A CENT’ANNI DALLA MORTE DAL GRANDE
PENSATORE E POETA FRANCESE
Don Paolo Cugini
Ricorre
quest’anno il centenario della morte di Charles Péguy (Orleans 4 gennaio 1873 –
Marna 5 settembre 1914), poeta e filosofo francese, la cui opera ha influenzato
intere generazioni d’intellettuali. Il suo percorso spirituale fu piuttosto
travagliato. Abbandonata la fede negli anni dell’adolescenza perché non
ammetteva il dogma dell’inferno, la ritroverà a ventott’anni dopo un percorso
culturale che lo vede protagonista nel movimento socialista e in alcune
battaglie politiche piuttosto polemiche. Fonda infatti, agli inizi del
novecento prima una libreria e poi una rivista, Cahiers de la Quinzaine, che sono quaderni d’informazione e
dossiers relativi ai problemi e ai fatti del momento. Tra questi si possono
segnalare i Congressi Socialisti, L’Affaire Dreyfus e il problema della
separazione Chiesa - Stato. Se il primo gruppo dei Cahiers (1900-1905) può
considerarsi come relativo al periodo della creazione, dell’organizzazione
dell’impresa e della presa di coscienza dei problemi teorici e politici
essenziali, il secondo (1905-1909) segna un periodo di approfondimento e di
maturazione che condurrà alla tacita riscoperta della fede. In quest’atmosfera
Péguy sente e riscopre il senso degli Eroi, dei santi, della Patria francese.
Nel 1907 Charles Péguy si converte
al cattolicesimo. E così ritorna sul dramma dedicato Giovanna
d'Arco, che aveva iniziato a scrivere agli inizi del Novecento, cominciando
una febbrile riscrittura, la quale darà vita ad un vero e proprio
"mistero", come viene scritto nei "Cahiers" del 1909, e
questo nonostante il silenzio del pubblico il quale, dopo un breve e iniziale
interesse, sembra non gradire più di tanto l'opera dell'autore. Péguy però va
avanti. Scrive altri due "misteri": "Il Portico del mistero
della seconda virtù", datato 22 ottobre 1911, e "Il mistero dei Santi
Innocenti", del 24 marzo 1912. I libri non si vendono, gli abbonati della
rivista calano e il fondatore dei "Cahiers", si trova in difficoltà.
Inviso ai socialisti per la sua conversione, non fa breccia nemmeno nel cuore
dei cattolici, i quali gli rimproverano alcune scelte di vita sospette, come
quella di non aver battezzato i figli, per venire incontro ai voleri della
moglie. Nel 1912 il figlio minore
Pierre si ammala gravemente. Il padre fa il voto di andare in pellegrinaggio a
Chartres, in caso di guarigione. Questa arriva e Péguy compie un cammino di 144
chilometri in tre giorni, fino alla cattedrale di Chartres, in piena estate. È
la sua più grande dimostrazione di fede. Ormai scrittore cattolico affermato,
nel dicembre del 1913 scrive un poema enorme, che sconcerta pubblico e critica.
Si intitola "Eve", ed è composto da 7.644 versi. Quasi
contemporaneamente uno dei suoi saggi più polemici e brillanti vede la luce:
"Il denaro". Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale
Péguy si arruola volontario e il 5 settembre 1914, il primo giorno della famosa
e sanguinosa battaglia della Marna, muore colpito proprio al fronte.
Nell’opera di Péguy, oltre ad una critica
serrata al metodo moderno – siamo nel periodo nel quale scoppia in campo
cattolico la polemica sul modernismo - troviamo soprattutto interessanti
indicazioni di metodo per ascoltare la realtà, per valorizzare la pluralità.
Assieme all’analisi puntuale dei danni provocati dalla mentalità moderna
soprattutto all’interno della cultura francese – bellissime sono le pagine
sulla vita contadina nelle campagne francesi dell’Ottocento -, troviamo in
Péguy una lucidità intellettuale capace di mostrare con precisione le cause
delle faglie del metodo moderno. Gli anni successivi alla sua conversione
religiosa imprimeranno una profondità spirituale che lo condurranno a rileggere
la Sacra Scrittura con occhi nuovi, gli occhi appunto del metodo intuitivo
appreso da Bergson e messo a punto negli anni delle sue battaglie polemiche a
tutti i livelli con gli uomini di cultura del suo tempo. Affascinanti sono le
pagine che Péguy dedica alla riflessione sui vangeli. Come nelle pagine di
poesia e di prosa, anche in queste più specificamente spirituali o, per alcuni,
mistiche, Péguy riesce a scoprire novità di significati e di contenuti, analizzando
testi ascoltati da sempre e che in apparenza non avrebbero la possibilità di
dire nulla di nuovo. Se è vero che è importante ascoltare la realtà, senza
volerla anticipare con angusti sistemi di pensiero che rischiano costantemente
di reprimerla, lo stesso vale nel rapporto con la Sacra Scrittura. Troppe
volte, secondo Péguy, si è trattato la Scrittura come se fosse un pezzo di
materia freddo e distaccato, anticipandone il senso attraverso una griglia
concettuale. Ascoltare la Scrittura significa per Péguy anzitutto liberarla
dagli schemi freddi del metodo moderno, per seguirla pazientemente dove lei
vuole condurre il lettore, e cioè alla conversione del cuore. Questa relazione stretta tra filosofia e
religione, tra metodo intuitivo e poesia, è una delle caratteristiche
specifiche dell’opera di Péguy.
