sabato 13 settembre 2025

Manaus e la lotta per l’acqua

 




Venti-cinque anni sotto il segno della ribellione e della profezia

 

 

Paolo Cugini

Nel 2025, la città di Manaus si ritrova al bivio delle proprie nozze d’argento: venticinque anni di convivenza con una concessione che prometteva sollievo e che ha invece generato tormento. È l’anniversario di una unione che, invece di prosperare, ha alimentato incomprensioni, contrarietà, e tradimenti. Questi anni sono stati un deserto attraversato dalle speranze e dai patimenti di una città assetata, in cui le acque — promesse come fonte di vita — si sono rivelate miraggi.

Il rapporto tra Manaus e Águas de Manaus vive sospeso, come un filo che vibra sotto il peso dell’insoddisfazione. Da una parte, la città si fa voce di una sete inestinguibile; dall’altra, la concessionaria mostra il volto indurito della negligenza, lasciando che il disprezzo dilaghi tra le strade. Non c’è più rispetto, non c’è più dialogo: solo il silenzio dei rubinetti e la rabbia che ribolle nei cuori.

Ci sono stati momenti in cui il legame si è spezzato e ci si è illusi che il cambio di società — Lyonnaise des eaux-Suez, Solvi, Águas do Brasil, Aegea Saneamento — potesse portare una nuova aurora. Ma questi passaggi sono stati solo veli posati sulle ferite, tentativi di mascherare la crisi che, come un fiume carsico, è riemersa più forte. Le Commissioni Parlamentari d’Inchiesta del 2005, 2012, 2023 hanno scavato nelle profondità delle irregolarità, portando la lotta agli occhi del pubblico, ma senza risolvere la sete.

Il 2025 è l’anno in cui la rabbia si moltiplica: secondo Ageman, da gennaio a luglio, 1.661 controlli sui servizi idrici e fognari, il 172,7% in più rispetto all’anno precedente. Il totale delle ispezioni ha già superato quello del 2024, mentre il vero balzo è nei controlli sulle acque reflue: 1.119 ispezioni, una crescita superiore al 430%. Ogni ispezione è una sentenza, ogni notifica (63 solo fino ad agosto, 35 per il ripristino dell’asfalto) è un sussulto profetico che denuncia la trasgressione. Il soprannome ormai diffuso tra i media, “Mágoas de Manaus”, è il vessillo della lotta: la città non piange, ma si prepara a insorgere.

La rabbia si fa carne nelle proteste dei quartieri, come Viver Melhor, dove la gente insorge sotto striscioni che sono profezie: “La nostra voce è la nostra sete! Il nostro grido è per l’acqua!”, “Pago l’acqua, ho diritto a riceverla!”,L’acqua è un diritto umano, non una merce!”. Ogni slogan è una fiaccola che illumina la notte dell’attesa, ogni manifestazione è un passo verso la liberazione. In questo scenario di battaglia, i movimenti sociali e le organizzazioni civiche si ergono come profeti del nuovo patto, convocando conferenze, seminari, laboratori — assemblee di lotta e di sogno. Si chiede alle autorità pubbliche di risvegliarsi dall’inerzia e dall’omissione, di ascoltare il battito dell’acqua che chiede giustizia e dignità. Il coinvolgimento della società è un vento che spinge le vele del cambiamento; la speranza non arretra, la profezia si fa azione.

Manaus non si piega. La città e la sua gente sono in cammino verso la rottura delle catene, verso la riconquista del diritto fondamentale all’acqua. La crisi non è più solo una storia di numeri e di indagini, ma un canto profetico che annuncia la fine di una lunga notte. Le nozze d’argento della concessione diventano così il battesimo di una nuova lotta: quella che trasforma la sete in forza, la protesta in profezia, e il sogno in realtà.

 

Fonte dei dati riportati nell’articolo: https://forumdasaguasam.blogspot.com/2025/09/empresa-de-agua-e-esgoto-provoca.html

 

lunedì 8 settembre 2025

Le politiche di protezione ambientale in Amazzonia

 



 

 

Autrice: Marilene Corrêa, Professoressa Ordinaria, Università Federale dell'Amazzonia (UFAM)

Pubblicato: 27 agosto 2025

Traduzione: Paolo Cugini

 

Dall’accelerazione dei processi di occupazione del nord del Brasile, promossi dallo sviluppo del governo militare, la violenza cresce in Amazzonia a ogni nuovo ciclo di appropriazione economica degli spazi e delle risorse naturali. Negli ultimi decenni del XX secolo, le politiche ambientali create con la redemocratizzazione del paese e sotto l'atmosfera dell’Eco 92 hanno cercato di resistere agli attacchi predatori contro la ricchezza mineraria, vegetale e umana. Tuttavia, nel corso degli anni, anche grazie alle regolamentazioni fondiarie e all'ambientalismo, i conflitti tra popoli indigeni, piccoli proprietari e gruppi predatori sono aumentati.

Popoli, territori e culture amazzoniche sono stati violati fin dalla colonizzazione. Ma la persistenza di questa violenza in pieno XXI secolo mette in luce la gravità di un’organizzazione nazionale incompleta e che retrocede davanti a ogni avanzamento nel controllo ambientale degli spazi naturali e sociali.

Il caso dell’Amazzonia

L’Amazzonia è lo stato brasiliano con la maggiore estensione di aree protette, custodendo un patrimonio socioambientale di grande valore globale. La sua vasta area di territori conservati comprende Unità di Conservazione (UC) che coprono il 30,21% del territorio statale — pari a 47,2 milioni di ettari. Queste aree sono suddivise tra UC federali (16,96%), come parchi nazionali e riserve estrattiviste; UC statali (12,05%), gestite dal governo dell’Amazzonia; e UC municipali (1,19%), con la partecipazione delle amministrazioni locali nella conservazione.

