lunedì 3 novembre 2025

LA TEOLOGIA MARGINALE

 




Paolo Cugini

 

C’è una teologia che non cerca il palcoscenico, che non si affanna a ottenere riconoscimenti né si aggrappa al rigore dei grandi sistemi dottrinali. È la teologia marginale, quella che nasce nell’ombra, tra i sentieri polverosi della storia, dove la vita si misura con il peso dei giorni e il rumore sordo dei fallimenti quotidiani. Una teologia che respira l’odore acre della dimenticanza e si adagia dove il mondo volta lo sguardo, convinto che nulla di importante possa germogliare in quei luoghi trascurati.

Ma c’è molto da imparare sotto i ponti, tra le mani tremanti di chi non ha trovato rifugio, tra i corpi stanchi che cercano riparo nel vento della notte. Ci sono insegnamenti nascosti nella fame che morde ogni alba, in quei volti che affrontano la giornata senza la certezza di un pasto. In questi luoghi, la presenza del Mistero si rivela possente, quasi a voler smentire la presunzione delle grandi cattedre. Qui, tra le ombre delle favelas latinoamericane, il Mistero si fa carne nel quotidiano, si insinua tra la lotta per la vita e i soprusi dei trafficanti di droga che decidono il destino di intere generazioni.

Il teologo dei margini, colui che si ferma ad ascoltare il silenzio di queste strade, scopre un volto del Mistero che sfugge agli occhi di chi si rinchiude nei palazzi dei grandi centri teologici. C’è qualcosa di prodigioso nella vita dei poveri, una sapienza che non nasce dai libri ma dal contatto diretto con la sofferenza, la solidarietà e la resistenza quotidiana. È qui che si sperimenta la presenza del Mistero in modo viscerale, come un lampo che squarcia il buio della notte e illumina il senso profondo dell’esistere.

Se davvero, come narra il Vangelo, Gesù si è voluto identificare con gli ultimi, è segno che il percorso autentico verso la conoscenza del Mistero passa proprio attraverso questa solidarietà con chi vive ai margini. Vestiti strappati e sporchi, scarpe consumate, catapecchie al posto delle case, cibo che manca, lavoro che non c’è, giovani privati di ogni opportunità, anziani abbandonati: che cosa significa vivere il Mistero in queste condizioni? Dove si nasconde la luce tra le crepe della miseria?

Forse, sono proprio coloro che vivono nella marginalità a intuire il Mistero, perché esso si manifesta nella fragilità, nella precarietà, nella speranza che resiste contro ogni speranza. Eppure, leggendo queste parole, i miserabili della storia sorriderebbero amaramente e rilancerebbero la domanda: come possono coloro che abitano nei palazzi sontuosi, con i portafogli gonfi, percepire il Mistero? La risposta, la sanno già: impossibile. Perché il Mistero non si lascia catturare dall’abbondanza né si manifesta nell’autosufficienza, ma abita nella carne ferita del mondo, là dove la vita lotta per non soccombere.

Così, la teologia marginale, pur restando ai confini, custodisce un tesoro di verità troppo spesso ignorato. Essa ci ricorda che la vera conoscenza non si conquista dall’alto, ma si accoglie chinandosi, abbassandosi, condividendo il pane amaro dell’esistenza. In fondo, il Mistero abita dove il cuore si fa prossimo, dove l’uomo si fa fratello, la donna sorella, dove la povertà diventa grembo di luce e la marginalità si trasforma in luogo di rivelazione.

domenica 2 novembre 2025

Oltre i confini: una teologia dai margini

 




Paolo Cugini

 

 

Nella lunga storia della teologia cristiana, il tema dei confini ha sempre avuto un ruolo centrale. Si è discusso di limiti dottrinali, di paletti esistenziali e di barriere che dividono il “dentro” dal “fuori”, creando una sorta di recinto rassicurante per la fede e la comunità. Tuttavia, oggi più che mai, la Chiesa e ogni credente sono chiamati a ripensare questi confini, a interrogarsi su cosa significhi realmente vivere e fare teologia dai margini, partendo dagli ultimi, dagli esclusi, da coloro che abitano le periferie dell’esistenza.

Le tradizioni, le norme e i dogmi costituiscono i margini dottrinali, offrendo identità e sicurezza. Eppure, la fede non può essere una semplice difesa del già noto; necessita di apertura, di dialogo e di coraggio. Superare questi confini non significa rinnegare la propria fede, ma vivere la tensione tra radicamento e novità, tra fedeltà e cambiamento. È un percorso che richiede discernimento e disponibilità a confrontarsi con domande e inquietudini che arricchiscono la comunità e la spingono verso una maturazione continua.

Oltre ai margini dottrinali, esistono quelli esistenziali, forse ancora più sfidanti. Sono le periferie della vita, abitate da chi è escluso, emarginato, dimenticato. Fare teologia in questo contesto significa non limitarsi a parlare “di” chi sta ai margini, ma “con” e “tra” loro. L’incontro con le storie di chi vive l’esclusione diventa fonte di interrogativi profondi e di cambiamento. Come ricorda don Milani: “Sortirne da soli è l’egoismo, sortirne insieme è la politica.” La teologia dai margini è una teologia incarnata, che si sporca le mani e che si lascia interrogare, cambiare e rinnovare dall’altro.

Rileggere il Vangelo a partire dai margini significa scoprire una Buona Notizia che non si accontenta di confortare chi già sta bene. Il Vangelo, così reinterpretato, diventa voce di chi non ha voce, speranza per chi è disperato, pane per chi è affamato. Papa Francesco invita la Chiesa ad “avere l’odore delle pecore”: un’immagine potente che richiama la condivisione reale della vita di chi è ai margini. È in questo incontro che la fede si rinnova, la dottrina si apre e la comunità si rigenera, diventando segno autentico di un amore che non conosce barriere.

Oltrepassare i confini, siano essi dottrinali o esistenziali, comporta rischi e incertezze. Tuttavia, è proprio sui margini che la teologia riscopre la sua forza profetica e la sua autenticità. Solo abitando i margini, ascoltando e camminando insieme agli esclusi, la comunità cristiana può essere fermento di novità e segno di un amore che rompe ogni barriera. Ai confini, là dove la vita sembra interrompersi, si aprono nuovi orizzonti di speranza e di fede. Il futuro della teologia cristiana passa da un dialogo sincero con i margini: non solo ascoltandoli, ma vivendoli, attraversandoli e abitando le periferie del mondo e del cuore. È una sfida che interpella la Chiesa e ogni credente, invitando tutti a uscire dai recinti delle proprie sicurezze per incontrare il Vangelo nella sua forma più pura e radicale: quella che nasce e cresce ai margini, dove il cielo incontra il mare e si aprono nuove strade di senso e di salvezza.

venerdì 31 ottobre 2025

DECOLINIZZAZIONE E CRISTIANESIMO

 





Paolo Cugini

 

Il termine “decolonizzazione” evoca generalmente immagini di cambiamenti politici e culturali, la fine del dominio coloniale e la nascita di nuove identità nazionali. Tuttavia, la decolonizzazione è un processo ben più profondo e complesso, che tocca anche la sfera religiosa, e in particolare il cristianesimo. Esplorare come questo fenomeno abbia influenzato la fede, le pratiche e le istituzioni cristiane nelle ex-colonie permette di comprendere meglio le dinamiche di trasformazione che hanno attraversato le società post-coloniali. Nel senso più tradizionale, la decolonizzazione si riferisce all’acquisizione dell’indipendenza politica da parte dei territori colonizzati e alla ridefinizione delle proprie culture, lingue e tradizioni. I movimenti di liberazione hanno promosso la riscoperta delle radici indigene e la valorizzazione delle identità locali, spesso soppiantate o marginalizzate dall’imposizione dei modelli culturali europei.

Tuttavia, la cultura coloniale non si è limitata alla lingua, all’arte o alle istituzioni politiche: ha permeato anche il modo di pensare, di credere e di praticare la religione. In molte regioni dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe, il cristianesimo è arrivato insieme ai colonizzatori, diventando spesso strumento di controllo sociale e di assimilazione culturale. Il cristianesimo, nelle sue varie confessioni, è stato uno degli strumenti principali attraverso cui l’Europa ha diffuso i propri valori e la propria visione del mondo. Missionari e chiese hanno spesso accompagnato le imprese coloniali, promuovendo la conversione delle popolazioni locali e l’adozione di modelli religiosi e morali occidentali. In molti casi, le religioni autoctone sono state demonizzate, represse o sincretizzate con il cristianesimo, in un processo che ha alterato profondamente il tessuto spirituale delle comunità indigene. La religione, dunque, non è stata solo vittima della colonizzazione, ma anche protagonista attiva: il cristianesimo è stato al tempo stesso veicolo di oppressione e di speranza, capace di offrire sia giustificazioni per il dominio coloniale sia strumenti per la resistenza e l’emancipazione. Con la fine del colonialismo politico, molte comunità cristiane hanno avviato un processo di “decolonizzazione” della propria fede. Questo processo implica la rilettura critica della storia missionaria, il riconoscimento delle ingiustizie commesse e una maggiore valorizzazione delle tradizioni locali all’interno delle pratiche cristiane. In Africa, per esempio, sono nate teologie africane che reinterpretano il messaggio cristiano alla luce delle culture e delle esperienze indigene. In America Latina, la teologia della liberazione ha cercato di collegare il cristianesimo alle lotte sociali e politiche dei popoli oppressi. In Asia, le chiese hanno promosso modelli di spiritualità che integrano elementi delle religioni tradizionali.

