La fatica di democratizzare le relazioni nella Chiesa
Paolo Cugini
Il processo sinodale della Chiesa, avviato da qualche anno da Papa Francesco, oltre ai tanti momenti positivi vissuti soprattutto all’interno dei partecipanti dei due Sinodi, ha mostrato alcune ferite che la Chiesa si trascina da anni, anzi da secoli. Si avverte una duplice fatica. La prima, riguarda la difficoltà di chi detiene il compito di guida della comunità e che fanno parte della così detta gerarchia ecclesiastica, di sentirsi parte della comunità e non separati da essa. L’altra fatica, riguarda il modo davvero imbarazzante con cui la Chiesa si muove nei confronti delle donne. In questo poche righe provo a dire qualcosa sulla prima fatica. Ancora oggi nella Chiesa, purtroppo, le dinamiche relazioni sono segnate da una profonda disuguaglianza, che minaccia dall’interno la bontà del cammino ecclesiale. Come si fa, infatti, ad andare avanti, a dar continuità ad un cammino che parte male, perché segnato dalla paura di lasciare le comunità ecclesiali più libere di esprimersi, più autonome e meno soggiogate da un’autorità che sembra venga da un altro pianeta, nel senso che non sembra appartenere al mondo reale?
Sarebbe tutto più facile e più logico se, coloro che nella Chiesa hanno il compito di guida pastorale, rimanessero in costante contatto con coloro che vivono il vissuto quotidiano nelle comunità. Quello che da anni si avverte nel cammino della Chiesa è una grande, a volte, enorme distanza tra le comunità ecclesiali e le loro guide, i pastori, i vescovi e, con essi, i documenti che vengono emanati. Questo aspetto è strano, perché deturpa il significato autentico del servizio che, nel senso evangelico, dovrebbe offrire chi è chiamato a svolgere un ruolo di guida nella comunità cristiana. Vengono sempre alla mente le parole di Papa Francesco quando, nell’Evangeli Gaudium, sosteneva il primato della realtà sull’idea. La sensazione che si ha, leggendo le relazioni che escono dalle fasi del Sinodo, è la difficoltà di ascoltare la realtà e, allo stesso tempo, la distanza della dottrina elaborata rispetto al vissuto quotidiano delle comunità. Si avverte una specie di distonia tra la vita e la dottrina, nel senso che, quest’ultima, non sembra in grado di leggere il vissuto e, per questo, a volte quello che viene scritto nei documenti ufficiali della Chiesa, stride in modo drammatico con il sentire del santo popolo di Dio, come direbbe sempre Papa Francesco. Da una parte, si percepisce la gioia della scoperta del Vangelo, della proposta sconvolgente di Gesù, che invita le comunità a mettersi con coraggio vicino ai poveri, agli esclusi della società, per pensare insieme cammini di giustizia e di pace, in questo mondo violento e aggressivo. In questi cammini comunitari, si percepisce la grande forza che lo Spirito del Concilio Vaticano II ha dato al cammino di tutta la Chiesa, facendone riscoprire la bellezza di essere il popolo di Dio, chiamato ad essere segno di contraddizione nel mondo. È a questo livello che si coglie l’idiosincrasia, il contrasto, che si manifesta nell’incapacità di accogliere come buono ciò che dalle comunità viene indicato come dato da ascoltare per elaborare, in seguito, una dottrina che sappia di “pecora”, per dirla sempre come Papa Francesco.
Del resto, non ci si può stupire di questa difficoltà nell’ascolto di chi vive nella base della comunità e di prendere sul serio le loro indicazioni. Da una parte, c’è stato nei secoli uno sviluppo spropositato del ministero petrino, che ha progressivamente distanziato la figura del Papa non solo dalla gente, ma anche e soprattutto, dall’origine. Il Vaticano II ha dovuto lavorare parecchio per tentare di sistemare un po' il disastro istituzionale venutosi a creare nel tempo. In primo luogo, ricollocando tutta la gerarchia all’interno del popolo di Dio, e non al di sopra. In secondo luogo, recuperando il compito dei vescovi all’interno del cammino ecclesiale, compito che, nei secoli, si era offuscato dietro ai riflettori puntati tutti sulla figura sempre più eccentrica e totalitaria del Papa. Infine, passo notevole del Concilio, è stato quello di parlare e valorizzare il laicato, mostrandone i carismi, il sacerdozio comune, la partecipazione al triplice munus profetico, regale e sacerdotale. È vero che, come afferma l’epistemologo Thomas Khun, le grandi rivoluzioni esigono per radicarsi, un bel po' di tempo, ma è altrettanto vero che l’impulso del cambiamento portato dal Vaticani II si è fatto sentire a vari livelli.
