venerdì 1 agosto 2025

La necessità di una teologia dal basso

 



Riflessioni su una fede incarnata nella storia delle persone

 

Paolo Cugini

Nell’ampio panorama del pensiero teologico contemporaneo, si fa sempre più strada la consapevolezza che la teologia non possa più essere costruita solo “dall’alto”, come riflessione astratta e distante dai bisogni concreti delle persone. La richiesta di una “teologia dal basso” nasce dall’esperienza delle comunità, delle periferie, delle storie vissute spesso segnate da marginalità, esclusione, sofferenza, ma anche da speranza e resistenza. Questa esigenza non rappresenta semplicemente una moda passeggera nell’ambito accademico o pastorale, ma scaturisce da un movimento profondo nella storia della fede, del cristianesimo e delle religioni, verso una rilettura dell’esperienza di Dio a partire dalla vita reale di chi crede e di chi cerca.

La teologia “dal basso” si contrappone a una teologia “dall’alto”, incentrata spesso su sistemi dottrinali e dogmatici, prodotti da élite religiose e scolastiche, talvolta lontane dalle dinamiche quotidiane delle persone. “Dal basso” indica un movimento che parte dal popolo, dall’esperienza concreta, e dalla lettura della Parola in dialogo con la realtà sociale, culturale, politica ed economica in cui si vive.

Questa teologia si nutre dei racconti, delle lotte, dei sogni e delle ferite delle persone, specialmente di chi si trova ai margini: i poveri, le persone escluse, le vittime delle ingiustizie, le persone LGBTQIA+, le donne. Prende in considerazione anche quelle che la società dichiara come minoranze, come le popolazioni indigene, le diverse etnie vittime sterminio, ma anche i senza tetto, i nomadi, gli zingari. C’è tutto un mondo che vive nel sottosuolo della storia che viene escluso sistematicamente non solo dalla società che si narra dal proprio centro, ma anche dalla chiesa, dalle comunità cristiane vittime di una narrazione teologica. Non si tratta di sostituire una visione all’altra, ma di integrare la prospettiva della vita vissuta nella riflessione su Dio, sulla Chiesa, sul senso ultimo dell’esistenza.

La tradizione biblica stessa mostra come Dio si manifesti spesso a chi si trova nelle situazioni più difficili: Abramo chiamato dal deserto, Mosè che libera un popolo schiavo, i profeti che danno voce a chi non ne ha. Il Vangelo di Gesù è profondamente segnato da incontri con donne e uomini esclusi, ammalati, poveri, stranieri. La croce di Cristo è la massima espressione di un Dio che si unisce all'umanità ferita.

Nella storia della Chiesa, la tensione tra una teologia “ufficiale” e una fede popolare, vissuta nella concretezza della vita quotidiana, è sempre stata presente. Basti pensare alle devozioni popolari, ai movimenti di riforma, alle lotte per la giustizia sociale.

Negli ultimi decenni, esperienze come la teologia della liberazione in America Latina hanno reso evidente quanto la riflessione su Dio debba partire dall'esperienza concreta dei poveri e degli oppressi. Allo stesso modo, le teologie femministe, quelle queer, le teologie indigene e post-coloniali ci ricordano che ci sono molte voci, spesso taciute, che hanno qualcosa da dire sul mistero di Dio.

Viviamo in un’epoca attraversata da crisi multiple: crisi sociale, economica, ambientale e anche una profonda crisi di senso. In molte parti del mondo le istituzioni religiose sembrano lontane dalle reali esigenze delle comunità. In questo scenario, una teologia dal basso diventa non solo opportuna, ma urgente. Essa permette una rinnovata credibilità dell’annuncio cristiano, perché pone la persona – con la sua storia, le sue sofferenze e speranze – al centro dell’attenzione. Attraverso l’ascolto reale delle domande, delle inquietudini e delle attese che emergono dalla vita concreta, la riflessione teologica si fa più umana, più accessibile e più profetica. Una teologia dal basso offre inoltre uno spazio di riconoscimento alle esperienze di chi, per motivi di origine, classe sociale, etnia, orientamento sessuale o condizione economica, è stato storicamente escluso dai processi decisionali e dalla produzione teologica stessa.