Le Terre Indigene (TI) ammontano a oltre 53,7 milioni di ettari, demarcati in 164 territori. Questi spazi sono essenziali non solo per la conservazione della biodiversità, ma anche per la sopravvivenza culturale e materiale di 61 popoli indigeni, custodi di saperi tradizionali e della foresta tropicale. Inoltre, le Unità di Conservazione dell’Amazzonia ospitano una ricca diversità socioculturale, accogliendo circa 13.805 famiglie distribuite in 713 comunità. Oltre agli indigeni, tra questi gruppi figurano i ribeirinhos (villaggi sulla riva del fiume), i raccoglitori di caucciù e i quilombolas (villaggi formati esclusivamente da afro-discendenti), le cui modalità di vita si adattano alla logica sostenibile e rafforzano l’importanza di queste aree per l’equilibrio ecologico e la giustizia ambientale.

Tra il 2000 e il 2016, lo stato dell’Amazzonia ha creato una vasta rete di protezione ambientale dei suoi territori, essenziale per il mantenimento dei servizi ecosistemici (come la regolazione del clima e la conservazione delle risorse idriche) e per contrastare i cambiamenti climatici. Il Sistema Nazionale delle Unità di Conservazione (SNUC) ha creato numerose UC, sia di protezione integrale che di uso sostenibile. Parchi Nazionali, Riserve Biologiche, Riserve Estrattiviste, Aree di Protezione Ambientale (APA) sono stati integrati in un sistema statale intelligente, in cui la gestione ambientale e il supporto di politiche pubbliche a favore delle popolazioni della foresta hanno ispirato altri stati amazzonici. Questo clima favorevole di sostegno politico e sociale, locale, nazionale e internazionale, permetteva allo stato di gestire grandi aree di protezione ambientale, controllare le pratiche predatorie e i rischi per la foresta, e integrare municipalità e popolazioni tradizionali nell’orientamento verso la sostenibilità.



Cambiamento improvviso di rotta

Il contesto politico di accoglienza delle politiche ambientali locali è cambiato drasticamente dal colpo di stato civile contro la presidente Dilma Rousseff, con la limitazione delle iniziative democratiche e delle buone pratiche ambientali nell’era Temer. Durante i governi di Michel Temer e Jair Bolsonaro, l’iniziativa di una politica ambientale promettente perde forza a livello locale e nazionale, e i territori demarcati non svolgono il loro ruolo. Si osserva l’indebolimento delle politiche pubbliche di protezione effettiva, la mancanza di vigilanza adeguata e l’assenza di supporto alle popolazioni tradizionali. Nel 2019, con l’arrivo di Bolsonaro alla presidenza, ha inizio l’antipolitica ambientale, segnata dallo smantellamento dei progressi ottenuti e dall’indebolimento, nelle realtà locali, delle pratiche sostenibili di protezione ambientale. La letteratura scientifica indica che questo periodo è stato segnato dalla distruzione dell’assetto istituzionale precedente, e che gli impatti di queste misure persistono sui territori protetti. Episodi deplorevoli di razzismo e degrado ambientale hanno esposto l’orrore ambientale vissuto in Amazzonia, superato solo dal “laboratorio della morte” in cui lo stato si è trasformato durante l’epidemia di COVID-19.

La disarticolazione delle politiche di protezione ambientale, l’indebolimento istituzionale delle misure di controllo degli illeciti e l’autorizzazione, sia esplicita che implicita, all’invasione dei territori indigeni hanno incentivato la violenza fisica e ambientale su territori e popolazioni. A questi fattori si aggiunge la delegittimazione dell’autorità scientifica. Emblematica, ad esempio, la destituzione del dirigente dell’INPE durante la polemica sui dati sulla deforestazione in Amazzonia, nel 2019. L’obiettivo principale — la sostenibilità dei territori e dei popoli amazzonici — ha perso consistenza e concretezza di fronte all’insicurezza ambientale illustrata dalla recrudescenza dei conflitti.




Una ripresa turbolenta

L’attuale governo Lula non ha risparmiato sforzi per imporre il comando e il controllo dello stato brasiliano contro le aggressioni ambientali, ma gli attori locali ostili e i loro alleati nazionali sfidano e turbano l’ordine ambientale. Il Rapporto Conflitti in Campagna della Commissione Pastorale della Terra del 2024 sottolinea che, dal 2023, nello stato dell’Amazzonia si sono verificati 96 conflitti che hanno coinvolto oltre 75 mila persone, tra cui 82 conflitti per la terra, 4 occupazioni e riprese e 10 conflitti per l’acqua.

Le aggressioni ambientali deliberatamente prodotte durante il governo Bolsonaro continuano a rappresentare un fantasma che si aggira sugli ecosistemi e i biomi amazzonici. L’oscurantismo di quel periodo si prolunga nel tempo e nello spazio: di recente, ad esempio, nel Congresso, si è manifestato apertamente nel trattamento misogino riservato alla Ministra Marina Silva e nella recente approvazione del Progetto di Legge 2159/2021. Un altro aspetto fondamentale dei conflitti ambientali in Amazzonia riguarda il regime fondiario. Oggi, l’Amazzonia detiene uno dei più grandi “passivi fondiari” del Brasile, con 58,2 milioni di ettari di terre pubbliche ancora senza destinazione. Questo equivale al 37,5% del suo territorio, secondo i dati dell’Istituto dell’Uomo e dell’Ambiente dell’Amazzonia (Imazon) e della Segreteria di Stato dell’Ambiente (SEMA-AM).

Questa vastità di aree senza destinazione rappresenta una sfida critica per la governance ambientale e fondiaria nell’Amazzonia Legale, con implicazioni dirette per la conservazione, lo sviluppo sostenibile e la riduzione dei conflitti socioambientali. La priorità della conservazione dovrebbe essere chiara: circa il 56% di queste terre non destinate si trova in regioni di alta rilevanza ecologica, come le zone di connettività tra Unità di Conservazione (UC) e Terre Indigene (TI). E ciò che rende il problema ancora più grave è che circa il 15% di queste aree (8,5 milioni di ettari) è irregolarmente registrato nel Catasto Ambientale Rurale (CAR) come proprietà privata. Questo è un chiaro segnale di accaparramento illegale di terre o sovrapposizione illegale della proprietà, creando un contesto che alimenta dispute violente per la terra e ostacola l’attuazione delle politiche pubbliche. Alcuni aspetti della legislazione contribuiscono ad aggravare i problemi: la mancanza di una scadenza per l’inizio dell’occupazione in terra pubblica regolarizzabile; l’assenza dell’obbligo di recupero ambientale prima della titolazione; e la mancanza di divieto di regolarizzazione a proprietari condannati per pratiche equiparate alla schiavitù.

