti e doveri. Tutti, durante questi tre giorni ci
siamo sentiti coinvolti a pensare assieme le sorti e il cammino della nostra
Chiesa. È in circostanze come questa che avverto il significato e, allo stesso
tempo, l’importanza della Chiesa, popolo di Dio in
cammino e che la Chiesa non é di qualcuno, ma nostra, perché Cristo è morto per
tutti e non per qualcuno. Durante i pasti era bello vedere le persone presenti
all’'Assemblea discutere sugli argomenti emersi, segno
di una effettiva valorizzazione di tutti, perché l’opinione di tutti è presa in
considerazione.
Ciò che fa riflettere, soprattutto ad un prete come me che è stato formato in Italia, è il modo democratico di procedere, il modo del Vescovo di essere pastore, di condurre un’Assemblea. Quando si parla di democrazia nella Chiesa molta gente storce il naso. Abituati a vedere e vivere la Chiesa come un’istituzione gerarchica, dove qualcuno decide e gli altri obbediscono, si pensa che sia questo il modo di viverla. Leggendo il Vangelo in questi anni di missione assieme alle comunità delle campagne e ai poveri dei quartieri delle periferie delle città in cui sono stato parroco, mi sono accorto che non è così. Gesù aveva un modo molto democratico di procedere. Ciò è ben visibile nelle parabole che raccontava, dove faceva di tutto per coinvolgere gli interlocutori. Lo stile democratico di Gesù è visibile nel dialogo con i suoi discepoli, continuamente coinvolti nell’'annuncio del Regno di Dio. Lo stile comunitario di Gesù era chiarissimo nel modo di vivere, atteggiarsi, parlare. La sua comunità non era fatta solamente di uomini, ma anche di donne. Lo ricorda il Vangelo di Luca (8,1-3). Qui da noi la maggior parte dei liders di comunità sono donne e, mi viene da dire: che donne! Oltre ad amministrare, spesso e volentieri da sole, la casa piena di figli, queste donne guidano la celebrazione domenicale nella comunità. È logico, allora, che esigano e trovino spazio per esprimersi nella Chiesa che servono con tanto amore.
Nell'’Assemblea
diocesana di Ruy Barbosa le sedie sono disposte in circolo, in questo modo
diviene evidente che nessuno partecipante arriva all’'Assemblea solamente per ascoltare, ma per
intervenire attivamente e anche che nessuno arriva all’'Assemblea solamente per parlare ed esigere di
essere ascoltato. Durante l’Assemblea le linee
della diocesi sono discusse assieme e le priorità sono messe a
votazione. In nessun momento dell’Assemblea il
Vescovo ha imposto la sua opinione, ma é intervenuto in diverse circostanze a motivare e
spiegare il senso degli emendamenti proposti. Nelle varie votazioni
realizzate, Dom André de Witte – è questo il nome
del vescovo di Ruy Barbosa – ha sempre
accettato l’esito delle
votazioni, anche quando il risultato era contrario a quello che lui votava.
Qualcuno potrebbe obiettare che nella Chiesa spetta al Vescovo indicare il
cammino. Anch'’io la pensavo così quando sono
arrivato in Brasile. In questi anni di missione il Signore mi ha mostrato un
modo differente di essere Chiesa, un modo diverso – più evangelico? – di condurre il gregge. Interessante sono stati
i momenti di dibattito per discutere sulle varie proposte emerse nei lavori di
gruppo. Molti prendevano la parola - laici, preti, suore, vescovo - per
difendere e sostenere la propria opinione.