Decolonizzare il cristianesimo significa anche affrontare le strutture di potere all’interno delle chiese, rivedere i rapporti tra centro e periferia, e promuovere una leadership più rappresentativa delle diversità culturali. Questo processo non è privo di difficoltà: le tensioni tra tradizione e innovazione, tra universalismo cristiano e particolarismi locali, sono ancora vive. Inoltre, la decolonizzazione religiosa si confronta con questioni globali come la migrazione, il pluralismo religioso e la crescente secolarizzazione, che mettono alla prova la capacità delle comunità cristiane di reinventarsi e di dialogare con il mondo contemporaneo. Il processo di decolonizzazione non si limita a cultura e politica, ma investe profondamente anche la religione e il cristianesimo. Riconoscere questa dimensione significa comprendere come la fede sia stata e continui a essere uno spazio di conflitto, di negoziazione e di rinascita. Solo attraverso un dialogo aperto e rispettoso tra le diverse tradizioni e una riflessione critica sulla propria storia, il cristianesimo potrà davvero contribuire alla costruzione di società più giuste, inclusive e libere dai retaggi coloniali.

giovedì 30 ottobre 2025

PROGETTO CRISTO RE - Una comunità di un quartiere caldo di Manaus

 

La cappella della comunità Crsito Re


 

Paolo Cugini

 

 

Ci stiamo preparando per i festeggiamenti della comunità di Cristo Re, una delle sette della parrocchia di San Vincenzo de Paoli, situata nel quartiere Compensa della città di Manaus nello Stato dell’Amazzonia. Compensa è uno dei quartieri più pericolosi, dominato dalla fazione Comando Vermelho (CV), lo stesso che in questi giorni ha sgominato il terrore a Rio de Janeiro. Per solidarizzare con i loro amici di Rio, quelli del CV di Manaus hanno pensato bene di seminare il panico nel quartiere Compensa. Alla sera, siccome i parrocchiani sapevano che stavo realizzando un incontro sul tema del Matrimonio nella comunità san Pietro, adiacente a Cristo Rei, tutte due situate nella zona più pericolosa della Compensa, mi hanno tempestato di messaggi per avvisarmi di ciò che stava avvenendo e pregandomi di arrivare al più presto in casa.

Il Comand Vermelho in azione nella Compensa il giorno degli eventi accaduti a Rio de Janeiro


Annunciare il Vangelo in questo contesto significa non abbassare la guardia di fronte alle ingiustizie, alla violenza esacerbata. Significa dare dignità al dolore, accompagnare i disperati, soccorrere gli indifesi e, soprattutto, mettersi continuamente e senza timore dalla parte dei diseredati, degli afflitti: in altre parole, dalla parte dove si è sempre messo Gesù.

Cristo Re è una comunità storicamente difficile, non solo perché è situata in un particolare contesto sociale, ma anche perché, vive e subisce una grande mobilità interna. I giovani appena possono, se ne vanno. Anche le giovani coppie vanno altrove, cercando lavoro in altri quartieri. Uno dei tanti esempi è Carol, una donna di 34 anni che, appena sposata (in realtà convive come la maggior parte delle coppie delle mie comunità), se n’è andata dall’altra parte della città. Nonostante ciò, ogni domenica si fa presente alla messa o alla celebrazione del mattino perché ha accettato di essere la responsabile della catechesi. Carol è figlia di Mozart (si chiama così, non è colpa mia) anche lui un leader di comunità responsabile della pastorale del Battesimo. E poi c’è Gustavo, di 32 anni, fratello di Carol, che fa il responsabile della comunità. Cristo re è una comunità composta prevalentemente da vecchi, bambini e da alcune famiglie storiche, che fanno il buono e il cattivo tempo nella comunità.

Una liturgia della Parola domenicale a Cristo Re


Cristo Re è sorta come tutte le comunità della Compensa, dalle invasioni dei terreni vicino al Rio Negro, da parte delle persone che provenivano dalle comunità sorte dall’altra parte del fiume. Invasioni di terreni significa costruire case dove c’è uno spazio, senza un piano regolatore, perché la regola la fa chi arriva prima sul posto. Tradotto nella vita concreta, ciò significa strade strette, case ammassate, senza impianto di fognatura e di raccolta del pattume. È stata questa la prima cosa che mi ha colpito una volta arrivato al quartiere  Compensa: la sporcizia, alla quale si aggiungono gli escrementi di cani e gatti.

Sotto la chiesa stiamo sistemando questi spazi per cui vi chiediamo di aiutarci 



Nella stradina stretta davanti alla chiesetta, Gustavo e i suoi collaboratori organizzano dei piccoli tornei di calcetto per i bambini con tanto di premi. Tutti i lunedì, la comunità organizza una zuppa per le tante persone bisognose della comunità. Le signore che preparano la zuppa è da mesi che mi chiedono la possibilità di costruire sotto la chiesa, delle stanze per mettere una cucina, dei tavoli con sedie per ospitare le persone in un luogo un po' più protetto. Con i soldi raccolti dalla vendita del mio libro e con una parte dei soldi raccolti nelle messe nei due mesi che sono stato in Italia, abbiamo iniziato i lavori che vorremmo finire per Natale. Chi vuole aiutarci può farlo consegnando il contributo ad un referente parrocchiale che poi farà in modo di invirarceli. Grazie.

mercoledì 29 ottobre 2025

DECOLONIZZAZIONE E IDENTITÁ

 




Paolo Cugini

 

Parlare di decolonizzazione non significa semplicemente affrontare una questione storica o politica: è piuttosto l’apertura di un processo profondo di liberazione, volto a recuperare quell’identità che è stata massacrata, distorta e spesso negata da chi ha invaso un mondo: il nostro. La decolonizzazione, dunque, è un atto di coraggio e di resistenza che mira a restituire dignità, voce e radici alle culture e ai popoli che hanno subito l’impatto violento della colonizzazione. La colonizzazione non è soltanto un evento storico, ma un fenomeno che ha lasciato cicatrici profonde nel tessuto sociale, culturale e psicologico delle società colonizzate. Le lingue, le tradizioni, le religioni e persino i sistemi di pensiero sono stati spesso sradicati e sostituiti da quelli degli invasori. È la memoria che la colonizzazione ha tentato di cancellare, imponendo un nuovo ordine e una nuova narrazione del mondo. Decolonizzare significa innanzitutto liberarsi dalle catene invisibili che continuano a influenzare il modo in cui vediamo noi stessi e il nostro passato. È un percorso che passa dalla riscoperta delle proprie radici, dal recupero delle tradizioni e dalla riconsiderazione dei valori originari. Non si tratta solo di rivendicare terre o autonomie politiche, ma di ricostruire l’identità collettiva, di riappropriarsi della propria storia e di rifiutare quella narrazione imposta dall’altro.

L’invasione e la dominazione coloniale hanno spesso comportato la perdita della lingua madre, la demonizzazione delle pratiche spirituali locali, la distruzione di sistemi educativi autoctoni e la marginalizzazione delle conoscenze tradizionali. Questo massacro identitario non si è limitato al passato, ma continua a riverberarsi nel presente, nelle discriminazioni, nei pregiudizi e nella difficoltà di molti popoli di riconoscersi pienamente. Recuperare il proprio mondo significa ricostruire ciò che è stato distrutto, ritrovare il senso di appartenenza e di comunità. È un processo che coinvolge la cultura, l’arte, la letteratura e la spiritualità, e che si manifesta nel desiderio di raccontare la propria storia con le proprie parole. Il processo di decolonizzazione serve a evitare questa perdita, restituendo valore e dignità alle radici. Nel mondo contemporaneo, la decolonizzazione non riguarda solo i paesi che hanno subito la dominazione coloniale, ma anche la necessità di rivedere le strutture di potere, i modelli educativi e i rapporti culturali che ancora perpetuano logiche di subordinazione. L’educazione decoloniale, il recupero delle lingue indigene, la valorizzazione delle pratiche artistiche tradizionali sono tutti strumenti di questo processo. È una sfida che richiede impegno, consapevolezza e, soprattutto, la volontà di ascoltare le voci di chi ha subito la colonizzazione.