La regolarizzazione del regime fondiario in Amazzonia è una politica vitale per equilibrare la conservazione ambientale e lo sviluppo sostenibile. Senza progressi concreti, il rischio è quello di un’intensificazione della deforestazione illegale, dell’accaparramento delle terre, dell’estrazione illegale delle risorse e della violenza nelle zone rurali, come si riflette negli alti tassi di conflitti socioterritoriali e nel numero elevato di omicidi registrati negli ultimi anni.

Mobilitazione sociale

I conflitti socioterritoriali e ambientali in Amazzonia sono soprattutto di natura politica. Derivano dal carattere reazionario, negazionista e anti-ambientale che i periodi Temer-Bolsonaro hanno imposto al Brasile, con effetti perversi e continui in Amazzonia, la maggiore porzione dell’Amazzonia brasiliana. Spetta alla comunità scientifica brasiliana accentuare risposte politiche basate sulle evidenze di questa realtà. La difesa intransigente della democrazia e della sovranità brasiliana alimenta il dibattito ambientale e mobilita la società civile. A novembre, Belém ospiterà la COP 30, un altro evento mondiale in cui la politica ambientale brasiliana cercherà protagonismo e sostegno. Territori, popoli e culture amazzoniche faranno sentire la propria voce in questo confronto di idee sul futuro del pianeta. E le manifestazioni sociali a favore dell’ambiente potranno preparare i brasiliani a future scelte nell’agenda politica del paese, dell’Amazzonia e dello stato dell’Amazzonia.

 

sabato 6 settembre 2025

GRIDO DEGLI ESCLUSI ED ESCLUSE 2025

 

Il Cardinale Leonardo Steiner nel suo pronunciamento finale



A Manaus l’arcidiocesi organizza una grande manifestazione chiedendo attenzione sul tema dell’acqua

 

Paolo Cugini

 

 

Il Grido degli Esclusi si realizza attraverso una serie di manifestazioni popolari, che si svolgono in Brasile dal 1995, in occasione del Giorno dell'Indipendenza, e che culminano il 7 settembre, giorno dell'Indipendenza brasiliana. Queste manifestazioni mirano ad aprire strade agli esclusi dalla società, denunciare i meccanismi sociali dell'esclusione e proporre percorsi alternativi verso una società più inclusiva.

Le sue origini risalgono alla Seconda Settimana Sociale Brasiliana, promossa dalla Pastorale Sociale della Conferenza Nazionale dei Vescovi Brasiliani (CNBB), tenutasi tra il 1993 e il 1994, quando il Vescovo Luiz Demétrio Valentini era responsabile della Pastorale Sociale. Sebbene l'iniziativa sia direttamente legata alla CNBB, diverse organizzazioni hanno partecipato al movimento fin dal suo inizio: chiese del Consiglio Nazionale delle Chiese Cristiane, movimenti sociali, organizzazioni ed enti impegnati nella giustizia sociale. Le manifestazioni sono varie: celebrazioni, eventi pubblici, pellegrinaggi, camminate, seminari e dibattiti, teatro, musica, danza e fiere dell'economia solidale.

Il 5 settembre, giorno di due importanti celebrazioni per il popolo dell'Amazzonia, è stato scelto per il 31° Grido degli Esclusi a Manaus, con il tema "La vita viene prima di tutto" e il motto "Prendersi cura della casa comune e della democrazia è una lotta quotidiana", che riecheggia il grido per la vita, la foresta e la democrazia. Questo è stato anche il giorno in cui l'Amazzonia è stata elevata allo status di provincia, una pietra miliare nella storia del nostro Stato che commemora la lotta e la resistenza del popolo di questa terra. Si è celebrata anche la Giornata dell'Amazzonia, che ha bisogno di essere curata e preservata.

 


L'evento, promosso dall'Arcidiocesi di Manaus attraverso le sue Pastorali Sociali, è iniziato con importanti riflessioni sulla cura dell'Amazzonia e di tutte le persone che la abitano. "L'Amazzonia, il cuore della lotta per la vita. Prendersi cura dell'Amazzonia significa prendersi cura della vita e di tutta l'umanità. Ma ciò che vediamo è la foresta distrutta, i fiumi contaminati, i popoli indigeni e le comunità rivierasche attaccate, espulse e assassinate. L'avidità dell'agroindustria e dell'attività mineraria illegale sta uccidendo la nostra casa comune. L'Amazzonia non è vuota; è piena di vita, cultura, fede e resistenza. Siamo un corridoio ecologico e culturale, siamo l'ecologia centrale, siamo vita e resistenza", ha sottolineato il responsabile della Caritas Arcidiocesana don Alcimar.

È stato anche un momento di sostegno al Plebiscito Popolare 2025 - Giustizia Fiscale Ora! e alla riduzione della giornata lavorativa, con la raccolta di firme da parte di tutti i presenti. Questo è un grido per i lavoratori e per la giustizia fiscale, che consiste nell'esenzione dall'imposta sul reddito per chi guadagna fino a 5.000 reais (800 euro circa) e nella riscossione di tasse eque per i milionari, che accumulano ricchezza a spese dei poveri. Uno degli slogan ripetuti varie volte durante la manifestazione diceva: "Basta tassare i poveri, mentre i ricchi accumulano ricchezze e si sottraggono alle loro responsabilità sociali!"



Durante la marcia, è stata sottolineata la campagna "Acqua e rifiuti non si mescolano". Questa campagna mira a mobilitare la società, gli enti pubblici e privati, per ripulire gli Igarapés ( è un piccolo fiume stretto e poco profondo o un canale naturale, tipico della regione amazzonica, che funge da "sentiero per le canoe", facilitando il trasporto e la comunicazione nei luoghi difficili da raggiungere della foresta).

La marcia si è snodata nella Zona Est di Manaus riunendo centinaia di persone che hanno alzato la voce per una vita dignitosa per chi si trova in situazioni di esclusione e vulnerabilità sociale, chiedendo, tra le altre cose, vita, salute, alloggio, politiche pubbliche, rispetto, dignità.

