Paolo
Cugini
C’è un dato di fatto importante che riguarda il modo del mondo Occidentale intervenire per aiutare i paesi più poveri. Infatti, progetti sociali realizzati nei paesi poveri, gestiti anche da entità legati alla Chiesa, sono marcati da una dipendenza radicale dai soldi che vengono da fuori, cioè dall’Occidente. Se i progetti sociali che sono messi in piedi dall’Occidente nei paesi poveri, non stimolano la collaborazione del potere locale e il coinvolgimento diretto dei poveri, sono dannosi perché creano dipendenza. Divengono, infatti, un incentivo di quegli stessi meccanismi di dipendenza messi in atto dai sistemi assistenzialisti dei politici corrotti, che si servono di ciò per mantenere i poveri alle loro dipendenze. E allora ecco il paradosso: facendo la carità collaboriamo nel mantenimento di sistemi corrotti. La giornalista africana Dambisa Moyo, nel suo famoso libro: La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo (Rizzoli, 2009) sostiene, con una ricca documentazione che, chi ha devastato e impoverito l’Africa sono stati gli aiuti così detti umanitari. Tante donazioni umanitarie, sostiene la Moyo, vanno a finire nelle mani dei governi corrotti, incentivando in questo modo, i sistemi politici di corruzione. Questi aiuti hanno solo contribuito alla diffusione di uno stato di perenne dipendenza alimentando corruzione, violenza il cui obiettivo, sempre secondo l'autrice, non è aumentare la consapevolezza di ciò che provoca la fame e la povertà, ma "lisciare il pelo" all'emotività superficiale che porta all'elemosina. La Moyo critica anche gli accordi bilaterali che permettono trasferimenti miliardari o attraverso la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale. Sessant’anni di politiche finanziare scriteriate hanno inondato l’Africa di denaro creando una classe politica inefficiente e incompetente, abituata ad adagiarsi sul denaro facile proveniente dalle istituzioni Occidentali. Secondo la Moyo gli aiuti provenienti dai singoli stati occidentali o dalla longa manus del capitalismo occidentale hanno soffocato sul nascere la possibilità di favorire lo sviluppo agricolo o una classe di piccoli e medi imprenditori locali, diventando così gli aiuti stessi la principale causa della tragedia africana.
Anche la giornalista keniota June Arunga, nel suo
documentario "The Devil's Footpath”, aveva mostrato come all'origine del sottosviluppo vi sia la
corruzione delle élites locali, l'opacità dei diritti di proprietà, l'assenza
di ruleof law e
l'abbondanza di barriere poste al libero operare dei mercati. Le cifre,
sostiene il giornalista Waldemariam Abdé,
le danno ragione, stando ai dati più recenti. Gli aiuti - che costituiscono il
15% del PIL nell'Africa subsahariana - anziché convergere in progetti di
responsabilizzazione delle Istituzioni locali hanno troppo spesso finito per
innescare uno sciagurato circolo vizioso: alimentano la corruzione, la
deptocrazia, le guerre civili che rafforzano i regimi dispotici scoraggiano
gli investimenti, inibiscono la classe imprenditoriale autoctona, incrementano
l'inflazione e creano dipendenza e povertà, rendendo indispensabili ulteriori
aiuti. Ogni anno l'Africa brucia 20 miliardi di dollari per rimborsare il
debito estero e oltre 150 miliardi sono inghiottiti dalla dilagante corruzione.
Come giustamente sostiene lo scrittore indiano Zakaria Fareed, nessun paese al mondo è mai riuscito a ridurre i
livelli di povertà e a sostenere la crescita economica grazie agli aiuti.
Tutto ciò avviene per il modo d’intendere la carità, così come si è formato nella cultura Occidentale, e cioè come un gesto che soddisfa principalmente il nostro egoismo, che mette a posto le nostre coscienze, più che un effettivo aiuto alle persone povere. È più facile, infatti, dare dei soldi a chi non si conosce e non si fa il minimo sforzo per conoscere, che mettersi in ascolto di colui o colei che chiede un aiuto. C’è una carità, che carità non è, perché invece di liberare l’uomo e la donna li rende e li mantiene nella schiavitù. Ci sono degli aiuti umanitari, ci insegna Dambisa Moyo, che in realtà sono disumani, perché incentivano percorsi di disuguaglianza, mantengono i sistemi di corruzione, lasciano milioni di persone in situazione di estrema indigenza e tutto questo in nome della carità. Si potrebbe obiettare che chi dona dei soldi per i poveri spesso no sa dove vanno a finire. È proprio questo il problema. A cosa serve una carità che non s’interessa di colui che la riceve? A che cosa servono i sostegni a fantomatiche agenzie umanitarie che spesso e volentieri diventano complici dei governi corrotti, o che utilizzano la maggior parte delle donazioni per le spese interne? È necessario, allora, per noi cristiani, ritornare all’insegnamento di Gesù, sfogliare il Vangelo per ascoltare la sua Parola, cogliere quello che potremmo definire il suo metodo di approccio con i poveri, approccio che non umiliava, ma al contrario, animava le persone incontrate e le stimolava a sollevarsi dalla situazione d’indigenza nelle quali si trovavano.