Parlare di decolonizzazione significa, dunque, aprire un dialogo profondo con il passato e con il futuro, significa riconoscere le ferite inflitte e lavorare per sanarle, significa restituire dignità e libertà a chi l’ha persa. È un processo che riguarda tutti noi, perché solo recuperando la nostra identità potremo davvero costruire un mondo più giusto e rispettoso delle differenze. Non lasciamo che la nostra storia, la nostra cultura e la nostra identità vadano perdute. Decolonizzare è, oggi più che mai, un atto di rinascita.

sabato 25 ottobre 2025

CONTAMINAZIONE CULTURALE IN UN MONDO INTERCONNESSO

 



 

Paolo Cugini

 

 

 

Quali sono le conseguenze del nuovo paradigma culturale che ha, come caratteristica principale, la rottura con il modello passato? Se cambia il paradigma, deve allo stesso tempo cambiare anche il modo di approcciarsi alla realtà, perché è proprio questo che è stato messo in discussione. In occidente veniamo da un percorso culturale fatto di durezza, di una ragione e una razionalità che non lasciano spazio non solo all’immaginazione, ma anche ai sentimenti, alle passioni, a tutto ciò che caratterizza il nostro vissuto quotidiano. C’è stato nei secoli un’esasperazione del principio di razionalità che ha prevalso su tutto, anestetizzando la realtà, rendendola insensibile, incapace di approcciare la realtà in una forma diversa che non fosse la ragione. C’è una passione dentro la storia, nelle nostre vene; c’è un sentimento profondo che sente la vita in un modo diverso da un ragionamento. La natura ha un cuore, che sente la vita con criteri che sfuggono ai sistemi logici e dialettici elaborati nella modernità. Per questo tutto è saltato. La natura è paziente, tranquilla, ma ad un certo punto di ribella alle violenze, ai soprusi, alle violazioni, alle falsificazioni. Stiamo assistendo alla ribellione della natura: non ne può più. Bisognava aspettare la distruzione del pianeta per accorgerci che c’era qualcosa nel nostro modo occidentale di approcciarci alla realtà non funzionava? Se i sistemi concettuali crollano, con loro si spezzano i procedimenti logici chiusi, le muraglie concettuali costruite su misura per difendersi dalla natura e dalla realtà. Se non ci sono più padiglioni concettuali e sistemi di protezione ciò significa che il campo è aperto, che c’è spazio per tutto, che il mondo, da adesso in puoi, per creare quelle relazioni di cui è strutturato. È a questo livello di comprensione che entra in gioco nel nuovo paradigma culturale, il concetto di contaminazione.

Utilizzo il concetto di contaminazione in modo esclusivamente positivo. Anche questa è già un’indicazione importante. L’uscita dal paradigma della modernità, che poneva la ragione e il soggetto al centro assoluto del discorso, presenta l’uomo come parte di un tutto. Il pensiero occidentale, che si è consolidato nell’epoca moderna, ha sempre posto l’uomo al centro di un mondo in cui tutto ruota attorno a lui e può usufruire di tutto. Questo mondo si è spezzato, non ha retto l’impatto con la realtà che, come ci insegna la fisica quantica, è tutto interconnesso, l’esatto contrario di come pensava il mondo il paradigma moderno. Abituati da secoli a classificare la realtà, a porre dei confini, a giudicare chi era degno e chi no, ci siamo trovati spiazzati quando la realtà ci ha presentato il conto, comunicandoci che tutto è interconnesso, che la relazione è il concetto chiave per chi voglia comprendere il senso delle cose. Se tutto è in relazione con tutto, significa che non ha più senso elaborare sistemi perfetti, che non hanno alcun riferimento reale, ma che servono solo a giustificare concettualmente prese di posizioni personali, spesso e volentieri per giustificare usurpazioni e potere politico.

Contaminazione è un concetto allo stesso tempo affascinante e pericoloso. Affascinante perché ci conduce in dimensioni inaspettate, nuove che richiedono la disponibilità a lasciarsi mettere in discussione. Entrare nei mondi contaminati per lasciarsi contaminare significa aver compreso che, nel nuovo paradigma culturale, l’identità non è più un concetto che si costruisce su valori predeterminati, ma si forma camminando nel tempo, attenti a dove si mettono i piedi, ma sempre con lo sguardo proteso in avanti e con l’animo disposto all’incontro, alla relazione. Allo stesso tempo, però, il concetto di contaminazione è pericoloso perché mette a soqquadro tutto ciò su cui ci si era fissati e che aveva determinato la struttura del proprio mondo. È pericoloso perché esige l’abbandono delle sicurezze concettuali, assiema alla disponibilità non solo di costruire qualcosa di nuovo, ma di lasciarsi decostruire. Il concetto di contaminazione nei vari campi del sapere non può essere messo in atto in un paradigma moderno, chiuso nei propri sistemi costruiti con principi a priori. Soprattutto, però, il concetto di contaminazione non funziona in contesti in cui qualcuno pensa di avere la verità in tasca. La contaminazione ci pone in cammino alla scoperta di mondi nuovi e, mentre li scopriamo, capiamo noi stessi.

giovedì 23 ottobre 2025

PENSARE IL NUOVO PARADIGMA

 





Paolo Cugini

Sono ormai decenni che si parla di cultura postmoderna e di un mondo in cambiamento. Molti settori della cultura vengono definiti con il prefisso: post. C’è la percezione di un mondo dal quale si ha fretta a prendere le distanze, lo si vuole lasciar perdere. Le nuove generazioni nascono senza voler troppo sapere ciò che c’era prima, perché immerse nel qui ed ora, ma soprattutto nei mondi paralleli che le nuove tecnologie offrono. Comprendere il nostro mondo è un punto di partenza importante per imparare ad abitarlo in modo cosciente. Questo livello essenziale di comprensione della realtà non è semplice. Un aspetto che differenzia il nuovo contesto culturale con il vecchio è proprio questo dato. Siamo entrati in un mondo che è così complesso da rendere difficile una sintesi. Al contrario, il mondo moderno si caratterizzava per la semplicità del paradigma. Tutto, infatti, era riportato al soggetto, alla possibilità di descrivere ogni aspetto del sapere e della conoscenza in modo razionale, intellegibile. C’erano dei punti fermi nella modernità, che rendevano il dibattitto culturale possibile e comprensibile, perché le varianti in gioco erano conosciute da tutti. Oltre a ciò, la vita quotidiana era segnata da ritmi regolari, in cui religione, politica, giustizia e morale avevano un proprio spazio riconosciuto dalle altre forze in campo. Tutto sembrava armonico.

Eppure, nonostante le apparenze, tutto è crollato. La crisi ecologica che diviene sempre più evidente giorno dopo giorno e che preoccupa per i segnali di non ritorno che sta dando, è sotto gli occhi di tutti. La costante crisi economica su scala mondiale è il chiaro segnale che il sistema economico elaborato dalla modernità non era poi così efficiente. La crisi politica delle democrazie, che fanno fatica ad assorbire il costante dislivello delle classi sociali e l’aumento delle povertà, sta producendo il ritorno dei movimenti di estrema destra in tutto il mondo. Che dire poi della crisi che il cristianesimo sta vivendo, la religione che per secoli si è identificata con il mondo occidentale, elaborando magnifiche cattedrali, protagonista di ogni forma di intervento sociale creando scuole, università ospedali, sembra arrivato al capolinea. Sembra che in gioco ci sia proprio il modo di pensare tipicamente moderno, un modo che, cercando la perfezione, si è spesso dimenticato di includere la realtà e, con essa, la natura ogni volta che ha preteso di sistematizzare in uno schema il mondo ipotizzato. A mio avviso è questo metodo con il paradigma conseguente che è andato in crisi in modo definitivo. È la realtà che ha risposto ai sistemi elaborati nella modernità con un’invocazione sottesa: la ragione non può permettersi di ignorare la realtà. C’è dunque una razionalità che è sotto accusa, perché è la causa dei disastri a tutti i livelli che il mondo attuale sta assistendo. Il prefisso “post”, che troviamo oggi in varie dominazioni culturali, significa soprattutto la netta presa di distanza con quel modo di ragionare che sta portando al collasso il cosmo. Quella, dunque, che potremmo denominare la cultura del dopo, ha come significato sotteso la ricerca di una razionalità che sappia dialogare con la realtà e, soprattutto che non la inventi, creano mondi distopici, irreali, insensati. La cultura del dopo si trova, dunque, dinanzi un grande compito, quello di riscrivere i contenuti che guidano il vissuto quotidiano. La nuova razionalità ha come dovere fondamentale di mettersi in ascolto della realtà e, per questo, non può che entrare in contatto con la scienza, con ciò che coloro che ogni giorno sono in relazione con la natura, con il cosmo, con i micro e macrorganismo che osservano, comprendono, analizzano. È un cambiamento di paradigma fondamentale, che esige la disponibilità ad abbandonare per sempre quei metodi che sono alla base della distruzione del pianeta e delle culture.