Siamo consapevoli che non bastano parole e frasi altisonanti, per sradicare una prassi che dura da secoli e ha passato molte stagioni. La prassi che fa prevalere la dottrina sulla coscienza personale, l’imposizione e la richiesta dell’obbedienza ossequiosa, più che lo stimolo allo sviluppo della libertà personale. Basterebbe sfogliare alcuni documenti ecclesiali o alcune encicliche del 1800 per capire il livello del problema. Sia la Mirari Vos di Grgorio XVI nel 1832, che il Sillabo di Pio IX nel 1864, solo per fare qualche esempio, condannavano la libertà di coscienza e la libertà di stampa. Sembra incredibile, ma c’è proprio scritto così in questi due documenti. Sono testi, comunque, che indicano la logica conseguenza di quelle proibizioni di leggere la Bibbia da parte dei laici nelle lingue vernacolari, emanate da Papa Pio IV nel 1564, a conclusione del Concilio di Trento. Proibizioni che rivelano il timore di una interpretazione individuale della Scrittura, di un’autonomia nei confronti del Testo Sacro, che possa risultare in contrasto con la lettura ufficiale della Chiesa. La paura nei confronti della libertà di coscienza è il sintomo di un sovvertimento radicale nei confronti della proposta di Gesù che, durante la sua vita pubblica, ha fatto di tutto per aiutare i suoi discepoli e discepole ad avere una visione critica sulla religione, a non fidarsi dei ciarlatani di turno, per cercare uno sguardo più autentico sulla realtà. Sappiamo che, questo clima di sfiducia nei confronti di un possibile modo individualista di leggere la Sacra Scrittura, fu incentivata dalla polemica con Lutero e con la sua affermazione del: sola Scriptura. In ogni modo, andando a ritroso nel tempo, scopriamo che le proibizioni nel leggere la Scrittura si trovano già nel VII secolo d. C., subito dopo il crollo dell’Impero Romano e la distruzione delle grandi biblioteche dell’Occidente cristiano. L’imbarbarimento culturale ha aperto la strada, da una parte all’espansione del devozionismo religioso e, dall’altra, di un’istituzionalizzazione della Chiesa in senso politico più che evangelico.
La paura dell’autonomia dei laici e delle comunità cristiane da parte della gerarchia ecclesiale, viene, dunque, da molto lontano e non si estirpa da un giorno all’altro. Questa paura indica l’incapacità di pensare ad un cammino ecclesiale che sappia valorizzare i carismi di tutti e tutte, come ci suggeriva san Paolo. Significa, anche, distanza infinita del progetto di Gesù di una comunità di discepoli e discepole uguali. Per questo motivo è importante stare molto attenti ai concetti che vengono proposti dalla gerarchia ecclesiale per indicare il cammino da intraprendere. Ho imparato, infatti, a sospettare di quei vescovi che parlano molto di comunione, ma che poi, nella pratica, intendono la comunione come una sottomissione alla loro volontà, e non come una condivisone di opinioni conforme al principio di uguaglianza. Del resto, conosciamo molto bene la storia del Sinodo straordinario dei vescovi a Roma nel 1985, che ha portato alla sostituzione dell’idea conciliare di Chiesa come popolo di Dio, con quella di Chiesa comunione. Nulla da ridire sulla bontà del concetto di comunione, che però funziona, ecclesialmente parlando, se mantenuto in relazione con quello di popolo di Dio. Il rischio, che poi si è avverato, consiste nel riportare dentro al dinamismo ecclesiastico in modo delicato dalla finestra, quell’autoritarismo clericale che il Concilio Vaticano II aveva decisamente messo fuori dalla porta.
Ripartire dal battesimo, come ci suggeriva il numero 32 della Lumen Gentium, è il dato importante da riprendere per costruire comunità in cui tutti e tutte si siedono attorno allo stesso tavolo con il diritto di parlare e di esprimere la propria opinione. Occorre fare di tutto per recuperare il dato fondamentale del principio di uguaglianza, che in molte comunità già si vive, ma che diventa complicato quando al tavolo si siede qualcuno che pensa di avere più diritti degli altri. Questa dissonanza, che spesso si traveste di prepotenza, rivela un cammino ecclesiale fatto di clericalismo, di autoritarismo senza alcun fondamento evangelico. Gesù aveva detto che tra noi discepoli e discepole lo stile è quello del servizio umile, della ricerca dell’ultimo posto e non del primo, come avviene nelle logiche del mondo. “Tra di voi non è così” (Mc 10,43). Democratizzare le relazioni dentro la Chiesa sarebbe un segno profetico di grande valore, in questo tempo segnato dalla nostalgia dei totalitarismi.