martedì 27 maggio 2025

LA CARITA’ CHE UCCIDE

 



 

Paolo Cugini

C’è un dato di fatto importante che riguarda il modo del mondo Occidentale intervenire per aiutare i paesi più poveri. Infatti, progetti sociali realizzati nei paesi poveri, gestiti anche da entità legati alla Chiesa, sono marcati da una dipendenza radicale dai soldi che vengono da fuori, cioè dall’Occidente. Se i progetti sociali che sono messi in piedi dall’Occidente nei paesi poveri, non stimolano la collaborazione del potere locale e il coinvolgimento diretto dei poveri, sono dannosi perché creano dipendenza. Divengono, infatti, un incentivo di quegli stessi meccanismi di dipendenza messi in atto dai sistemi assistenzialisti dei politici corrotti, che si servono di ciò per mantenere i poveri alle loro dipendenze. E allora ecco il paradosso: facendo la carità collaboriamo nel mantenimento di sistemi corrotti. La giornalista africana Dambisa Moyo, nel suo famoso libro: La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo (Rizzoli, 2009) sostiene, con una ricca documentazione che, chi ha devastato e impoverito l’Africa sono stati gli aiuti così detti umanitari. Tante donazioni umanitarie, sostiene la Moyo, vanno a finire nelle mani dei governi corrotti, incentivando in questo modo, i sistemi politici di corruzione. Questi aiuti hanno solo contribuito alla diffusione di uno stato di perenne dipendenza alimentando corruzione, violenza il cui obiettivo, sempre secondo l'autrice, non è aumentare la consapevolezza di ciò che provoca la fame e la povertà, ma "lisciare il pelo" all'emotività superficiale che porta all'elemosina. La Moyo critica anche gli accordi bilaterali che permettono trasferimenti miliardari o attraverso la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale. Sessant’anni di politiche finanziare scriteriate hanno inondato l’Africa di denaro creando una classe politica inefficiente e incompetente, abituata ad adagiarsi sul denaro facile proveniente dalle istituzioni Occidentali. Secondo la Moyo gli aiuti provenienti dai singoli stati occidentali o dalla longa manus del capitalismo occidentale hanno soffocato sul nascere la possibilità di favorire lo sviluppo agricolo o una classe di piccoli e medi imprenditori locali, diventando così gli aiuti stessi la principale causa della tragedia africana. 

Anche la giornalista keniota June Arunga, nel suo documentario "The Devil's Footpath”, aveva mostrato come all'origine del sottosviluppo vi sia la corruzione delle élites locali, l'opacità dei diritti di proprietà, l'assenza di ruleof law e l'abbondanza di barriere poste al libero operare dei mercati. Le cifre, sostiene il giornalista Waldemariam Abdé, le danno ragione, stando ai dati più recenti. Gli aiuti - che costituiscono il 15% del PIL nell'Africa subsahariana - anziché convergere in progetti di responsabilizzazione delle Istituzioni locali hanno troppo spesso finito per innescare uno sciagurato circolo vizioso: alimentano la corruzione, la deptocrazia, le guerre civili che rafforzano i regimi dispotici scoraggiano gli investimenti, inibiscono la classe imprenditoriale autoctona, incrementano l'inflazione e creano dipendenza e povertà, rendendo indispensabili ulteriori aiuti. Ogni anno l'Africa brucia 20 miliardi di dollari per rimborsare il debito estero e oltre 150 miliardi sono inghiottiti dalla dilagante corruzione. Come giustamente sostiene lo scrittore indiano Zakaria Fareed, nessun paese al mondo è mai riuscito a ridurre i livelli di povertà e a sostenere la crescita economica grazie agli aiuti.