I cambiamenti portano novità. Ciò vale, soprattutto, quando ci troviamo immersi in un cambiamento paradigmatico, come nel nostro caso. Cambiamento di paradigma significa cambiamento di mentalità, di modo di pensare, di valutare le cose. Non è facile assimilare il nuovo, perché richiede la disponibilità ad abbandonare il vecchio, a considerare sorpassati i modi di approccio alla realtà adottati per tanto tempo. Ci può convincere l’evidenza contundente sia del crollo sistematico del mondo che era, sia la forza travolgente del nuovo che avanza. La tentazione di chiudersi in se stessi, di fare finta che non stia accadendo nulla, mettere la testa sotto la sabbia non serve a nulla. Prima o poi occorre fare i conti con il nuovo che avanza a ritmi impressionanti. Sono nuovi criteri che sono entrati in gioco e che continuano ad entrare a causa della grande rapidità dei cambiamenti in atto. Proprio quello della rapidità è una delle caratteristiche peculiari del nuovo paradigma culturale in continua formazione. Rapidità significa, da una parte, la difficoltà di accompagnare i cambiamenti mentre, dall’altra, la grande capacità di adattamento alle nuove situazioni che vengono a crearsi. Si è, così, passati da un modo di vivere basato su valori che sembravano eterni, ad un modo di stare al mondo che dipende dagli eventi del tempo presente. Il dato della rapidità dei cambiamenti in atto pone l’attenzione sulla razionalità da attivare. Abituati nella modernità a tempi lenti, per certi aspetti eterni, nel senso che i punti di riferimento culturale non cambiavano mai, diventa difficile adattarsi ai nuovi ritmi di cambiamento.

Ci si può chiedere se per essere attuali sia necessario essere in grado di utilizzare tutto ciò che il nuovo quadro culturale offre. In fin dei conti, l’identità personale da cosa dipende? La risposta a questa semplice domanda rivela già il livello di cambiamento in atto. Se diciamo, infatti, che l’identità di una persona, il suo posto nella società e, dunque il suo valore, dipende da un riferimento ideale di valori che orientano il vivere comune, ci poniamo immediatamente nella ziona del “pre”, di ciò che era e che non è più. Una caratteristica di ciò che stiamo vivendo è la totale irrilevanza dei criteri assoluti, che hanno orientato il mondo occidentale per molti secoli. La ricerca del fondamento, caratteristico della metafisica classica, ricerca importante non solo nel mondo filosofico, ma anche religioso, non è più un bisogno avvertito dalle nuove generazioni. Ciò che oggi è importante e che dà valore all’identità personale è l’immagine, la visibilità. È attuale chi è visibile. Si prendono sempre più decisioni sia personali che collettive a partire dalle opinioni incontrate nelle piattaforme mediatiche. Vale ciò che pensano gli altri. Che poi si tratti di una massa manipolata, è un altro discorso. Entrare in questo mondo significa apprendere a navigare sulla debolezza di un pensiero che non cerca profondità, ma solo di convincere. 

Per chi viene da una formazione filosofica e religiosa l’attuale contesto culturale è preoccupante. Una cultura che si fonda sull’immagine è fragile e debole e spinge ad un continuo cambiamento senza fondamento. Anche la ragione diviene strumento non per orientare delle scelte coerenti, ma a servizio di una logia della persuasione che non crea futuro, ma solo la capacità di abitare tanti mondi diversi a volte contemporaneamente. 

martedì 14 ottobre 2025

AMORE E PROFEZIA

 



l’insolubile legame Che Trasforma il Mondo

 

Paolo Cugini

In un’epoca in cui spesso ci si ferma alle apparenze e le relazioni rischiano di diventare superficiali, accostare le parole amore e profezia può sembrare quasi un ossimoro. Eppure, queste due dimensioni sono unite da un vincolo profondo e inscindibile: solo chi ama davvero riesce a vedere oltre ciò che è immediatamente visibile agli occhi. L’amore, infatti, non si limita a sentimenti passeggeri o a emozioni effimere, ma diventa una forza capace di penetrare le tenebre e di percepire la luce, anche quando tutto sembra buio.

Amore e profezia. Sembra strano, ma è un binomio strettissimo. Solo chi ama riesce a vedere oltre l’apparenza. Amare non significa accettare passivamente ciò che ci circonda, ma saper scorgere i segni nascosti di speranza e cambiamento anche nei momenti più difficili. L’amore autentico ci rende capaci di ascoltare il cuore della realtà e di riconoscere la promessa dell’aurora anche nell’oscurità più profonda. Solo chi ama profondamente desidera una giustizia che vada oltre il proprio interesse personale. Solo chi ama desidera la giustizia, perché non sopporta le disuguaglianze e grida contro ogni forma di sopruso. L’indifferenza è il vero nemico della profezia: chi ama non può voltarsi dall’altra parte di fronte all’ingiustizia, ma diventa voce che denuncia e braccia che costruiscono. Amare significa anche non tacere di fronte al male, ma prendere posizione, rischiare, impegnarsi in prima persona.

Questi sono i tratti del profeta, che viene da una profonda esperienza d’amore, dalla ricerca quotidiana del volto del mistero che intravede nella storia. Il profeta non è un visionario isolato o un semplice predicatore, ma una persona che, attraverso l’amore, si mette in ascolto del Mistero che abita la realtà. È la passione per il bene e la ricerca costante di senso che lo spinge a leggere la storia con occhi nuovi e a intravedere possibilità laddove gli altri vedono solo limiti. È il profeta, che è l’uomo o la donna dell’amore profondo del Mistero, ad essere portatore di pace, costruttore di ponti, lavoratore instancabile per costruire alleanze.  In un tempo segnato da divisioni, diffidenze e conflitti, il profeta è colui che sa abbattere i muri e gettare ponti tra le persone. La sua è un’opera silenziosa ma straordinaria: cerca la pace, semina speranza, costruisce alleanze durature perché radicate nell’autenticità dell’amore.

In un mondo che ha bisogno di profeti, ognuno di noi può scegliere di amare con profondità, guardando oltre le apparenze e impegnandosi per una giustizia vera e una pace possibile. La profezia, allora, non sarà solo parola, ma vita vissuta, testimonianza concreta che un altro mondo è possibile quando l’amore diventa la nostra luce guida.

domenica 12 ottobre 2025

UNIFORMITA’ E DIFFERENZA

 


 

Paolo Cugini

 

 

In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, il tema della differenza acquista un ruolo centrale nella riflessione educativa, sociale e culturale. Accompagnare la differenza significa accettare e valorizzare l’unicità di ogni individuo senza cadere nella facile tentazione di uniformare, di appiattire le diversità in nome di un’apparente armonia comune. Questa sfida, tutt’altro che semplice, rappresenta uno degli snodi fondamentali per la costruzione di una società più inclusiva e giusta. Quando si parla di accompagnare la differenza, si fa riferimento all’atteggiamento di apertura, ascolto e rispetto nei confronti dell’altro, sia esso portatore di una cultura, una visione del mondo, una religione o uno stile di vita differente dal proprio. In ambito educativo, questa responsabilità si traduce nella capacità di insegnanti, genitori e formatori di offrire strumenti per la crescita personale, senza forzare modelli precostituiti o ricette universali. Non esiste una sola strada per diventare buoni cittadini; ognuno porta con sé un patrimonio irripetibile di esperienze, emozioni e talenti.

La tentazione dell’uniformità nasce spesso dal desiderio di semplicità, di ordine e prevedibilità. È più facile gestire un gruppo omogeneo, dove le regole valgono per tutti nello stesso modo e le differenze vengono ridotte al minimo. L’uniformità, se portata all’estremo, rischia di soffocare la creatività, l’innovazione e, soprattutto, il diritto di ciascuno a essere se stesso. Accogliere la differenza non significa limitarsi a tollerarla, ma saperla valorizzare come fonte di arricchimento collettivo. In Italia, così come in molte altre realtà europee, si sta lentamente affermando una cultura del pluralismo che punta sull’inclusione e sulla partecipazione attiva di tutti i cittadini, senza distinzioni di origine, genere, orientamento o abilità.

Ascolto attivo: Mettersi in ascolto profondo dell’altro significa riconoscere le sue esigenze, le sue paure e le sue aspirazioni, senza giudicare né etichettare. Educazione alla complessità: Aiutare le nuove generazioni a orientarsi in un mondo complesso e mutevole permette di costruire ponti, non muri. Flessibilità e personalizzazione: Adattare le proposte formative e lavorative alle caratteristiche di ciascuno, senza costringerli dentro schemi rigidi, favorisce lo sviluppo autentico delle potenzialità individuali. Promozione del dialogo interculturale: Il confronto tra culture, lingue e tradizioni diverse contribuisce a superare stereotipi e pregiudizi, creando un clima di reciproca fiducia.

Accompagnare la differenza senza cedere all’uniformità è un esercizio quotidiano che richiede consapevolezza, competenza e una buona dose di umiltà. Solo così potremo costruire una società in cui la diversità non sia motivo di esclusione, ma motore di crescita comune. Il futuro appartiene a chi sa cogliere la bellezza della differenza e farne un valore condiviso.

sabato 4 ottobre 2025

LA TEOLOGIA DAL BASSO CAMMINO PER UNA TEOLOGIA CONTAMINATA

 



 

Paolo Cugini

 

Nel panorama contemporaneo della riflessione teologica, si fa sempre più strada il bisogno di una teologia che sappia mettersi in ascolto della realtà, una teologia dal basso capace di cogliere l’azione dello Spirito Santo dentro la storia concreta. Questa prospettiva si pone come alternativa vivace alla teologia occidentale di tipo deduttivo, che spesso formula dogmi partendo da concetti astratti, rischiando di perdere il contatto con il vissuto delle persone e con ciò che lo Spirito Santo prepara nel quotidiano. La teologia dal basso nasce dall’esperienza, dall’incontro con l’altro, dall’ascolto delle domande che emergono dalle pieghe della storia e dalle ferite dell’umanità. In questo approccio, la riflessione non parte da principi universali astratti, ma dalla concretezza della vita, dalle storie di uomini e donne che cercano senso e salvezza. “La realtà supera l’idea”, direbbe Papa Francesco, richiamando l’esigenza di non chiudersi in schemi statici ma di lasciarsi interpellare dalla storia.