Al termine, l'Arcivescovo di Manaus, il Cardinale Leonardo Steiner, ringraziando i presenti per il loro coinvolgimento, li ha incoraggiati a proseguire nel loro impegno per costruire una società più giusta e fraterna, nel nome del Vangelo.

"Una parola di gratitudine a tutti, a ciascuno di voi che siete venuti a partecipare al 31° Grido degli Esclusi. Noi, da questa prospettiva, siamo così pochi, rispetto a una popolazione di due milioni e trecento persone. Ma gridiamo a nome di tutti. Vogliamo mostrare la nostra realtà, perché ha bisogno di essere trasformata. E lo facciamo nel nome del Vangelo, affinché possiamo avere una società più giusta, più fraterna, affinché possiamo vivere insieme nella nostra casa comune e avere un governo sempre, ancora una volta, sempre più democratico. Quindi, fratelli e sorelle, sempre in pace, ma nella lotta!" ha sottolineato Dom Leonardo.

i giovani della nostra parrocchia presenti alla manifestazione


La nostra parrocchia, san Vincenzo de Paoli, ha partecipato con circa un centinaio di persone.

 

venerdì 5 settembre 2025

L’ebbrezza dell’incontro con mondi nuovi

 




La contaminazione culturale come apertura e ricchezza

 

 

Paolo Cugini

 

C’è davvero un senso di ebrezza, una vertigine sottile, ogni volta che ci si avvicina a mondi nuovi, a culture diverse, e si lascia che queste ci contaminino. Questo è un aspetto davvero importante da sottolineare: la necessità esistenziale, vitale di uscire dai propri mondi, per scoprirne altri, Forse è questo il problema maggiore: alzarsi e mettersi in cammino. Alzarsi ed aprire la porta e decidere di non tornare alla sera, ma di prendere un treno, un aeroplano e viaggiare. La metafora del viaggio è molto potente perché rivela una parte importante di noi: il desiderio del nuovo, di conoscere altro, di tuffarsi nel mondo dell’altro e lasciarsi contaminare, permette al mondo altro, cioè, di toccarci, di prenderci per mano e condurci in una nuova realtà che ci può cambiare per sempre.

 La contaminazione, in questo senso, non è una perdita di identità, bensì una feconda apertura. Questo ci dice anche del senso autentico di ciò che intendiamo con il termine identità, che prima di essere un dato fisso, è una conquista che sta sempre dinanzi a noi. Siamo il nostro cammino. Quando una cultura, una lingua, una tradizione diversa penetra nel nostro mondo, qualcosa di profondo si muove. Nella scoperta dell’altro, come suggerisce Italo Calvino nelle sue Città invisibili, ci troviamo di fronte all’alterità che ci invita a immaginare altre possibili esistenze. Calvino ci fa capire che il viaggio, reale o metaforico, è sempre incontro e contaminazione; ogni città visitata è una nuova parte di sé che si aggiunge al mosaico della propria identità. L’incontro dell’altro può voler dire abbandono, perché la contaminazione ci fa scoprire qualcosa di nuovo, ma a volte anche qualcosa di meglio.

La contaminazione culturale, invece di essere temuta, può diventare il motore di crescita personale e collettiva. Edward Said, nel suo saggio Orientalismo, parla del pericolo dell’immobilismo culturale e della necessità di lasciarsi permeare dall’altro per andare oltre le proprie barriere. Per Said, la conoscenza dell’altro è sempre una forma di apertura, un modo per superare pregiudizi e resistenze, un invito a ripensarsi. La contaminazione è uno spazio nuovo, perché è come un fiume che trasporta lingue, storie, sapori, sensazioni da una riva all’altra, mostrando che la ricchezza nasce proprio dal mescolarsi, dal lasciarsi attraversare dagli influssi più diversi. In questa prospettiva, la contaminazione diventa la chiave per aprire porte e finestre sul nuovo. La contaminazione è un  viaggio interiore attraverso mondi che si sovrappongono e si intrecciano, mostrando come la vera meraviglia sia sempre nell’incontro tra universi diversi.

C’è dunque qualcosa di profondamente gioioso e vitale nell’entrare in contatto con culture altre, nel lasciarsi contaminare senza paura. È una sensazione che ricorda il primo assaggio di un frutto esotico, la prima parola pronunciata in una lingua straniera, la prima sera trascorsa in una città che non si conosceva: momenti in cui la nostra identità si espande, si arricchisce, si rinnova. Contaminarsi significa aprirsi, scoprire, accogliere. Significa abbandonare le certezze per abbracciare la complessità. E così, ogni volta che mondi diversi si incontrano, nasce quell’ebbrezza creativa che è il segno più vivo dell’esistenza. Nel lasciarci toccare dall’altro, diventiamo noi stessi più aperti, più profondi, più umani. La contaminazione dice di un cammino di umanizzazione: basta solo muoversi.

 

martedì 2 settembre 2025

Fisica quantica e il concetto di contaminazione

 




Alcune annotazioni su un possibile percorso interdisciplinare tra scienza e filosofia

 

Paolo Cugini

 

La fisica quantistica è una delle discipline più affascinanti e rivoluzionarie del pensiero scientifico contemporaneo. Allo stesso tempo, il concetto di contaminazione, inteso come mescolanza, interazione, o anche come perdita di purezza, si rivela straordinariamente fertile sia in campo scientifico sia filosofico e culturale. Esplorare il rapporto fra questi due ambiti significa addentrarsi in un territorio dove la distinzione tra soggetto e oggetto, osservatore e osservato, ordine e disordine si fa sempre più sfumata.

Fin dalle origini, la meccanica quantistica mette in discussione i principi della fisica classica. Come scrive Niels Bohr: «Chi non rimane scioccato dalla teoria quantistica, non l’ha capita» (N. Bohr). Il principio di indeterminazione di Heisenberg sancisce che è impossibile conoscere contemporaneamente posizione e quantità di moto di una particella con precisione assoluta. Questa "indeterminatezza" è già di per sé una forma di contaminazione rispetto all’idea di una realtà separata e perfettamente conoscibile.