Le esperienze di teologia dal basso hanno già prodotto frutti straordinari: maggiore attenzione all’inclusione, rilettura della Scrittura con occhi nuovi, dialogo interreligioso e interculturale, impegno per la giustizia sociale e per la pace. Si sono sviluppate prassi pastorali più attente alla partecipazione di tutte e tutti, valorizzando la ricchezza di esperienze differenti. Questa prospettiva non abbandona la ricerca della verità teologica, ma la radica nell’esperienza della comunità, nella condivisione, nel servizio concreto, nell’ascolto reciproco. In questo modo, la teologia smette di essere solo parola, diventando gesto, azione e scelta quotidiana.

Se da un lato la teologia dal basso apre nuovi orizzonti, dall’altro comporta delle sfide. La prima è evitare la frammentazione: ascoltare molteplici voci è ricchezza, ma richiede anche un lavoro di sintesi e discernimento. Inoltre, bisogna fare attenzione a non contrapporre in maniera radicale “alto” e “basso”, ma piuttosto alimentare un dialogo fecondo tra riflessione accademica e vita quotidiana. Un’altra sfida è il rischio del relativismo: porre al centro l’esperienza potrebbe portare a una dispersione di significato. Ma una teologia dal basso che si fonda sulla Scrittura, sulla tradizione viva e sul discernimento comunitario può mantenere saldo il proprio orientamento.

Guardando avanti, la teologia dal basso è chiamata a essere sempre più dialogica, plurale, attenta ai segni dei tempi. È una teologia che ascolta il grido della terra e dei poveri, come ricordava da Papa Francesco. È capace di assumere le domande delle nuove generazioni, delle minoranze, dei migranti, dei popoli indigeni, delle donne e delle persone LGBTQIA+. Sarà sempre più importante formare comunità capaci di discernimento e di ascolto, dove la riflessione su Dio nasca dal confronto e dall’esperienza condivisa, non solo dall’autorità o dalla dottrina. Una teologia dal basso non è una moda, né una semplice opzione tra le tante: è la risposta a un bisogno profondo delle nostre comunità e società. È un modo per ridare significato e forza all’annuncio cristiano, per costruire Chiese e società più giuste, aperte e accoglienti. Solo ascoltando chi cammina ai margini della storia, la teologia può davvero diventare parola viva, capace di cambiare il mondo.

 

giovedì 31 luglio 2025

Progetto di valorizzazione per i missionari rientrati nella Diocesi di origine

 



Idee, percorsi e proposte per una nuova fecondità pastorale

 

Paolo Cugini

Premessa

Il ritorno dei missionari e delle missionarie nella loro diocesi di origine rappresenta un dono prezioso e una risorsa spesso inesplorata per le comunità locali. Dopo anni di servizio missionario in contesti diversi, queste persone portano con sé un bagaglio umano, spirituale e culturale ricchissimo, che può contribuire a rinnovare la vita pastorale, la sensibilità ecclesiale e l’apertura al mondo. Tuttavia, la fase del rientro necessita di attenzione, ascolto e percorsi che permettano al missionario o alla missionaria di sentirsi nuovamente accolto/a e valorizzato/a. È a partire da questa sensibilità che provo ad elaborare e presentare una proposta, che possa aiutare da un lato, i missionari a rientrare nella diocesi di origine sentendosi accolti, voluti bene e, dall’altro, le diocesi a valorizzare la ricchezza di competenze acquisite negli anni di missione.