 Tutto ciò avviene per il modo d’intendere la carità, così come si è formato nella cultura Occidentale, e cioè come un gesto che soddisfa principalmente il nostro egoismo, che mette a posto le nostre coscienze, più che un effettivo aiuto alle persone povere. È più facile, infatti, dare dei soldi a chi non si conosce e non si fa il minimo sforzo per conoscere, che mettersi in ascolto di colui o colei che chiede un aiuto. C’è una carità, che carità non è, perché invece di liberare l’uomo e la donna li rende e li mantiene nella schiavitù.  Ci sono degli aiuti umanitari, ci insegna Dambisa Moyo, che in realtà sono disumani, perché incentivano percorsi di disuguaglianza, mantengono i sistemi di corruzione, lasciano milioni di persone in situazione di estrema indigenza e tutto questo in nome della carità. Si potrebbe obiettare che chi dona dei soldi per i poveri spesso no sa dove vanno a finire. È proprio questo il problema. A cosa serve una carità che non s’interessa di colui che la riceve? A che cosa servono i sostegni a fantomatiche agenzie umanitarie che spesso e volentieri diventano complici dei governi corrotti, o che utilizzano la maggior parte delle donazioni per le spese interne? È necessario, allora, per noi cristiani, ritornare all’insegnamento di Gesù, sfogliare il Vangelo per ascoltare la sua Parola, cogliere quello che potremmo definire il suo metodo di approccio con i poveri, approccio che non umiliava, ma al contrario, animava le persone incontrate e le stimolava a sollevarsi dalla situazione d’indigenza nelle quali si trovavano.

sabato 17 maggio 2025

ANCHE NOI SIAMO SUE PECORE

 




La lettera di capitano Ibrahim Traoré, presidente della transizione, Burkina Faso a papa Leone XIV.

 

A Sua Santità Papa Roberto Francesco

Non le scrivo da un palazzo, né dalle comodità di ambasciate straniere, ma dal suolo della mia patria, la terra del Burkina Faso, dove la polvere si mescola al sangue dei nostri martiri e gli echi della rivoluzione sono più forti del ronzio dei droni stranieri sopra le nostre teste. Non le scrivo come un uomo in cerca di approvazione, né come uno invischiato in convenevoli diplomatici. Le scrivo come un figlio dell’Africa, audace, ferito, indomito. Ora lei è il padre spirituale di oltre un miliardo di anime, inclusi milioni qui in Africa. Lei eredita non solo una chiesa, ma una missione. E in questo momento di transizione, mentre il fumo bianco aleggia ancora sui tetti del Vaticano, devo inviare questa lettera attraverso mari e deserti, oltre guardie e cancellate, direttamente al suo cuore, perché la storia lo esige, perché la verità lo impone, perché l’Africa, ferita e in rivolta, ci sta guardando.

Santità, noi africani conosciamo il potere della croce. Conosciamo gli inni, le preghiere, le litanie. Abbiamo costruito chiese con mani callose e abbiamo difeso la nostra fede con il nostro sangue.

Ma conosciamo anche un’altra verità, una verità che troppi hanno preferito seppellire: che la Chiesa a volte ha camminato al fianco dei colonizzatori, che mentre i missionari pregavano per le nostre anime, i soldati profanavano le nostre terre, che mentre voi predecessori parlavate del cielo, i nostri antenati erano incatenati sulla terra. E anche ora, in questa cosiddetta era moderna, subiamo ancora le catene non del ferro, ma del silenzio. Dell’indifferenza di giochi geopolitici che si svolgono in sacre oscurità.

Quindi chiedo, in nome delle madri che pregano sui pavimenti di terra battuta e dei bambini che frequentano il catechismo a stomaco vuoto: il suo papato sarà diverso? Sarà lei il Papa che vede l’Africa non come una periferia, ma come il centro profetico? Sarà il Papa che non si limita a visitare le baraccopoli per fotoricordi, ma che osa parlare con rabbia contro le forze che rendono permanenti quelle baraccopoli? Vede, Santità, io sono un uomo forgiato dalla guerra, non dalla ricchezza. Non sono stato rovinato dalle istituzioni occidentali per uso politico. Non mi hanno insegnato la diplomazia a Parigi. Ho imparato la leadership in trincea, tra la gente, dove il dolore è maestro e la speranza è resistenza.

Guido una nazione che è stata emarginata dal mondo finché non ci siamo rifiutati di stare zitti. Ci è stato detto che eravamo troppo poveri per essere indipendenti, troppo deboli per essere sovrani, troppo instabili per resistere. Ma glielo dico con il tuono degli antenati nella voce: abbiamo smesso di chiedere il permesso di esistere. Abbiamo smesso di implorare validazione da parte dei poteri che sfruttano i nostri minerali mentre predicano la moralità. E abbiamo smesso, assolutamente smesso, di accettare che i leader spirituali globali distolgano lo sguardo dalle grida dell’Africa perché la politica è scomoda.