Non è possibile avvicinare un’opera
così profonda e allo stesso tempo così poliedrica, come è quella di Péguy,
esclusivamente per sottolineare eventuali simpatie o affinità di vedute. Simili
operazioni culturali rischiano non solo di decurtare l’integralità di un
messaggio, quanto soprattutto di distorcerne il senso autentico. Del resto,
Péguy sembra abituato a simili strumentalizzazioni. Se, infatti, si sfogliano
le pagine dei suoi biografi, lo si trova tratteggiato con le sfumature più
disparate: anarchico, socialista, comunista, rivoluzionario, reazionario,
cattolico, mistico. Dinnanzi ad una tale varietà di opinioni viene spontaneo
chiedersi chi sia realmente Péguy e quale sia in sostanza il suo messaggio. Per
questo motivo organizzare un convegno di studi nel centenario della morte potrà
servire non solo per conoscere e approfondire alcuni aspetti della sua opera, ma
soprattutto per verificarne la sua attualità.
C’è un aspetto dell’opera di Péguy che
è centrale e che può essere considerato il perno attorno al quale muove tutta
la sua produzione culturale ed è il modo d’intendere il tempo presente. E’ nel
presente, infatti, che Péguy individua il centro fondamentale a partire dal
quale è possibile cogliere la realtà. Tutto dipende da come lo si ascolta, da
come lo si percepisce o da come lo si modifica. Il presente è dunque il punto
nel quale si manifesta la realtà. Cogliere il presente significa afferrare il
nuovo, ciò che non era. E’ nell’immediatezza del tempo presente che occorre
situarsi pena l’esclusione subitanea dalla percezione della realtà. Per l’uomo
che vive nel tempo non vi sono a disposizione spazi illimitati, ma
semplicemente un punto, che per propria natura non può essere irrigidito, fissato,
solidificato. Il presente è mobile: è questa la consapevolezza che pone
all’uomo la necessità di non sfuggire questo punto prezioso, che è un punto
vitale, anzi è il punto vitale. Non c’è tempo da perdere: “Essere in anticipo,
essere in ritardo, quali inesattezze. Essere in orario è la sola esattezza”. La
mobilità quale caratteristica peculiare del tempo presente, non può che essere
descritta con termini plastici: elastico, libero, vivo, gratuito, fecondo.
Nel presente vi è la novità del
reale, una novità che è donata gratuitamente e che impone all’uomo, sorpreso da
un tale gesto, una ricomprensione. Il problema è che la vita nel presente è
inquietante, perché è il punto dal quale sgorgano le novità della realtà. La
caratteristica della mentalità moderna che si è sviluppata nel mondo
Occidentale, secondo Péguy, consiste nell’aver messo in atto una serie di
strategie per difendersi dalla mobilità e quindi dall’inquietudine che il
presente provoca. La prima di queste è l’utilizzo del passato poiché è fermo,
rigido e soprattutto lo si può osservare e schedare. L’uomo moderno ha imparato
a narcotizzare il presente trasformandolo (snaturandolo) in passato. Basta
trasferirsi mentalmente nel futuro e da quella piattaforma artificiale di
sicurezza osservare il presente come se fosse passato, che il gioco è fatto.
Quando il travisamento del tempo presente è in atto allora tutta la storia che
ne scaturisce ne subisce le conseguenze. Se, infatti, leghiamo il presente
allora tutto è legato. Se conserviamo libero il presente, soltanto allora le
altre libertà potranno essere risparmiate.
Il mondo moderno indurendo, legando
il presente, ha devitalizzato la realtà. La difficoltà di conoscere il presente
unita a quello che Péguy chiama il mostruoso bisogno della tranquillità, hanno
fatto sì che l’uomo non gusti la vita nella sua essenza. L’uomo ha smesso di
vivere perché non si trova più là dove la vita sgorga. L’uomo si è voluto
situare in un tempo artefatto, un tempo presente-passato che è un tempo di
morte. “E’ l’aridità del cuore e l’aridità della razza, che sono le due grandi
e spaventose invenzioni moderne, le due grandi forme moderne dell’annientamento
stesso del mondo”. Il fiume della realtà è stato dunque dirottato dal mondo
moderno in un canale. La forza, la dinamicità, l’impetuosità del presente è
stata placata. L’uomo moderno si illude di vivere nel fiume della realtà, della
vita, invece si trova ad essere nel canale dell’abitudine, della memoria, della
morte. Il mondo moderno vive nel tempo dell’abitudine. Il mondo moderno è come
un bosco morto e gli esseri che vi sono, vivono una realtà di morte. “La morte
di un essere è il suo riempirsi di abitudine, il suo riempirsi di memoria, cioè
il suo riempirsi di invecchiamento, cioè il suo riempirsi di sclerosi e di ogni
indurimento”. Possono sembrare quelle di Péguy delle mere elucubrazioni
intellettuali, ma in realtà non è così. Serviranno queste riflessioni sul tempo
presente per capire le difficoltà di tutta una generazione che si è abituata a
vivere nel passato, di abitudini, di pensieri precostituiti, a incontrare Il
Signore della storia, che si manifesta nell’oggi della nostra vita. Come disse
Gesù a Zaccheo: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”. Se, però, noi non
viviamo nell’oggi come facciamo ad incontrare Gesù che è vivo ed è presente
nell’oggi della storia?
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