Un altro concetto cardine è l’entanglement quantistico, descritto da Erwin Schrödinger come «la caratteristica più profonda della meccanica quantistica». Quando due particelle sono entangled, il loro stato non può essere descritto separatamente: qualsiasi azione su una delle due "contamina" istantaneamente lo stato dell’altra, anche a grande distanza. Schrödinger osserva: «Ogni sistema composto cui si applica la meccanica quantistica è necessariamente contaminato dal contatto con il resto del mondo».

In ambito filosofico, la contaminazione è spesso vista come superamento del dualismo e della purezza originaria. Il pensiero di Donna Haraway, ad esempio, suggerisce che «noi non siamo mai stati puri, mai isolati, ma sempre co-costruiti insieme ad altre specie, tecnologie e ambienti» (Manifesto Cyborg, 1985). Analogamente, la fisica quantica ci ricorda che nessun sistema può essere considerato veramente isolato: la semplice presenza dell’osservatore contamina inevitabilmente il fenomeno osservato.

Werner Heisenberg afferma: «Ciò che osserviamo non è la natura in sé, ma la natura esposta al nostro metodo di interrogazione». L’atto stesso di osservare in meccanica quantistica comporta una contaminazione irreversibile dello stato del sistema, poiché l’osservatore e l’osservato sono legati indissolubilmente.

Infine, si può affermare che la contaminazione non è solo perdita di purezza, ma anche fonte di creatività e innovazione. Edgar Morin scrive: «Il pensiero complesso è un pensiero che accetta la contaminazione, l'incertezza, la contraddizione e la pluralità dei punti di vista» (La Méthode, 1977). Nella meccanica quantistica, così come nella cultura contemporanea, la contaminazione diventa quindi condizione necessaria per la generazione di nuove forme di conoscenza. La relazione tra fisica quantistica e il concetto di contaminazione attraversa scienza, filosofia e cultura. Nella realtà descritta dalla meccanica quantistica, la contaminazione non è un’anomalia da eliminare, ma una proprietà essenziale che ci invita a ripensare le nostre categorie di purezza, separazione e identità. Come sostiene Karen Barad: «La questione non è come le cose interagiscono, ma come sono già sempre intrecciate e contaminate nell’essere e nel divenire» (Meeting the Universe Halfway, 2007).

 

lunedì 1 settembre 2025

Jacques Derrida e il concetto di contaminazione nella decostruzione

 




Una riflessione critica sulla decostruzione derridiana e l'interazione fra tradizioni

 

Paolo Cugini

 

Jacques Derrida (1930-2004), filosofo franco-algerino, è universalmente riconosciuto come il padre della decostruzione, una metodologia di lettura e di pensiero che ha rivoluzionato i modi di intendere il testo, il senso e la tradizione. Uno dei punti importanti della sua riflessione è il concetto di “contaminazione”, termine che assume una valenza positiva e strategica non solo nella critica letteraria, ma anche nell’interpretazione dei testi religiosi, dei sistemi di pensiero e delle tradizioni culturali.

La decostruzione, secondo Derrida, è il movimento che evidenzia le tensioni, le contraddizioni e le aporie all’interno di un testo, rivelando come nessuna costruzione teorica, nessun sistema, possa essere considerato puro o autosufficiente. L’idea di contaminazione emerge come antidoto alla logica identitaria e alla ricerca di una origine incontaminata. In Della grammatologia (1967), Derrida afferma che “il testo è sempre già contaminato da ciò che non è lui”, sottolineando che nessun senso può essere pensato come isolato e che ogni significato si genera nell’interazione e nella differenza. La contaminazione, in questo contesto, non va intesa come un difetto o un’intrusione negativa, ma come la condizione stessa della possibilità di senso: “La purezza non è mai data, è sempre costruita contro, per esclusione o per differenziazione di un’alterità che necessariamente la contamina.” (Derrida, La disseminazione, 1972).

Quando Derrida si confronta con la lettura dei testi religiosi, la sua critica della purezza acquista una portata etica e politica. Nel saggio Fede e sapere (1996), Derrida mostra come ogni religione, ogni tradizione spirituale, sia irrimediabilmente segnata dalla contaminazione di altre narrazioni, pratiche, rituali e linguaggi. Non esiste una tradizione religiosa che possa essere separata da influenze esterne; anche i testi sacri sono il risultato di sedimentazioni, traduzioni, interpolazioni e riscritture. “Non c’è nessuna religione che possa affermarsi nella purezza della sua origine: ogni fede è attraversata, alterata, modificata dall’incontro, dallo scambio, dalla traduzione.” (Derrida, Fede e sapere). Questo significa che la ricerca di una “origine pura”, sia in una religione, sia in una cultura, è una costruzione ideologica che serve a delimitare confini identitari e a escludere l’alterità. Al contrario, la contaminazione diventa uno spazio di apertura, di dialogo e di ospitalità. L’approccio derridiano non si limita a una critica epistemologica, ma si traduce in una vera e propria etica della contaminazione. In Addio a Emmanuel Lévinas (1997), Derrida riprende il tema dell’ospitalità, mostrando come l’apertura all’altro e la disponibilità “a essere contaminati” siano le condizioni della giustizia e della responsabilità. “L’ospitalità è sempre la possibilità di essere affetti, trasformati, contaminati dall’altro che accolgo.” (Derrida, Addio). Questa visione si riflette anche nella lettura dei testi religiosi, dove l’interpretazione deve accettare la possibilità di essere “contaminata” da altri sensi, altre tradizioni, altri linguaggi, senza volerli neutralizzare o assorbire. Derrida rifiuta ogni idea di confine rigido tra le tradizioni, proponendo la contaminazione come processo creativo e generativo. In Il monolinguismo dell’altro (1996), la contaminazione linguistica diventa metafora del dialogo tra culture e religioni. La lingua, come la tradizione, è sempre già attraversata da tracce di altre lingue, e proprio per questo è vivente: “Non parliamo mai una lingua pura. Ogni parola, ogni testo, ogni tradizione è attraversata dalla differenza, dalla traccia di un’alterità che la costituisce.” (Derrida, Il monolinguismo dell’altro). In questo senso, la decostruzione mostra che la contaminazione è la condizione stessa di ogni identità: non un pericolo, ma una risorsa.