Santità, [non] parlo ora solo per il Burkina Faso, ma per un continente troppo a lungo dominato. L’Africa non è un continente da compatire, siamo un continente di profeti. Profeti che sono stati incarcerati, esiliati e assassinati per aver osato sfidare l’impero. E lei, ora che porta l’anello di San Pietro come simbolo, seguirà la via dei profeti? O sarà anche lei prigioniero della politica?

Non abbiamo bisogno di altre banalità. Non abbiamo bisogno di altri auguri e preghiere mentre le multinazionali occidentali estraggono uranio dal Niger, e oro dal Congo, sotto scorta armata. Non abbiamo bisogno di neutralità diplomatica mentre i giovani africani annegano nel Mediterraneo fuggendo da guerre cui essi non hanno dato inizio, con armi che essi non hanno fabbricato. Non abbiamo bisogno di dichiarazioni sdolcinate mentre la sovranità africana viene messa all’asta a porte chiuse a Bruxelles, Washington e Ginevra.



Ciò di cui abbiamo bisogno è un Papa che nomini l’Erode moderno, che tuoni contro gli imperi economici con la stessa audacia con cui la Chiesa un tempo tuonò contro il comunismo. Un Papa che dica senza indulgenze che è peccato per le nazioni trarre profitto dalla distruzione dell’Africa. Lei conosce gli insegnamenti di Cristo. Sa che Lui rovesciò i tavoli dei cambiavalute. Sa che Lui disse “Beati gli operatori di pace” ma non disse mai “Beati i pacifinti”. Quindi le chiedo personalmente: parlerà contro il silenzio della Francia e le sue operazioni segrete nel Sahel? Condannerà i traffici di armi che alimentano guerre per procura nei nostri deserti e nelle nostre foreste? Smaschererà l’avidità che si ammanta di carità? La diplomazia che maschera l’imperialismo con colloqui di pace, perché lo vediamo succedere, lo viviamo.

Sua Santità, non le chiedo di essere africano.

Le chiedo di essere umano, di essere morale, di essere coraggioso, perché il coraggio, il vero coraggio, non è benedire i potenti. E’ difendere i deboli pagandone il costo. Mi permetta di parlare chiaro. Il Vaticano possiede ricchezze inimmaginabili, arte senza prezzo, accesso oltre ogni confine. Ma il vero potere non si misura in tesori nascosti dietro mura di marmo, il vero potere si misura nel coraggio di affrontare l’ingiustizia. Anche quando si presenta vestito con un abito su misura, con credenziali diplomatiche e sorridendo nonostante i suoi peccati, Sua Santità, il mondo è sull’orlo del precipizio e l’Africa, questo continente martoriato e bellissimo, non si limita a guardare dal basso: ci stiamo sollevando.

Stiamo sanguinando, stiamo risalendo e osiamo porre domande che risuonano più forte del diritto canonico.

Dov’era la Chiesa quando i nostri presidenti sono stati rovesciati da mercenari spalleggiati dall’estero? Dov’era la Chiesa quando i nostri giovani sono stati rapiti e indottrinati in guerre finanziate da nazioni che pretendono di essere forze di pace? Dov’era la Chiesa quando le nostre valute sono crollate, quando il Fondo Monetario Internazionale ha soffocato le nostre economie? Quando i nostri leader sono stati puniti per aver scelto la sovranità anziché la sottomissione? Non ci dica di perdonare mentre la frusta è ancora nella mano del carnefice. Non ci dica di pregare mentre le nostre preghiere vengono ricambiate con attacchi di droni. Non parli di pace senza nominare i profittatori della guerra.  Perché il silenzio, Santità, non è più santo e la neutralità non è più nobile. Se lei deve essere il pastore di questo gregge globale, allora ascolti questo grido dalla polvere di Uagadugu.

Anche noi siamo sue pecore. Ma non pascoliamo in silenzio nei campi, marciamo per le strade, moriamo in prima linea. Risorgiamo dalle ceneri con il fuoco nelle ossa e le Scritture sulla lingua. Non chiediamo carità, esigiamo giustizia. E la giustizia deve iniziare dalla verità. La verità è che il cristianesimo in Africa è stato sia un balsamo che una spada. La verità è che la Chiesa ha nutrito i nostri spiriti senza riuscire a proteggere i nostri corpi. La verità è che la redenzione senza riconoscimento è una mezza verità e le mezze verità non hanno mai guarito le nazioni.