Questa apertura alla realtà non è solo metodo, ma anche contenuto: è qui che lo Spirito Santo agisce, trasforma, prepara cammini nuovi. La teologia dal basso diventa così, una teologia contaminata, cioè capace di lasciarsi interpellare e modificare dal contatto con la vita reale, dalle culture, dai cambiamenti sociali, dalle sofferenze e dalle speranze dei popoli. La teologia occidentale, soprattutto nella sua forma più deduttiva, ha spesso privilegiato la formulazione di dogmi a partire da concetti astratti, talvolta estraniandosi dal contesto storico e dalla realtà vissuta. Questo metodo, che affonda le radici nella filosofia greca e nella scolastica medievale, ha certamente garantito la coerenza e la profondità del pensiero cristiano, ma rischia di diventare autoreferenziale. Il pericolo è quello di una teologia in vitro, che analizza la fede come oggetto da laboratorio, senza lasciarsi contaminare dalla vita, ma anzi, difendendosi da essa.  In questo modo, la riflessione teologica può perdere la sua forza profetica e il suo dinamismo, non riuscendo a cogliere ciò che lo Spirito Santo sta preparando nella storia attraverso le novità, le crisi, le sfide e le trasformazioni. Questo è forse, uno dei problemi più evidenti nel dibattito teologico contemporaneo, in cui è palese l’incapacità della teologia ufficiale e del Magistero ecclesiale di dialogare con i temi che il vissuto quotidiano evidenzia come urgenti. Una teologia che si difende dalla vita, per proteggere i propri principi assoluti, ritenuti innegoziabili, è destinata a rimanere fuori dai giochi della vita reale e, alla distanza, ad essere ignorata nel dibattitto che cerca soluzioni ai problemi esistenziali.

Al contrario, una teologia contaminata è una teologia che accetta il rischio dell’incontro, dell’incarnazione, della mescolanza. Non teme di sporcarsi le mani nella storia, di confrontarsi con ciò che è nuovo, diverso, imprevisto. È una teologia che riconosce che lo Spirito Santo non agisce solo nei luoghi istituzionali o nei dogmi consolidati, ma anche e, soprattutto, nelle periferie, nelle domande scomode, nei cambiamenti sociali, nelle lotte per la giustizia. Questa prospettiva richiama il modello biblico, dove Dio si rivela nella storia concreta di un popolo, attraverso vicende spesso segnate dal dolore e dalla speranza. La teologia dal basso, contaminata dalla realtà, diventa allora un luogo di discernimento, di ascolto, di creatività, capace di generare nuove sintesi e nuove vie per la fede. È nei cammini della storia che il teologo dovrebbe trovarsi, per porsi in ascolto, ed elaborare una teologia che sa di terra e acqua, di vita vissuta e non di puzza di libri e scaffali. In un mondo in rapido cambiamento, la teologia non può accontentarsi di ripetere formule astratte, ma deve mettersi in ascolto della realtà, lasciandosi contaminare dalla storia e dalle domande che emergono dal vissuto quotidiano. Solo così potrà cogliere davvero l’azione dello Spirito Santo, che continua a preparare cammini nuovi per la Chiesa e per l’umanità. La teologia dal basso invita a lasciare le rive sicure dell’astrazione per navigare nel mare aperto della vita, dove lo Spirito soffia e rinnova ogni cosa.

 

 

giovedì 2 ottobre 2025

Pirati, traffico e garimpo: un fiume sulla rotta del crimine al confine dell’Amazzonia

 

Santo Antonio do Iça in un giorno di festa



Articolo di: Bruno Abbud

Traduzione: Paolo Cugini

 

Articolo apparso il 28 aprile 2025 sulla rivista online: SUMAÚMA

[https://sumauma.com/piratas-trafico-e-garimpo-um-rio-na-rota-do-crime-na-fronteira-da-amazonia/].

 

Questa è una storia di pirati, di chi li combatte, di crociate, uomini potenti e ortaggi ingannevoli. Ma è tutt’altro che finzione. È lo specchio di una realtà complessa che mostra come i confini immaginari di un fiume che attraversa quattro paesi permettano alla criminalità organizzata di avanzare senza freni e trarre profitto dalla distruzione dell’Amazzonia.

Nota: (Il "garimpo" è un'attività di estrazione mineraria su piccola scala, spesso illegale, concentrata in America Latina, in particolare in Brasile e Guyana. Consiste nell'estrarre oro, pietre preziose o altri minerali da fiumi e depositi, utilizzando metodi e attrezzature rudimentali. La pratica del garimpo, soprattutto nelle sue forme clandestine, è nota per i gravi danni ambientali e per la non osservanza delle norme di sicurezza, sebbene esistano anche pratiche regolamentate che mirano a garantire sostenibilità economica e ambientale).

Capitolo 1. Le cipolle

Il 6 gennaio, un lunedì, una cuoca prese una cipolla per preparare il pranzo a Santo Antônio do Içá, un comune nello stato dell’Amazonas, al confine con la Colombia. Sollevandola, sentì che era più pesante del solito e chiamò il suo datore di lavoro. L’uomo prese un coltello e cercò di incidere la buccia, ma all’interno trovò una sostanza dura e giallastra: era pasta base di cocaina.

La cipolla ripiena di stupefacente era stata acquistata il sabato precedente dalla suocera, raccontò l’uomo portando l’ortaggio alla Base Garateia della Polizia Federale, una casa in ristrutturazione che ospita due agenti, a volte tre, e che è responsabile del controllo di una delle rotte del narcotraffico più trafficate al mondo. Era stata comprata al supermercato Içaense, il più grande di Santo Antônio do Içá, di cui uno dei soci è il sindaco della città, Walder Ribeiro da Costa, noto come Cecéu, del MDB. In casa dell’uomo furono trovate altre due cipolle ripiene della stessa droga. I poliziotti andarono quindi al supermercato, controllarono cipolla per cipolla, ma non trovarono più cocaina.

Una settimana dopo, però, accadde di nuovo. Un altro abitante portò a casa nuove cipolle ripiene di droga, acquistate sempre al supermercato del sindaco. Quel sabato, quando fu comprata la prima “cipolla battezzata”, la Polizia Militare aveva sequestrato, su segnalazione anonima, un sacco di cipolle ripiene con 16 chili di pasta base di cocaina vicino al porto della città. Raffinata, la sostanza si trasforma in cloridrato di cocaina, la polvere bianca il cui chilo può valere centinaia di migliaia di dollari all’estero. “Quando hanno sequestrato quel sacco, la droga era già nel supermercato del sindaco”, ha detto un poliziotto che ha parlato con SUMAÚMA sotto anonimato.

Le cipolle ripiene di droga erano state comprate al mercato Içaense, che appartiene al sindaco. Il direttore del mercato ha raccontato che le cipolle facevano parte di un ordine di dieci sacchi da un fornitore di Tabatinga, la città più grande della regione, anch’essa al confine con la Colombia, a nove ore di motoscafo – e il fornitore era un brasiliano di origine peruviana.

Per indagare sul caso sono state aperte due inchieste, una dalla Polizia Civile dell’Amazonas, l’altra dalla Polizia Federale. Entrambe sono in corso. Inizialmente, secondo quanto appurato da SUMAÚMA, il sindaco non risulta indagato. A fine marzo, il commissario di Santo Antônio do Içá, Ubiratan Farias, intendeva mettere a confronto il direttore del mercato e il fornitore delle cipolle, sospettando che uno dei due avesse mentito durante la deposizione.