Quando si leggono i testi religiosi con lo sguardo derridiano, si scopre che ogni sacralità, ogni dogma, è il risultato di una stratificazione storica, di una contaminazione con testi precedenti, paralleli o estranei. La Bibbia, il Corano, i Veda, sono testi che portano la memoria di lingue, tradizioni e culture differenti, e ogni tentativo di purificarli è destinato a fallire. La lettura decostruzionista, dunque, invita a riconoscere le tracce di altre tradizioni all’interno di ogni testo sacro, accogliere la contaminazione come apertura verso nuovi sensi e nuove interpretazioni; vivere la diversità non come minaccia, ma come possibilità di ospitalità e di giustizia.

Anche le pratiche e i rituali religiosi, osserva Derrida, sono il risultato di contaminazioni. Le liturgie cristiane, ad esempio, hanno incorporato elementi pagani, e le festività religiose sono spesso intrecciate con tradizioni popolari e folkloristiche. In Fede e sapere, Derrida scrive: “Le pratiche non sono mai pure: sono il frutto di una moltitudine di incontri, negoziazioni, adattamenti.” Questa consapevolezza permette di superare le rigidità dogmatiche e di accogliere la pluralità come ricchezza. Il tentativo di preservare una tradizione nella sua presunta purezza, secondo Derrida, conduce inevitabilmente all’esclusione, alla violenza simbolica e materiale contro l’altro. La contaminazione, invece, è la via verso una società più giusta perché aperta alla differenza e alla trasformazione. In Politiche dell’amicizia (1994): “Il vero amico è colui che accetta la possibilità di essere affetto, modificato, contaminato dall’altro, senza perdere la propria ospitalità.”

Il concetto di “contaminazione” nella filosofia della decostruzione di Jacques Derrida si rivela un potente strumento per la lettura dei testi religiosi, delle tradizioni e delle culture. Nessuna tradizione, nessun testo, nessuna identità può essere pensata come “pura”, perché ogni senso si produce nell’apertura e nell’ospitalità verso l’altro. Vivere la contaminazione significa accogliere la differenza, riconoscere la traccia dell’altro, e lasciarsi trasformare dall’incontro. È in questa prospettiva che la decostruzione diventa non solo una teoria della lettura, ma una vera e propria etica dell’ospitalità.

 

sabato 30 agosto 2025

LA SOLIDARIETA’ SOTTO ATTACCO





 

La strana alleanza tra i cristiani tradizionalisti americani e l’estrema destra

 

Paolo Cugini


Negli ultimi decenni negli Stati Uniti si è osservato il consolidarsi di un’alleanza tra il cristianesimo tradizionalista e le formazioni dell’estrema destra politica. Questo fenomeno può apparire contraddittorio, soprattutto se si considera che molte delle idee cardine del cristianesimo — come la solidarietà, l’accoglienza del prossimo e la carità — sembrano in aperto contrasto con posizioni che, talvolta, respingono o svalutano questi stessi principi. Tuttavia, questa alleanza si fonda su radici culturali, storiche e teologiche profonde. In queste poche righe provo a spiegare perché una parte significativa di cristiani tradizionalisti americani sostiene ideologie e movimenti di estrema destra, che interpretano la solidarietà in chiave negativa.

Per comprendere il fenomeno contemporaneo, occorre risalire alle origini del rapporto tra cristianesimo conservatore e politica americana. Lo storico Kevin M. Kruse, nel suo libro One Nation Under God: How Corporate America Invented Christian America (2015), sostiene che il connubio tra cristianesimo tradizionale e politiche economiche di destra nasce già negli anni Quaranta e Cinquanta quando, imprese e leader religiosi si unirono contro il New Deal e la crescente influenza dello Stato sociale. Secondo Kruse, a partire da quegli anni il cristianesimo venne progressivamente associato ai valori dell’individualismo, della libertà economica e della diffidenza verso l’intervento pubblico, visti come "minacce" alla libertà dell’individuo.

L’antropologa Kristin Kobes Du Mez, in Como o evangelho foi cooptado por movimentos culturais e politicos (2019), mostra come l’evangelicalismo bianco americano abbia promosso una visione del cristianesimo come baluardo di valori conservatori — autorità, ordine, patriottismo — spesso in contrasto con un’idea di solidarietà collettiva o responsabilità sociale e orientato piuttosto alla difesa della "legge e dell’ordine" contro ogni forma di dissenso o rivendicazione dei diritti civili. Per comprendere perché la solidarietà sia vista in chiave negativa da molte formazioni di estrema destra, è utile fare riferimento al pensiero di Patrick J. Deneen, docente di Scienze Politiche a Notre Dame e autore di Cambio di regime. Verso un futuro post-liberale (2025). Deneen spiega come una parte della destra americana ritenga che i progetti sociali collettivi — spesso associati al termine “solidarietà” — abbiano prodotto, in realtà, solo dipendenza e inefficienza, minando la libertà e la responsabilità individuale. Fra le fonti più citate dai tradizionalisti, c’è anche il pensiero di Ayn Rand, benché non cristiana. Rand, in La virtù dell’egoismo. Un concetto nuovo di egoismo (2023) sostiene la superiorità morale dell’individualismo e considera ogni forma di solidarietà obbligata come una minaccia alla dignità umana. Per Rand, la solidarietà imposta dallo Stato corrisponde ad una forma di schiavitù morale, che priva l’individuo della propria autonomia e lo costringe a farsi carico delle necessità degli altri. Molti leader cristiani tradizionalisti americani hanno integrato, in modo paradossale, questa visione nella loro predicazione pubblica, come sottolinea Michael Sandel in Giustizia. Il nostro bene comune (2013).



Un altro elemento decisivo è l’affermarsi, nel secondo dopoguerra, della cosiddetta "teologia della prosperità" (prosperity gospel), secondo cui il benessere personale e materiale è segno della benedizione divina. Secondo Kate Bowler, autrice di Blessed: A History of the American Prosperity Gospel (2013), questa teologia ha portato milioni di cristiani americani a identificare il successo individuale come volontà di Dio, svalutando ogni forma di solidarietà istituzionale e pubblica, vista come intromissione indebita nella relazione privata tra Dio e il credente.