Santità, ora lei siede sulla cattedra di San Pietro. Ma ricordi, Pietro rinnegò Cristo tre volte prima che il gallo cantasse. Non permetta alla Storia di scrivere che la Chiesa ha rinnegato l’Africa ancora una volta. Faccia sì che il gallo canti forte e chiaro in Vaticano. Che svegli la coscienza di cardinali e re.

Che echeggi nei corridoi del potere, dove uomini in toga e uomini in uniforme barattano il silenzio con l’influenza. Che annunci una nuova alba, non solo per la Chiesa, ma per il mondo. Perché qui in Africa non temiamo le albe, le creiamo. Siamo figli e figlie di Sankara, Lumumba, Nkrumah e Biko. Portiamo le Scritture in una mano e l’onore, il ricordo dei rivoluzionari nell’altra. Abbiamo imparato a pregare e protestare con lo stesso respiro. E chiediamo: il suo papato camminerà con noi? Ci verrà lei incontro nel nostro dolore, non solo tra i banchi delle nostre chiese? Riconoscerà Dio nella nostra fame? Cristo nel nostro caos, lo Spirito Santo nelle nostre lotte?

Perché se non è questo il tempo, è quello di Giuda, e se la Chiesa continua a predicare la pace ignorando la macchina dell’oppressione, in quale Buona Novella ci resta da credere? Non lo dico con rabbia, ma con sacra urgenza. Siamo un popolo al crocevia tra profezia e politica, e il tempo dell’Africa non si sta avvicinando, è qui. Stiamo riscrivendo la narrazione, rimodellando il futuro, rivendicando la dignità che ci è stata negata da secoli di dominazione straniera e di manipolazione spirituale. E la Chiesa deve decidere da che parte stare: con i poteri forti qui, o con le persone che sanguinano.

Non scrivo questa lettera per condannare. La scrivo per invitarla, Santità, a una solidarietà più profonda, a una solidarietà che cammini a piedi nudi con i poveri, che osi dire la verità a Roma con la stessa audacia con cui lo fa in Ruanda, che ricordi i santi non solo per i miracoli, ma per il loro impegno per la giustizia.

Aspettiamo le vostre voci, non dai balconi, ma dalle trincee e dalle favelas. Dai campi profughi, da dietro le sbarre delle prigioni politiche dove la verità è incarcerata. Perché solo quella voce, la vostra voce, può riscattare il silenzio. E se oserete pronunciarla, non solo l’Africa vi ascolterà, ma il mondo intero.

Firmato: capitano Ibrahim Traoré, presidente della transizione, Burkina Faso, figlio dell’Africa, servitore della sovranità

venerdì 9 maggio 2025

L’EMOZIONE DI UN UOMO SOLO, GUIDA SPIRITUALE DEL MONDO

 




 

Paolo Cugini

 

Mi piace vedere il nuovo Papa così: montato su un asinello. Proprio come Gesù mentre entra in Gerusalemme. È una fotografia che dice del nuovo Papa molto di più che il suo curriculum accademico, o i compiti assunti nella Chiesa. C’è molta semplicità che traspare da quell’immagine e della quale noi tutti ne abbiamo estremamente bisogno.

È stata visibile la sua emozione quando si è presentato davanti al popolo. Si vedeva che faceva fatica a contenere l’emozione. C’è molta umanità in questi piccoli dettagli, ed è di questo che il popolo di Dio ha bisogno: di umanità. Una persona che si emoziona vuole dire che lascia spazio ai sentimenti, che nelle decisioni importanti non farà riferimento solamente alle connessioni razionali di causa ed effetto, ma ci sarà spazio per quello che proviene dal cuore e, in questo particolare frangente della storia, non è poco.

Il nuovo Papa avrà bisogno molto di questa sua umanità, per accompagnare un mondo devastato dagli odi e dalle guerre, dal disprezzo nei confronti delle masse di poveri da parte del ristretto gruppo di ricchi. Non saranno i suoi titoli di studio a fare la differenza come guida spirituale di questo mondo travagliato, ma la pazienza, la mansuetudine, la capacità empatica, la voglia di tessere un dialogo con tutti. Il fatto che abbia parlato di ponti da costruire è una bella indicazione di come intende accompagnare la Chiesa nelle dinamiche di un mondo conflittuale, che costruisce muri, respinge chi cerca una vita migliore, disprezza i poveri. La chiesa che costruisce ponti: mi sembra sia una bella immagine che dice tante cose piene di speranza.