Anche il coordinatore della pastorale diocesano per
i prossimi quattro anni é stato scelto dall’Assemblea e non
direttamente dal Vescovo come succede normalmente. Candidati erano tutti coloro
che erano presenti: ciò significa che
anche una suora o un laico o una laica potevano essere eletti. Alcuni anni fa
era stata eletta una suora, Teresina, come coordinatrice della pastorale
diocesana. Le votazioni si sono svolte con scrutino segreto in due momenti. È stato eletto padre Luis Miguel, un sacerdote spagnolo di 37 anni, già coordinatore
della pastorale diocesana negli ultimi quattro anni. La rielezione avvenuta con
la stragrande maggioranza dei voti, é dovuta al suo lavoro, molto apprezzato in
diocesi. Anche l’ elezione del
coordinatore della pastorale diocesana si è svolto in un clima
democratico, senza imposizioni o forzature, nel rispetto di tutti i presenti. È partecipando a momenti come questi che mi sembra di capire il significato delle
idee emerse nel Concilio Vaticano II, della Chiesa como Popolo di Dio o come
comunione. Interessante è che, nel nostro cammino ecclesiale, le cariche non
sono eterne. Siccome si tratta di servire la Chiesa, i criteri richiesti non
sono speciali titoli, ma soprattutto amore e fede. Per questo motivo,
periodicamente gli incarichi diocesani vengono rinnovati per permettere ad
altri di mettersi a servizio della Chiesa.
Quando partecipo di assemblee in cui la discussione
e i momenti di votazione sono democratici, dove nessuno impone la propria
opinione, ma si cerca di arrivare ad un consenso comune, lasciando lo spazio
per esprimere il proprio parere a coloro che lo desiderano, mi sembra di vivere
nella Chiesa voluta da Gesù. Spesso e volentieri partecipando di incontri
ecclesiali in Italia esco con la sensazione che gli assunti della chiesa sono
cose per specialisti, per gente che ha studiato,mentre le persone comuni, non
solo non sono invitate, ma debbono solo eseguire e obbedire. Al contrario, dopo
l’Assemblea diocesana a Ruy Barbosa, dove chiunque
poteva intervenire liberamente e, soprattutto dove l’opinione di tutti veniva ascoltata, son tornato
a casa con la sensazione di aver partecipato ad un momento ecclesiale, in cui
tutti sono protagonisti e responsabili. Mi è sembrato di capire che la
diversità di ministero nella Chiesa non è nell'’ordine dell’importanza, di una speciale qualità che il
sacramento dell’ordine dovrebbe
imprimere, ma nella disponibilità a servire sempre
di più, a mettersi
sempre più in basso e non in
alto. Mentre partecipavo all’'assemblea
diocesana di Ruy Barbosa mi venivano in mente le parole del Vangelo di Giovanni
13, della famosa scena della lavanda dei piedi. Gesù si è messo a lavare i
piedi dei discepoli dopo che il testo del Vangelo ricordava che “Gesù sapeva che il
Padre aveva messo tutto nelle sue mani”. Con il potere
che il Padre mise nelle sue mani, Gesù si inginocchia per lavare i piedi ai
suoi discepoli.
C´é un modo umano d’intendere il
potere e un modo evangelico, che dovrebbe essere visibile nella Chiesa, corpo
di Cristo. Il potere del Padre presente nella Chiesa di Cristo dovrebbe essere
visibile non nei segni del potere mondano – vestiti, palazzi,
distanza tra i membri -, ma nel modo di porsi a servizio gli uni degli altri.
Questo modo, questo stile semplice e significativo era ben visibile durante l’Asseblea diocesana di Ruy Barbosa. Nessuno era
vestito con i simboli di un presuppposto potere mondano e nessuno si atteggiava
come se fosse diverso dagli altri, esigendo attenzioni e privilegi particolari.
Durante l’Assemblea in
nessun momento il vescovo, o il vicario generale né tanto meno il coordinatore
diocesano di pastorale, hanno preteso una visibilità speciale. Al contrario, ho
visto Don André, nei momenti di intervallo, dialogare con pazienza con coloro
che durante l’Assemblea si
mostravano intransigenti in una particolare posizione. Ho visto il mio vescovo
a servizio della Verità non con i segni del potere mondano –vestiti, atteggiamenti, posizione, - ma con il
marchio invisibile del servo obbediente, che si fa carico delle sofferenze
degli altri e le porte senza nessuna recriminazione, così come Gesù ha fatto
con noi.
Quando penso che sono stato inviato in missione per
uno scambio di chiese, credo che ciò che il Signore mi chiede di restituire é
questo stile di Chiesa. Quando tornerò in Italia – e tutto indica
che sarà nel breve periodo – desidero mettermi
a disposizione per lavorare nell’'edificazione di
una Chiesa più umana, più egualitaria e
democratica. Assim seja!
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