La Guerra Fredda ha avuto un ruolo centrale nel rafforzare la diffidenza del mondo cristiano tradizionalista verso l’idea di solidarietà. Nel contesto americano, infatti, la solidarietà veniva associata al socialismo o, peggio, al comunismo sovietico. Come sottolinea lo storico David W. Swartz in Moral Minority: The Evangelical Left in an Age of Conservatism (2012), ogni progetto di welfare, redistribuzione o protezione sociale veniva attaccato come potenziale "cavallo di Troia" delle ideologie ateiste e totalitarie. Da qui nasce una retorica che identifica la solidarietà con una minaccia diretta alla fede e ai valori fondanti della nazione e, allo stesso tempo, la minaccia di una possibile entrata del comunismo nel Paese.

Negli Stati Uniti contemporanei, secondo Robert P. Jones in The End of White Christian America (2016), molti cristiani tradizionalisti percepiscono una crisi di valori, accentuata dall’aumento della diversità etnica, dalla secolarizzazione e dalla perdita di centralità pubblica della religione. In questo contesto, l’estrema destra offre una narrazione rassicurante, incentrata sulla difesa di un’identità culturale e religiosa minacciata dagli stranieri, nella quale ogni forma di solidarietà universale viene guardata con sospetto, come se celasse una minaccia all’ordine tradizionale. Da qui si comprende la facile entrata nel pensiero comune americano delle idee dell’attuale Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e del suo disegno politico di purificare l’America dagli immigrati.

Un ruolo chiave è giocato dai media conservatori, come Fox News o The Christian Broadcasting Network, che promuovono una visione in cui le politiche di solidarietà sono rappresentate come strumenti di controllo statale e di corruzione morale. Secondo il sociologo Arlie Russell Hochschild nel libro: Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima (2016), molti cristiani tradizionalisti si riconoscono in una narrazione che vede l’estrema destra come difensore delle libertà religiose e individuali contro l’oppressivo "politicamente corretto" e le "ideologie globaliste" della solidarietà universale. L’appoggio dei cristiani tradizionalisti americani all’estrema destra che svaluta la solidarietà è il risultato di un intreccio di fattori storici, teologici, sociali e mediatici. Se il cristianesimo delle origini poneva al centro l’amore per il prossimo e la condivisione, quello americano contemporaneo — almeno nella sua versione tradizionalista e politicizzata — ha spesso privilegiato la difesa dell’individuo, della proprietà privata e delle libertà negative, percependo la solidarietà pubblica come minaccia. Preoccupante. 

 

 

martedì 26 agosto 2025

Il campo missionario di otto giovani reggiani nel quartiere Compensa di Manaus

 




Tre settimane di immersione nella realtà amazzonica, tra incontri, difficoltà linguistiche, accoglienza e nuove consapevolezze

 

 

Paolo Cugini

Otto giovani di Reggio Emilia, accompagnati e preparati dal Centro Missionario Diocesano, hanno vissuto tre settimane intense nel quartiere Compensa di Manaus, presso la parrocchia di san Vincenzo di Paola guidata da don Paolo Cugini, prete fidei donum della diocesi reggiana. Un’esperienza che si è conclusa, il 28 agosto 2025, con una verifica collettiva fatta di emozioni, interrogativi e proposte per il futuro.

Elena sottolinea come questa esperienza sia stata una ricchissima occasione di conoscenza, resa ancora più preziosa dall’ospitalità nelle famiglie locali. Tuttavia, la barriera linguistica ha rappresentato una difficoltà concreta: Elena suggerisce con convinzione la necessità di un minicorso di portoghese prima della partenza e desidera che in futuro si possano vivere periodi più lunghi nelle comunità riberinhas, dove il confronto con la realtà locale è ancora più diretto. Una riflessione che la accompagna riguarda la fede profonda degli abitanti, che però spesso si confronta con una povertà culturale dovuta all’assenza di altri libri oltre la Bibbia.



Maya confida che l’impatto iniziale sia stato molto pesante, ma presto la quotidianità condivisa con le famiglie ha permesso di cogliere la bellezza della semplicità e dell’essenzialità. Nascono in lei sentimenti contrastanti: senso di colpa per ciò che la storia europea ha lasciato su questa terra, rabbia per la gestione locale, gratitudine per la libertà e il benessere europeo. Maia riflette su quanto la libertà sia limitata nel quartiere e su come sia necessario vivere questa realtà per comprenderne la profondità. L’importanza di una guida durante l’esperienza viene evidenziata come fondamentale.

Lucia individua nella lingua la barriera maggiore, spesso aggravata dalla difficoltà degli altri a comprendere cosa si cerca di comunicare. Lucia racconta di aver incontrato persone dal passato difficile ma ricco, e nota una differenza di apertura tra Compensa e le comunità riberinhas, dove si percepisce più dialogo. Ciò che più la colpisce è la testimonianza viva della fede, che si concretizza nella vita di tutti i giorni, e l’accoglienza ricevuta, che le insegna a vivere con poco. Le case sulle rive del fiume sembrano lussuose in confronto a quelle del quartiere; la consapevolezza che per molti quella non sia una parentesi ma la vita di sempre la colpisce profondamente.

I giovani con alcune delle famiglie ospitanti


Federica racconta di aver fatto molta fatica a inserirsi e si interroga sulla mancanza di strumenti, nella gente, per porsi domande nuove. Tuttavia, la partecipazione all’incontro dei gruppi giovanili in parrocchia le regala uno dei momenti più intensi, grazie a un coinvolgimento affettivo forte e sentito.

Laura ricorda la paura iniziale e la sensazione di pericolo diffuso, che nel corso delle settimane lascia spazio a una visione più aperta e fiduciosa. L’accoglienza calorosa delle famiglie contribuisce a scardinare molti preconcetti, mentre la lingua resta un ostacolo importante. Laura considera prezioso anche il sostegno della comunità intorno alla parrocchia.

Davide viene colpito dalla sporcizia diffusa e dalla scarsa consapevolezza della stessa da parte della popolazione. Ammira il lavoro del parroco che cerca di rendere concreti gli insegnamenti evangelici nella vita quotidiana. Propone per il futuro maggiore collaborazione pratica con la gente, anche in attività semplici come la preparazione dei pasti.