C’è stato un momento, nei minuti in cui il nuovo Papa è stato annunciato al mondo, in cui si è crato un contrasto stridente. Da una parte le grida scomposte, quasi da stadio, da tifosi agguerriti della gente che era in piazza san Pietro, dall’altra il volto tirato di un uomo emozionato che, guardando quel popolo così caloroso, sente tutto il peso della responsabilità spirituale che gli è stata appena affidata. Forse, più che di grida e di tifo da stadio, che ricordano tanto l’entrata di Gesù in Gerusalemme, prima osannato e poi insultato, c’è bisogna di un po' di calma, di spiritualità dell’attesa, quel tipo di spiritualità che sa accompagnare in silenzio gli eventi della storia e della vita, cercando di non caricare troppo di aspettative colui che ha appena assunto un incarico così importante.

 

sabato 3 maggio 2025

SOTTO LO STESSO CIELO -VEGLIE DI PREGHIERA PER IL SUPERAMENTO DELL'OMOTRANSBIFOBIA

 



Anche quest’anno, nei giorni intorno al 17 maggio – Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia – i cristiani LGBTQ+, insieme a tante comunità cristiane in Italia e in Europa, accenderanno una luce nella notte. Attraverso veglie di preghiera ecumeniche e culti domenicali, si uniranno per dire: basta alla violenza, ai pregiudizi e all’odio verso chi è semplicemente se stesso.

Sotto lo stesso cielo, chiese cattoliche, valdesi, metodiste, battiste, luterane e molte altre si raccoglieranno insieme ai gruppi di cristiani LGBTQ+ in un momento di preghiera che si estenderà dall’Italia alla Spagna, fino a Malta. Saranno guidati dalle parole dell’apostolo Pietro: In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone” (Atti degli Apostoli 10,34-35)

Parole che ci ricordano che nessuno è escluso dall’amore di Dio. Ogni vita è degna, amata, voluta. Non esiste condizione, identità o orientamento che possa separarci dalla sua misericordia. Per questo, come credenti, non possiamo tacere.

Le veglie vogliono essere segni profetici, che testimoniano la possibilità di una Chiesa che sa farsi prossima, che ascolta, che consola. Una Chiesa che desidera diventare, sempre più, un santuario di accoglienza e sostegno verso le persone LGBTQ+ e verso chiunque subisca discriminazioni.

Anche quest’anno, la Commissione Fede, Genere e Sessualità delle chiese battiste, metodiste e valdesi, insieme alla REFO (Rete Evangelica Fede e Omosessualità), ha preparato una proposta di liturgia per le veglie. Il testo è disponibile anche in inglese per tutte le comunità che desiderano partecipare a questo tempo di preghiera, ascolto e speranza.

Durante le veglie che si terranno in Italia, sarà inoltre possibile ricevere gratuitamente copie del libretto TRANSLUCENZA. Storie di fede transgender, realizzato da La Tenda di Gionata. Il libretto raccoglie le testimonianze profonde e coraggiose di sette credenti transgender – storie di ferite e rinascite, di fede e identità. Per richiedere delle copie gratuite (inviate solo in Italia), scrivere a: tendadigionata@gmail.com

È il tempo di vegliare. Di camminare insieme. Di farsi luce. E tu, veglierai con noi?

  • Per scaricare la proposta di liturgia della Commissione Fede, Genere e Sessualità delle chiese BMV clicca qui.
  • Per scaricare bozze di manifesti e locandine da utilizzare per le veglie clicca qui.
  • Per informazioni visita www.gionata.org/inveglia/
  • Per segnalare una veglia o un culto domenicale, scrivi a: tendadigionata@gmail.com
  • Per l’elenco delle città dove si veglierà a maggio per il superamento dell’omotransbifobia (elenco in aggiornamento) clicca qui.

TEOLOGIA E CHIESA CONTAMINATE? CONSIDERAZIONI

 