Il caso delle cipolle misteriose illustra la complessità della vita alle frontiere amazzoniche, dove la criminalità organizzata si mescola tra paesi diversi e circola liberamente per l’assenza dello Stato. Il confine, lì, non è una barriera con doganieri che controllano ogni documento; è solo un fiume, attraversato da barche senza alcun controllo o impedimento. A volte c’è solo una base dell’Esercito responsabile di aree vastissime. Alle frontiere tra i paesi, le barche navigano liberamente senza alcuna barriera doganale

Fiume Iça


Capitolo 2. Le fazioni

In quelle acque non si sa dove inizi o finisca un paese. E la criminalità organizzata si confonde tra le varie nazionalità, come mostra un’inchiesta giornalistica guidata dalla Rete Transfrontaliera di OjoPúblico, del Perù, in collaborazione con SUMAÚMA e i quotidiani La Silla Vacía (Colombia) e Código Vidrio (Ecuador). L’inchiesta rivela che il traffico di droga è presente in sette località su dieci al confine amazzonico di quattro paesi: Brasile, Perù, Colombia ed Ecuador. In molte, agiscono diverse fazioni, a volte di paesi diversi, che collaborano tra loro. Santo Antônio do Içá è una di queste località. Al mattino il traffico di moto è già frenetico; i passeggeri portano spesso pesci appesi per la bocca, senza casco sotto il sole cocente. Le strade sono piene di buche e la polvere avvolge i quartieri davanti all’immensità del fiume. Il comune, quasi 28mila abitanti, è il punto dove sfocia il Rio Içá, che nasce sulle Ande colombiane col nome di Putumayo e serpeggia per quasi 2.000 km tra i confini di Colombia, Ecuador e Perù fino all’Amazzonia brasiliana, dove si unisce al Rio Solimões (nome dato al Rio delle Amazzoni in quella zona). Per questo motivo, l’Içá è diventato essenziale per la logistica del trasporto della droga prodotta nelle valli dei paesi vicini. È l’unico fiume amazzonico che attraversa i quattro paesi. Le sue acque torbide scorrono in zone di foresta fitta e poco sorvegliata, portando in Brasile cocaina e marijuana prodotte nei paesi confinanti. “Ogni giorno. Di notte inizia il flusso delle barche”, racconta un Indigeno che vive vicino al fiume. “Sì, è di notte che si muovono [i trafficanti]”, conferma un abitante.

Le cipolle ripiene di droga sono parte di un ecosistema dominato da fazioni criminali, garimpeiros, imprenditori e politici ricchi che traggono profitto anche dalla distruzione ambientale. E c’è un’aggravante: le fazioni criminali del Sud-Est del Brasile, più organizzate, da una decina d’anni hanno intensificato la loro presenza nel nord e professionalizzato la gestione delle frontiere. Prima gestite da criminali locali, le rotte illegali – anche di armi – sono ora in mano a gruppi come il Primeiro Comando da Capital (PCC) di San Paolo e il Comando Vermelho (CV) di Rio de Janeiro, racconta il ricercatore César Mello, colonnello in pensione della Polizia Militare del Pará e membro del Forum Brasiliano di Sicurezza Pubblica.

Secondo Mello, il Comando Vermelho è arrivato con forza nell’Amazzonia brasiliana nel 2017, dopo l’uccisione di Jorge Rafaat Toumani, ex re delle frontiere in Paraguay, per mano del PCC. La frontiera paraguaiana era una delle principali rotte della droga nel paese e, una volta conquistata dal PCC, rivale del CV, la fazione di Rio de Janeiro ha deciso di concentrare gli sforzi a nord, ai confini con Colombia e Perù. “La FDN, Família do Norte, che era la terza fazione del Brasile, controllava quelle rotte, ma in modo amatoriale. Dopo la morte di Rafaat e il dominio del PCC sulla rotta paraguaiana, il Comando Vermelho si è spostato a nord per non lasciare tutto al PCC, altrimenti non avrebbe più avuto accesso alla droga. Sono arrivati con forza e oggi hanno consolidato la rotta”, afferma Mello.

Nel 2024, 15 tonnellate di cocaina sono state sequestrate dalle forze di sicurezza statali in Amazonas – il doppio rispetto all’anno precedente. Nel primo trimestre del 2025 sono state sequestrate 11 tonnellate di stupefacenti (di ogni tipo), di cui una tonnellata nella regione della Triplice Frontiera, dove si trova Santo Antônio do Içá. In tutto il Brasile, nel 2024, la Polizia Federale ha confiscato 74,5 tonnellate di cocaina, un dato in calo rispetto alla media degli ultimi cinque anni, secondo l’organizzazione Fiquem Sabendo. La Segreteria di Sicurezza Pubblica di Amazonas afferma di aver intensificato le azioni di controllo.

Secondo le Nazioni Unite, oltre i confini amazzonici brasiliani – in Perù, Colombia e Bolivia – ci sono 355mila ettari di coltivazioni di foglie di coca, il doppio della superficie della città di San Paolo. Il rapporto stima che nel 2022 queste coltivazioni abbiano prodotto 2.757 tonnellate di cocaina pura, contro le 869 tonnellate stimate nel 2014: un aumento del 217% in otto anni. Sempre secondo l’ONU, nel 2022 c’erano 23,5 milioni di consumatori di cocaina nel mondo.

A Santo Antônio do Içá, oltre al carico di cipolle ripiene di droga, a febbraio scorso è stata sequestrata una tonnellata di marijuana skunk sul Rio Içá dall’Esercito. In agosto, a Benjamin Constant, vicino, sono state scoperte 4 tonnellate di cocaina: il più grande sequestro di droga nella storia dell’Amazonas.

Secondo la polizia e gli abitanti ascoltati da SUMAÚMA, buona parte dei carichi clandestini intercettati nella regione passa sul Rio Solimões nelle ore notturne, davanti a Santo Antônio do Içá. Tuttavia, la maggior parte transita indisturbata, sia sul Solimões sia sull’Içá. Oltre al narcotraffico, le fazioni ora controllano anche i crimini ambientali: gestiscono il garimpo e la pesca illegale, la deforestazione e la biopirateria, secondo il consulente del Forum di Sicurezza Pubblica.

A Santo Antônio do Içá, il traffico rimane sotto il controllo del Comando Vermelho, secondo dati del Forum. Tuttavia, altre fazioni coesistono nell’Alto Solimões. Spesso la lotta per il territorio sfocia in conflitti, aumentando il tasso di omicidi. La vicina Tabatinga, ad esempio, è tra le 50 città più violente dell’Amazzonia Legale tra il 2021 e il 2023, con una media di 77,4 vittime ogni 100mila abitanti. Nello stesso periodo, la media nazionale è stata di 23,4, quella dell’Amazzonia Legale di 33,4 (+42,4% rispetto al dato nazionale). In alcuni casi, però, le fazioni si accordano per controllare attività diverse, riducendo i conflitti.

Santo Antônio do Içá ne è un esempio. In un pomeriggio di marzo, sui muri logorati dal sole e dalla pioggia al centro della città si leggono le sigle delle fazioni: “CV-AM” su uno, “PCC” su un altro. “Il PCC ora è più legato ai garimpos nel Nord, il CV alle droghe”, dice Mello. Qui, la media degli omicidi intenzionali è bassa: meno di nove vittime ogni 100mila abitanti tra il 2021 e il 2023.

Le fazioni rivali spesso coesistono nello stesso comune, ma si accordano per controllare attività criminali diverse

Secondo la terza edizione dello studio “Cartografie della Violenza nell’Amazzonia”, pubblicato dal Forum nel dicembre 2024, la presenza di fazioni è stata identificata in 21 dei 62 comuni dell’Amazonas. In 13 ce n’era solo una; in otto, due o più. Il Comando Vermelho, egemone in dieci città, è presente in tutti e 21 i comuni, anche dove ci sono altre fazioni. Altri tre comuni sono controllati dai Piratas do Solimões, fazione locale, e altri tre dal PCC.

Lo studio rivela anche che nel Rio Içá ci sono “indizi della presenza” di fazioni colombiane “alleate del CV per il rifornimento di marijuana e cocaina, trasportate per fiume”. Nella regione del Putumayo predomina il gruppo Comandos da Fronteira (in spagnolo, Comandos de la Frontera), noto anche come “La mafia di Sinaloa”, dal soprannome di uno dei vecchi leader, Pedro Oberman Goyes detto “Sinaloa”, assassinato da un complice nel 2019. Formata da circa mille ex guerriglieri dissidenti delle Farc, la fazione è nata nel 2017 dopo gli accordi di pace in Colombia. Nel Rio Içá si occupano della droga e del trasporto; i criminali brasiliani pensano a distribuirla nelle capitali, seguendo la rotta del Rio delle Amazzoni fino a Manaus.



Il Forum di Sicurezza Pubblica indica che il Solimões, che riceve le acque dell’Içá, è la principale rotta dei trafficanti: collega Brasile, Perù e Colombia nella regione della Triplice Frontiera Nord. Poi vengono altri fiumi: Javari, Içá, Japurá, Juruá, Purus, Negro e Mamoré, tutti nella regione dell’Amazzonia Occidentale (stati di Amazonas, Acre, Roraima e Rondônia). Ancora secondo lo studio, la cocaina arriva a Manaus attraverso il Rio delle Amazzoni e, lungo il percorso, viene caricata su navi cargo per l’Africa e l’Europa. L’Amazzonia ha oggi dieci comuni con infrastrutture portuali che “collegano la regione al mondo”. I trafficanti usano anche “sottomarini artigianali”, capaci di trasportare droga “dalla Colombia fino ad altri continenti, attraversando l’Amazzonia per i fiumi Solimões e Amazzoni”.

