Paolo Cugini
Un aspetto sembra emergere
nell’attuale contesto culturale post-secolare, consiste nel fatto che non è più
in questione l’identità della religione, ma la sua funzione, sia in riferimento
all’individuo che alla sfera sociale. Questo aspetto sta provocando una nuova
situazione che consiste nella libertà di appropriarsi della simbologia religiosa
senza un percorso di appartenenza e i di collegarla ad altre simbologie
religiose, creando in questo modo una specie di “terzo spazio” nel quale si
generano “condizioni discorsive di enunciazione che si sottraggono al
significato e ai simboli della cultura qualunque unità o fissità primordiale” traducendoli
e reinterpretandoli a piacimento. Il teologo Dotolo ha fatto notare che questo
nuovo fenomeno, che potremmo definire di contaminazione culturale e religiosa,
è indizio di “una cresciuta consapevolezza antropologica: la reinvenzione
costante del concetto del Sé nella sua relazione con l’Assoluto, cui la
tradizione del pensiero orientale sembra offrire orizzonti ermeneutici più
congrui e convincenti”.
Questo cammino di
contaminazione culturale che le tradizioni religiose stanno vivendo nell’epoca
post-secolare, non solo rimette in gioco lo specifico della stessa religione,
non tanto nei suoi contenuti, la cui rigidità costituisce un ostacolo alle
contaminazioni, quanto sulle sue potenzialità creative rispetto al mondo della
vita, alla dimensione simbolica della realtà. Questo aspetto è probabilmente
uno dei motivi della disaffezione attuale nei confronti del cristianesimo,
perché segnata pesantemente da un apparato dottrinario venutosi a formare nei
secoli, considerato obsoleto e incapace d’interpretare le questiono vitali del
vissuto contemporaneo.
C’è chi ha fatto notare tra
le grandi religioni, sia il buddismo a recitare nell’attualità, il ruolo di
protagonista nello scenario della ricerca religiosa, per il fatto che in esso
il legame tra soteriologia ed etica costituisce le coordinate di riferimento
per un itinerario di riappropriazione da parte dell’uomo del proprio sé. C’è
infatti, nel buddismo, la proposta di una possibilità di mutamento
sperimentabile nel corso dell’esistenza, di un “nirvana” qui ed ora, che
provoca un certo fascino nell’uomo occidentale, deluso dalle religioni
dottrinali le cui promesse sembrano solamente destinate ad un al di là mai
verificabile. In questa prospettiva, la religione dà prova della sua
possibilità se i suoi contenuti sono esperibili nella concretezza del cammino
di trasformazione. Anche il
cristianesimo ha una simile offerta di trasformazione durante la vita, ma
attraverso strumenti che mediano con il soprannaturale. Per questo, secondo
Dotolo, “è proprio la particolare configurazione religiosa del buddismo il
punto di partenza di una riflessione sul dinamismo dell’esperienza religiosa
che sembra indipendente da una relazione con Dio”.
Il
riferimento al buddismo mostra uno degli sviluppi più significativi che il
dibattito attuale sulla religione sta verificando, vale a dire la possibilità
di una proposta religiosa senza Dio, che si concentri essenzialmente
sull’importanza del vivere bene, che chiama in causa la responsabilità di ogni
persona. Simile proposta la troviamo anche nell’elaborazione di alcune
religioni indigene che praticano il Sumak kawsay, vale a dire, il Ben
Vivere che è una filosofia, con riflessioni molto
concrete, che sostiene e dà senso alle diverse forme di organizzazione sociale
di centinaia di popoli e culture in America Latina. Sotto i principi della
reciprocità tra le persone, dell'amicizia fraterna, della convivenza con altri
esseri della natura e del profondo rispetto per la terra, i popoli indigeni
hanno costruito esperienze veramente sostenibili che possono guidare le nostre
scelte future e garantire l'esistenza umana. In altre parole, mentre la
prospettiva teista esige un Dio per la fondatezza dei valori referenziali
dell’esistenza, per l’ateismo religioso vivere bene è motivo sufficiente
dell’esistenza umana. Proprio per questo tipo di proposte secondo Dotolo quello
che viene definito ateismo religioso, vale a dire la religione che non fa
riferimento a Dio, ad un essere trascendente, ma che si basa esclusivamente sul
piano immanente, non è in conflitto con lo specifico della religione, anzi è
capace di ridare senso a contenuti che il discorso teista ha reso confuso nel
contesto culturale post-moderno. “Se la religione contribuisce alla biologia e
biografia della condizione umana è perché introduce un valore trascendente, il
cui peso non dipende da un’alterità rivelativa, ma dalla sua stessa capacità di
incrementare la qualità della vita. Il problema di fondo tra posizione teista e
ateista consiste nella fondazione dei valori assunti. Mentre, infatti, il
teismo ha come punto di riferimento un’entità trascendente, alla quale delega
le risposte del suo sistema di valori, il punto di riferimento della visione
atea consiste la positività degli stessi valori. La qualità dei valori della
vita non dipende, nella posizione atea della religione, da forze esterne alla
dimensione immanente della stessa vita, perché “ciascuno ha la responsabilità
etica innata e inalienabile di cercare di vivere il meglio possibile data la
propria situazione”.
L’esistenza umana, dunque, può essere organizzata
sulla base di un’oggettività valoriale basata sulla riconoscenza universale
degli stessi valori, che può variare di epoca in epoca, ma che diventa
significativa per l’epoca che li assume, senza il bisogno di proiettare lo
schema valoriale in una realtà trascendente di opinabile verificabilità. C’è la
possibilità di una vita degna e piena di significato, senza bisogno di far
riferimento a Dio e, dunque, senza il bisogno di dottrine, dogmi, elucubrazioni
teologiche. Ciò che è indispensabile, sostiene sempre Dworkin, non è l’opinione
di Dio, ma il giudizio previo “che esiste una verità etica e morale oggettiva
di cui si può ritenere che qualcuno sia esperto. Questo giudizio previo non
dipende da alcun assunto teista: è disponibile tanto a un ateo quanto a un
ateista. A patto, cioè, che l’ateo sia un ateo religioso”.
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