Paolo Cugini


Vengono alla mente le parole di Keplero, quando nei diari descrive la sua difficoltà, che sfociava in disperazione, quando tentava di applicare i dati matematici di Tycho Brahe per descrivere la rotazione della terra in torno al sole. Non riusciva, per sua stessa ammissione, perché nella mente aveva l’idea aristotelica di perfezione, che si identificava la figura geometrica del cerchio. Fu grazie ad un’intuizione, dopo alcuni anni di duro lavoro, che pensò ad una nuova figura geometrica: l’ellisse. Da quel momento, i dati matematici cominciarono a combinare quasi alla perfezione. Del resto, ce lo diceva Thomas Khun che i paradigmi culturali non solo esigono tempi lunghi per strutturarsi, ma anche per cambiare e fare posto a nuovi modelli interpretativi. Raccogliere i dati che la scienza oggi ci fornisce rimanendo aperti a nuove possibilità e, soprattutto, non considerandoli come definitivi, è l’atteggiamento epistemologico fondamentale per non cadere nella trappola ideologica. Il mondo in espansione che la scienza ci consegna, esige la disponibilità a rimanere aperti alle novità, a non chiudersi in strutture ideologiche di pensiero come, invece, è avvenuto e continua ad avvenire. Abbandonare le comode istallazioni dogmatiche del pensiero che, con il tempo, tendono ad irrigidirsi, significa cogliere gli aspetti positivi del mondo interconnesso. C’è una prima indicazione metodologica che vale la pena considerare, ed è la capacità di lavorare assieme, a mettere in rete le competenze. È un’indicazione per la Chiesa, abituata a decidere da sola, a gestire le conoscenze come qualcosa di privato, da controllare come monopolio. Il cammino sinodale avviato da Papa Francesco, che riprende lo stile dialogico di Gesù messo in atto durante il Concilio Vaticano II, si trova sulla linea del mondo interconnesso, che esige la disponibilità al camminare insieme, a valorizzare le competenze di tutti, nella presa di coscienza che la verità, prima di essere un contenuto da possedere e difendere, è un dono che incontriamo nel cammino, soprattutto quando con umiltà ci poniamo accanto agli altri in questa ricerca. 

Per questi motivi mi sembra importante il concetto di contaminazione, da utilizzare nel contesto teologico ed ecclesiologico. In primo luogo, teologico. Riconoscere che lo Spirito è presente nella storia e soffia dove vuole, significa porsi nell’atteggiamento umile dell’ascolto. Solo così è possibile cogliere il dono improvviso di una verità che viene da altrove, che non è frutto della nostra cultura e della nostra elaborazione concettuale. È questo, a mio avviso, il cambiamento paradigmatico che la teologia è chiamata a compiere: non avere fretta di elaborare dottrine chiuse, ma aspettare con pazienza quei frammenti di verità che lo Spirito ha suscitato e sta suscitando nelle culture altre. Disponibilità alla sorpresa delle manifestazioni del Mistero richiede l’attenzione al tempo presente e, in questa prospettiva, il metodo fenomenologico può aiutare nella ricerca. Si tratta, allora, di imparare a pensare la verità non come concetto metafisico, strutturato in dinamiche logiche rigide, che lo rendono impermeabile a qualsiasi contatto culturale provocando, per questo, tensioni, incomprensioni, guerre. Il nuovo contesto culturale che recupera in modo positivo i dati della scienza, ci aiuta a pensare la verità come un “campo” aperto alle novità, che un mondo in espansione produce, sempre pronti ad integrare il discorso che le contaminazioni che provengono da ogni direzione. Verità come continua novità che incontriamo nel cammino della vita, riconoscibile dai significati che si trovano nella semente del Vangelo: amore, giustizia, bene, pace.

In secondo luogo, non deve essere considerato azzardato l’utilizzo del concetto di contaminazione in ambito ecclesiologico. Io penso che, proprio a questo livello, il mutamento paradigmatico non solo è più semplice da realizzare, ma è già in atto. È nelle piccole comunità che avvengo incontri non pianificanti con elementi che provengono da mondi religiosi differenti, come canti, riti, simboli, che la gerarchia non riesce a controllare, grazie a Dio. Non servono, dunque, citare quei rari esempi di contaminazione religiosa avvenuti nei secoli, come il caso di Matteo Ricci che, proprio per questo, è stato osteggiato dalla Chiesa. In questo cammino, l’esperienza ecclesiale amazzonica può essere una sorta di laboratorio, considerata la grande ricchezza culturale e religiosa che proviene da secoli di esperienza. Non è un caso che la Conferenza Ecclesiale dell’Amazzonia (CEAMA), da alcuni anni stia studiando l’elaborazione di un rito amazzonico, come frutto anche delle riflessioni emerse nel sinodo sull’Amazzonia. È nel vissuto quotidiano che è possibile scoprire sintonie di contenuti che provengono da altri cammini e cha hanno il sapore del Vangelo. È nelle comunità che le contaminazioni avvengono in modo spontaneo: basta solo lasciarle accadere.