Al mattino, a Santo Antônio do Içá – dove sei abitanti su dieci ricevono il Bolsa Família e il monitoraggio della frequenza scolastica da parte delle autorità pubbliche è al di sotto della media nazionale – il porto è affollato. L’odore di pesce e di salatini appena sfornati invade il capannone. A pochi metri dai muri imbrattati, i residenti della città sono venuti a ricevere i pescatori e a contrattare i pesci catturati durante la notte. Tambaquis. Surubins. Bodós. Pirapitingas. Un caimano senza testa. L’abbondanza del fiume contrasta con la povertà della città, composta per la maggior parte da case di legno prive di servizi igienici. Cani maltrattati e malati si aggirano agli angoli delle strade. C’è una donna accovacciata con una pentola sopra la legna che brucia. Strade dissestate, salite ripide. La miseria. Una realtà che Vilma (nome di fantasia), 35 anni, vive fin da bambina. Tossicodipendente, cammina per il porto, mentre apre la borsa e tira fuori una busta di plastica piena di riso cotto. Prende il cibo con le mani e comincia a mangiare. “Manca la farina”, dice, e getta il cibo ai pesci. “Detesto mangiare senza farina.” Si raddrizza, si fa seria e fissa un uomo ubriaco in lontananza, che si avvicina barcollando. “Zio, siediti qui”, dice Vilma, cercando di aiutare l’uomo. “Quello è mio zio”, afferma. “Mi ha stuprata quando avevo 7 anni.”

Le case di Benjamin Constant e i ribeirinhos di Santo Antônio do Içá fanno parte del paesaggio del ‘territorio narco’. I mototassisti circolano ovunque. La coda rosa di un boto salta fuori dall’acqua. Le casse acustiche diffondono reggaeton colombiano, segno dell’influenza del paese vicino. “Nella musica, nel cibo, in tutto…”, dice una residente. Quando si alloggia in un hotel, la colazione è anche a base di patacón. “I trafficanti, a volte, nascondono un carico nel fiume, nel bosco. Il pescatore che si avvicina muore”, racconta un abitante del porto. “Ne sono già morti due così”, prosegue. “Affondano la droga [nel fiume], resta sommersa per giorni, poi trovano il modo di farla riemergere.” Di notte, il Rio Içá è molto buio, dice.

Capitolo 3. Le miniere d’oro e la setta

“Ora pagano i colombiani, se hanno bisogno di scappare dall’altra parte [della frontiera, per sfuggire alla polizia]”, dice una leader, che ha preferito restare anonima. Si riferisce ai cercatori d’oro che operano nel territorio di Santo Antônio do Içá. Si spingono sempre più lontano, risalendo il Rio Içá, negli igarapé e sul Rio Puretê, soprattutto dopo che l’anno scorso la Polizia Federale ha fatto esplodere le chiatte con le draghe. Attualmente, la maggior parte delle draghe si concentra sul Puretê, più vicino al confine con la Colombia, afferma.

Il Puretê, che alimenta l’Içá, nasce anch’esso nel paese vicino ed è sempre più colmo di sabbia e ghiaia. Le draghe aspirano il letto del fiume e lo sputano sulle rive, insieme al mercurio. Nel tratto che attraversa il confine, il Puretê è deserto. Non dispone di una base del Pelotone Speciale di Frontiera dell’Esercito brasiliano, come accade sulle rive del Rio Içá, a Ipiranga, un villaggio militare con una pista d’atterraggio e una comunità di circa mille persone, che segna la separazione con la Colombia.

Il viaggio tra il confine e Santo Antônio do Içá richiede almeno dodici ore di motoscafo – o settimane, seguendo un vecchio sentiero nella foresta che parte da Tarapacá, in Colombia, racconta una residente. Lungo il percorso sul fiume, si incontra Vila Alterosa do Juí, una comunità fondata da José Francisco da Cruz, detto Fratello José, leader di una setta religiosa chiamata Ordine Incrociato Evangelico Cattolico Apostolico, o Fratellanza della Santa Croce – una religione che mescola cattolicesimo ed evangelismo –, che nel 1972 iniziò a piantare croci rosse sulle sponde dell’Alto Solimões e dell’Içá, tanto che oggi ci sono più comunità della “Cruzada”, come è noto il culto nella regione, che cattoliche o evangeliche.

Cercatori d'oro 


“Lì [i cercatori d’oro] hanno una base di rifornimento, le draghe vengono costruite lì. C’è un’officina, c’è tutto”, dice una leader in anonimato. Attraversando il fiume, “ci sono droni che ti sorvegliano”, raccontano altri tre residenti della zona. “Quando passi sul Puretê, già c’è un drone che ti riprende. Dei cercatori d’oro”, afferma un abitante che lavora nella salute indigena e visita spesso le comunità. “Qui tutti sanno tutto, ma nessuno dice niente”, aggiunge un altro.

Nella Vila Alterosa do Juí, un villaggio di circa 5 mila persone situato nel mezzo del Rio Içá – raggiungibile solo via acqua o aria, circondato da chilometri di foresta preservata –, la Cruzada ha una propria guardia. La località è vicino alla foce del Rio Puretê, che, come l’Içá, porta in Colombia. “Oggi sono circa 3 mila a seguire questa setta”, dice il parroco di Santo Antônio do Içá, Gabriel Carlotti. Indica le poche chiese cattoliche su una mappa del Rio Içá. La maggior parte delle comunità appartiene alla Cruzada. Le donne indossano vestiti fino alle ginocchia e portano una croce sul petto. I seguaci sono obbligati a partecipare a due culti al giorno e proibiti di praticare sport – “Perché, se si fanno male, come lavorano?”, dice Bento Kokama, un seguace, nel villaggio São José, dove vivono fedeli della setta. Il sociologo Pedrinho Guareschi ha registrato che il fanatismo religioso serviva da strumento ai colonnelli interessati a sfruttare la manodopera indigena. Morto negli anni ’80, il missionario Fratello José è sepolto nel villaggio. Attualmente, il suo successore, noto come pastore Damásio, alleva bufali e gestisce la raccolta della chiesa. Il pastore non è stato rintracciato dal reportage.

Una delle chiese della Cruzada sul riuo Iça


Le chiese della Cruzada sono diffuse nelle comunità dove è presente anche l’attività mineraria. Il garimpo insidia anche le comunità indigene della regione. Sinésio Trovão, leader Tikuna della Terra Indigena Betânia, a 20 chilometri da Santo Antônio do Içá, racconta che una volta un cercatore d’oro di Vila Alterosa do Juí gli ha offerto 500 mila reais per negoziare la permanenza delle draghe nella Terra Indigena per una settimana. “In una notte hanno estratto due chili d’oro [illegalmente] da lì [vicino]”, dice. Sinésio ha rifiutato la proposta.

Costruita su un enorme dirupo che ospitava villaggi e un carcere eretto dai portoghesi durante la colonizzazione, Santo Antônio do Içá fu fondata nel 1956. Vi vivono ancora indigeni Tikuna, i Magüta, e anche Kambeba, Kokama e Kaixana, molti dei quali ricordano i maltrattamenti e la violenza perpetrati dai bianchi. “Un tempo, dagli anni ’40 in poi, gli indigeni prendevano molte botte dai fazendeiros [usurpatori di terre] che sfruttavano bestiame e gomma in questa regione”, racconta Sinésio. Secondo lui, missionari statunitensi arrivarono e portarono via gli indigeni dall’area che oggi è la città, conducendoli sulle rive del Rio Içá, dove si trova Vila Betânia. Lì vivono circa 5 mila indigeni. All’epoca, gli stranieri insegnarono ai Tikuna a pregare e li vestirono con abiti da bianchi. Alle undici del mattino, nella maloca del villaggio, tuttavia, preservano la loro lingua. Un adolescente ascolta su YouTube, con il cellulare collegato a un’antenna Starlink, musica in lingua Tikuna. Sinésio organizza escursioni di francesi e tedeschi che partono da Bogotá per trascorrere qualche giorno nel villaggio.

Un tempo, i corpi galleggiavano giù per l’Içá, raccontano gli anziani, come il vice-capovillaggio Bernardino Tikuna. Oggi, il problema sono i furti di lance e motori fuoribordo durante la notte. “Qui hanno già rubato sei canoe e barche, vengono di notte”, dice Bernardino. “Rubano le canoe agli indigeni per andare a prendere la droga. Ne hanno già rubate molte”, aggiunge Sinésio. Gli indigeni, come i Tikuna, resistono con i loro rituali e la loro cultura, nonostante le pressioni della criminalità organizzata.

Padre Gabriele Carlotti mentre celebra in una delle comunità del fiume Iça


A Santo Antônio do Içá da cinque anni, padre Carlotti, un italiano magro dagli occhi chiari che ha vissuto per 17 anni in Bahia, di tanto in tanto naviga sul Rio Içá per visitare le comunità cattoliche. Con una lancia comprata dal Vaticano, dotata di sonar, riesce a visualizzare il letto del fiume. “Si vedono solo buchi”, dice, riferendosi ai segni lasciati dalle draghe. Durante le messe in città, il sacerdote pronunciava discorsi a favore dell’ambiente, criticando i cercatori d’oro. Non ci è voluto molto perché gli arrivasse una minaccia di morte. Era un avvertimento. “L’importante è che il fiume sia preservato da qualsiasi inquinamento che avveleni le acque, i pesci e le persone”, afferma Carlotti. La Chiesa Cattolica ha distribuito serbatoi d’acqua lungo l’Içá affinché i ribeirinhos potessero raccogliere acqua piovana, evitando il mercurio nel fiume.