Visitando una delle zone più degradante del quaritere Compensa 




Giuseppe descrive il clima come pesante e lascia l’Amazzonia con più domande che risposte. Ammira la capacità della comunità di incarnare il Vangelo, che si fa concreto nella solidarietà attorno alla parrocchia. Si interroga su quanto il benessere possa invece rendere le persone diffidenti e distanti e riflette su quanto sia difficile, per sé, abbandonare tutto come suggerisce il Vangelo, meditato con le comunità.

Simone evidenzia come la semplicità della vita e una diffusa ignoranza abbiano avuto su di lui un impatto forte, ma sottolinea anche la grande accoglienza e la differenza nel modo di vivere la fede, dalla messa alla preghiera.

Sulla torre del MUSA dalla quale si vede la foresta amazzonica


Domande, prospettive e sfide future

L’esperienza ha fatto emergere, in tutti i partecipanti, la necessità di una preparazione linguistica più solida. L’incontro con la povertà materiale e culturale, ma anche con la fede viva e la solidarietà concreta, ha lasciato segni profondi e domande aperte: come vivere con meno, come mettere al centro la comunità, come portare a casa uno sguardo nuovo sul benessere e la libertà. Il campo missionario a Manaus si è rivelato un’esperienza trasformante per tutti. Ognuno e ognuna dei giovani ha sperimentato i propri limiti, ha condiviso la vita semplice e autentica della gente di Compensa, ha vissuto il Vangelo incarnato nel quotidiano. E, tornando a casa, porta con sé non solo nuovi pensieri, ma la consapevolezza che il mondo - e il proprio modo di abitarlo - può essere visto con occhi diversi, più aperti e più grati.

 

domenica 24 agosto 2025

La teologia dal basso: una lotta in favore degli esclusi ed emarginati

 




Riflessioni, pratiche e sfide del pensiero teologico che nasce dalla periferia

 

Paolo Cugini

Nell’ambito del pensiero contemporaneo, la teologia dal basso si distingue per il suo approccio radicale e inclusivo. Essa nasce dall’ascolto delle voci che spesso vengono ignorate, dimenticate o volutamente escluse dalle grandi narrazioni religiose: le persone emarginate, i poveri, i migranti, chi vive ai margini economici e sociali. Più che una disciplina accademica, la teologia dal basso è un movimento, una pratica comunitaria che pone al centro dell'indagine teologica le esperienze concrete e sofferte degli ultimi, degli oppressi e degli esclusi. È una teologia dell’ascolto, che pone al centro coro che di solito sono ai margini e si pone in cammino con loro. È importante sottolineare questo approccio esistenziale e relazionale richiede tempo, a volte molto tempo e non è detto che abbia esito. Si tratta, infatti, di avvicinare persone che solitamente non vengono considerate e, per questo, hanno prodotto dinamiche difensive, che ostacolano il dialogo immediato.

La Chiesa cattolica e altre confessioni cristiane hanno iniziato, seppure tra resistenze e contraddizioni, a riconoscere il valore di questa prospettiva. Si è dovuto, infatti, abbattere quelle resistenze sorte da una relazione conflittuale, dovuto alle dinamiche colonizzatrici messe in atto nel tempo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Creare relazioni di uguaglianza, rompendo il clima di sfiducia che si respira, è il primo passo importante per una relazione che possa produrre una riflessine teologica a partire dagli ultimi. Papa Francesco, con la sua attenzione ai poveri, ai migranti e agli esclusi, rappresenta un esempio di apertura verso una teologia che nasce dalla periferia. Le sue parole invitano a “una Chiesa povera per i poveri”, capace di ascoltare il grido degli oppressi e di agire concretamente contro l’ingiustizia.

È importante segnalare che, in molti contesti, parroci e religiose portano avanti progetti di inclusione, scuole popolari, mense sociali, case di accoglienza, laboratori di formazione. Tuttavia, il cammino è ancora lungo: persistono forti resistenze, discriminazioni, chiusure identitarie. La teologia dal basso rappresenta una sfida costante a non dimenticare il volto di chi soffre. È il cammino, del resto, che lo stesso Gesù ha percorso, il cammino dello svuotamento delle proprie categorie culturali che, per noi occidentali, sono di supremazia sugli altri. Svuotamento che ha come conseguenza immediata il farsi piccolo, servo per creare quella relazione paritaria che è l’unica capace di creare ascolto, attenzione autentica.

Questa prospettiva non è esente da critiche. Alcuni teologi e teologhe temono che il messaggio religioso venga ridotto a semplice azione politica o sociale, perdendo la sua dimensione spirituale e trascendente. Altri contestano la radicalità di alcune posizioni, che possono mettere in discussione dogmi e tradizioni consolidate. La sfida della teologia dal basso è mantenere un equilibrio tra la fedeltà al messaggio evangelico e la capacità di innovare, di reinterpretare la fede alla luce dei nuovi bisogni e delle nuove sofferenze. Serve dialogo, apertura, capacità di ascolto e discernimento. La teologia dal basso invita a ripensare profondamente il senso della spiritualità. Non una spiritualità individualista e ripiegata su sé stessa, ma una spiritualità incarnata, vissuta nella lotta quotidiana per la giustizia, la pace, la dignità. La fede diventa cammino, relazione, incontro: la preghiera si fa gesto concreto, la liturgia si trasforma in azione solidale. In questo senso, la teologia dal basso propone una nuova visione di Dio: non il Dio distante e giudicante, ma il Dio che abita le ferite del mondo, che si fa prossimo agli esclusi, che cammina con chi lotta per la vita, che si fa voce dei senza voce.

La teologia dal basso è molto più di una corrente teologica: è un appello alla responsabilità etica e sociale, una chiamata a trasformare il mondo a partire dalle sue periferie. Essa ci ricorda che la fede autentica si misura sulla capacità di riconoscere e amare il volto degli esclusi ed emarginati, di lottare per la giustizia e di costruire comunità accoglienti. In un’epoca segnata da crisi e disuguaglianze, la teologia dal basso invita a non voltarsi dall’altra parte, a raccogliere il grido degli oppressi e a camminare insieme, con coraggio e speranza, verso un mondo più umano e più giusto.