Il commissario di polizia civile di Santo Antônio do Içá, Ubiratan Farias, da poco più di un anno in carica, non va spesso sul Rio Içá. “È un punto di rifornimento loro [dei cercatori d’oro], con il sostegno di parte della popolazione”, afferma. Racconta di aver dovuto annullare una missione sull’Içá per paura di un’imboscata. “Ci vado solo con una .50 [mitragliatrice] e dieci uomini”, dice, con una pistola alla cintura e un fucile appeso alla parete, nel suo ufficio in commissariato. Può contare solo su due investigatori, due cancellieri e uno stagista, oltre a una coppia di agenti federali che risiedono in città. Il commissario gestisce anche due celle con 23 detenuti, più due donne che, per mancanza di spazio, hanno dovuto alloggiare in cucina. Dei 1.182 rapporti di reato registrati dal febbraio 2024 nel comune, crocevia del narcotraffico, 270 sono per furto. Ladri che rubano per comprare droga, dice il commissario. Mentre parlava, ha dovuto liberare uno di loro, trovato con un cellulare rubato, per mancanza di spazio in carcere. La questura non ha una lancia propria e il carcere più vicino dista nove ore, a Tabatinga. Secondo il commissario, solo cinque casi di traffico sono stati registrati nell’ultimo anno. Le difficoltà strutturali aiutano a spiegare il numero basso.

Alla Base Garateia della Polizia Federale ci sono una lancia e due agenti. “La direttiva della direzione è ‘non rischiare la vita, lascia passare’ [la lancia con la droga]. Più avanti c’è la Base Arpão”, dice uno di loro, riferendosi al posto di sorveglianza della PF lungo il Rio, a Coari. Così, i poliziotti si concentrano sulle attività di Intelligence, afferma. La base della Polizia Federale si dedica ad ‘attività di Intelligence’ e il commissario della Polizia Civile va sul Rio Içá solo ‘con una .50 [mitragliatrice] e dieci uomini’.

Pirati attaccano un'imbarcazione sul fiume Iça


Capitolo 4. Pirati e politici

Una mattina di marzo, verso le 10, il supermercato Içaense, che si trova in una strada trafficata di Santo Antônio do Içá, era pieno di gente. Fuori, bancarelle di agricoltori vendevano banane, farina e sacchi di Uxi. Con oltre dieci file di prodotti in un enorme capannone, il supermercato è solo uno dei tanti affari del sindaco. Cecéu era già imprenditore, proprietario anche di un negozio di materiali da costruzione e della lotteria della città, prima di diventare sindaco. Rieletto per il secondo mandato lo scorso ottobre, è entrato in politica nel 2020, durante la pandemia, con un patrimonio importante: 2 milioni di reais, inclusi quattro camion, due pick-up, una pala caricatrice e un trattore cingolato. Quattro anni dopo, lo scorso ottobre, il suo patrimonio è aumentato del 21%, arrivando a 2,4 milioni di reais.

Cecéu è stato introdotto alla politica da un padrino: l’ex sindaco Abraão Magalhães Lasmar, uno dei maggiori imprenditori della città, che ha amministrato il comune per due mandati, dal 2013 al 2020. Lasmar controlla il commercio dei carburanti a Santo Antônio do Içá. L’edificio più grande del centro, il ristorante Diamante, è suo. Ma i due si sono separati. L’anno scorso, Lasmar ha perso le elezioni comunali contro l’ex alleato.

Anche l’ex sindaco ha avuto successo nell’aumentare il patrimonio. Nel 2016, quando fu eletto per il secondo mandato, Lasmar dichiarò un patrimonio di 444 mila reais. L’anno scorso, il valore è salito a 1,7 milioni di reais – un aumento del 283%. Sia Cecéu sia Lasmar sono indagati in un’inchiesta della Polizia Federale, aperta nel 2021, per sospetto di finanziamento di organizzazione criminale, riciclaggio di denaro, occultamento di patrimonio, appropriazione indebita di denaro pubblico ed evasione fiscale. Nel 2007, un familiare di Abraão Lasmar, José Magalhães Lasmar, noto come “Martelo”, è stato accusato dal Ministero Pubblico Federale di aver trafficato 34 chili di cocaina. I procuratori hanno descritto Martelo come “commerciante e proprietario di chiatte a Santo Antônio do Içá, trasportatore e uno dei maggiori fornitori di cocaina nello stato dell’Amazzonia”.

Interpellati, né l’ex sindaco Abraão Lasmar né l'attuale sindaco di Santo Antônio do Içá, proprietario del supermercato, hanno voluto rilasciare dichiarazioni. José Magalhães Lasmar non è stato rintracciato.

Il 27 febbraio, Santo Antônio do Içá ha mostrato la complessità dell’azione delle organizzazioni criminali. Una chiatta è stata assaltata dai pirati sul Rio Solimões, all’altezza di Tonantins, a 32 chilometri da Santo Antônio do Içá. Durante l’assalto, un terzo battello è apparso sparando colpi che hanno ucciso due membri dell’equipaggio. Erano trafficanti, ha raccontato un agente federale a SUMAÚMA, “che sono arrivati sparando” ai pirati. Il coinvolgimento dei trafficanti in questo caso non è ancora del tutto chiaro. Meno di una settimana dopo, due presunti pirati coinvolti nel crimine sono stati uccisi dalla Polizia Militare a Benjamin Constant e tre sono stati arrestati. Tra gli oggetti sequestrati, c’era un drone. I poliziotti sospettano che la chiatta trasportasse carburante per una miniera d’oro a Jutaí, lì vicino. La PF sta analizzando una registrazione dell’accaduto, ancora sotto indagine. “Ci sono molti furos [piccoli fiumi]. I pirati offrono la scorta [ai trafficanti]. Ma se non si paga la scorta, possono diventare pericolosi e prendere il carico degli altri”, afferma il commissario Ubiratan Farias.

“I pirati mettono droni sul fiume, per vedere le barche che passano. Preferiscono rubare droga e oro. Sono professionisti, molto armati. In questo tratto tra Tabatinga e Tefé ce ne sono molti”, dice il capo macchinista della lancia, 70 anni, quattro dei quali passati a navigare sul Rio Solimões. Quando approda a Santo Antônio do Içá, rimane in silenzio, prima di confessare: “Lavoro con paura”.

Presenza dell'esercito sul fiume Iça


Cosa dice l’Esercito

Il Ministero della Difesa ha dichiarato, in una nota, che nella regione dell’Amazzonia Occidentale, che comprende Amazonas, Acre, Rondônia e Roraima, l’Esercito Brasiliano, tramite il Comando Militare dell’Amazzonia, “mantiene un’attività permanente di preparazione e impiego delle sue truppe, assicurando così uno stato di prontezza per l’impiego di mezzi militari a favore della garanzia della sovranità nazionale”. Ha sottolineato inoltre che il Rio Puretê rientra nella “zona di responsabilità della 16a Brigata di Fanteria della Selva”, con un battaglione e tre pelotoni speciali di frontiera.

L’Esercito brasiliano, responsabile del monitoraggio delle frontiere, ha affermato in una nota che opera nella Regione Nord del paese “giorno e notte tramite il Comando Militare dell’Amazzonia e il Comando Militare del Nord, proteggendo la sovranità nazionale e combattendo i reati in coordinamento con altri organi e agenzie”. Ha spiegato che le operazioni sono rese difficili dalle “grandi dimensioni e dalla porosità della frontiera terrestre brasiliana, particolarmente nell’Amazzonia, unite alla grande complessità di accesso e logistica di permanenza”.

Ha evidenziato l’uso di azioni di Intelligence e di sorpresa per massimizzare i risultati, perché “è noto che l’azione quotidiana in una stessa località sposta il reato verso una zona meno sorvegliata”. La nota afferma inoltre che un peloton, un battaglione e una brigata operano nella regione e conducono un’Operazione Scudo permanente, che “include il pattugliamento del Rio Içá e del Rio Puretê”.

Secondo l’Esercito, le azioni di contrasto alla criminalità organizzata nella Frontiera Nord sono coordinate con altri organi e agenzie federali, statali e comunali. “Nel 2025, l’Operazione Ágata Congiunta Amazzonia, integrata al Programma di Protezione Integrata delle Frontiere (PPIF), ha già avviato la fase di pianificazione e prevede l’inizio delle azioni repressive nel mese di maggio”, ha sottolineato. “Come risultati dell’Operazione Ágata Amazzonia nel 2024, si stima in 523,9 milioni di reais il danno inflitto al crimine, con circa 3.842 azioni realizzate, tra cui il sequestro di 4,20 tonnellate di pasta base e 697 chili di marijuana, contribuendo così alla diminuzione dei reati transnazionali.” La nota ha sottolineato inoltre che la Marina ha sequestrato più di 1 tonnellata di droga durante una pattuglia sul Rio Içá, il 14 febbraio dell’anno scorso. E l’Esercito ha sequestrato, a Santo Antônio do Içá, 1 tonnellata di marijuana tipo skunk, il 27 febbraio 2025.