Il primissimo consiglio per una proficua valorizzazione del vissuto umano e spirituale dei missionari che rientrano dopo anni di servizio pastorale e sociale in mondi “altri”, potrebbe essere quella di accoglierli in comunità specifiche progettate e strutturate dal CMD locale e dal suo direttore, che prevede moment idi spiritualità, formazione e animazione missionaria. Mi sembra una grande mancanza di rispetto e di sensibilità gettare immediatamente nella pastorale locale persone che provengono da esperienze pastorali ed ecclesiali molto diverse, con la semplice preoccupazione di “coprire dei buchi scoperti”.

Obiettivi del Progetto

·         Accompagnare il reinserimento umano, spirituale e pastorale dei missionari rientrati.

·         Valorizzare e diffondere le competenze, le storie e i carismi maturati durante l’esperienza missionaria.

·         Sensibilizzare la comunità diocesana all’universalità della Chiesa e alla dimensione missionaria della fede.

·         Favorire nuove forme di impegno, testimonianza e animazione missionaria nelle parrocchie e nei diversi ambiti diocesani.

Percorsi di accompagnamento e accoglienza

·         Colloqui di ascolto e accompagnamento: Incontri personali con il vescovo, referenti diocesani e figure di supporto per raccogliere le esperienze vissute, accogliere eventuali fatiche e individuare percorsi di reinserimento personalizzati.

·         Laboratori di condivisione: Organizzazione di gruppi di confronto tra missionari rientrati e altri operatori pastorali per riflettere sulle sfide del ritorno e sulle potenzialità di servizio nella nuova fase della vita.

·         Momenti di preghiera e celebrazione: Liturgie di ringraziamento, testimonianze in assemblea, eventi pubblici per accogliere i missionari e far sentire il calore della comunità.

Valorizzazione delle competenze e delle esperienze

Nelle diocesi in cui è attivo un Centro Missionario Diocesano, potrebbe essere affidato a questo organismo l’organizzazione di alcuni momenti specifici come:

·         testimonianze nelle parrocchie e nelle scuole: organizzazione di incontri in cui i missionari possano raccontare la loro esperienza, sensibilizzando bambini, giovani e adulti all’apertura verso l’altro e alla missione.

·         Formazione missionaria: coinvolgimento dei missionari nei percorsi di preparazione di nuovi volontari, catechisti, operatori pastorali, con moduli dedicati alla mondialità, al dialogo interreligioso e alla giustizia sociale.

·         Partecipazione agli organismi diocesani: Inserimento dei missionari rientrati in équipe di formazione, commissioni pastorali, centri di ascolto e gruppi di lavoro per arricchire la progettualità della diocesi.

Iniziative di sensibilizzazione e coinvolgimento della comunità

·         Giornate missionarie: Promozione di eventi periodici dedicati alla missionarietà, con mostre fotografiche, mercatini solidali, testimonianze e laboratori interculturali. Il CMD potrebbe organizzare un calendario permanente di questi eventi che, allo stesso tempo, esigono una costante raccolta di materiale dalle missioni.

·         Animazione liturgica e catechesi: Inserimento di temi missionari nelle omelie, nella formazione liturgica, nelle catechesi e nei percorsi di formazione diocesana, valorizzando il contributo diretto dei missionari rientrati.

·         Collaborazione con associazioni e ONG: Attivazione di sinergie tra diocesi, organizzazioni missionarie e realtà del territorio per progetti di solidarietà, scambio culturale e volontariato internazionale. Questa è una caratteristica specifica dei missionari che, vivendo e attuando per anni i realtà sociali caratterizzate dalla povertà e dalla marginalizzazione, vengono a contatto con organismi, non solo ecclesiali,  presenti sul territorio con i quali collaborano in rete per risolvere assieme i problemi incontrati.

Proposte di coinvolgimento pastorale

Anni di servizio pastorale attivo dovrebbero aver condotto i missionari ad assumere competenze specifiche di tipo ecclesiale e sociale.

·         Valorizzare le competenze ecclesiali. Nel nuovo contesto pastorale costituito dalle Unità Pastorali, i missionari, soprattutto presbiteri, che per anni hanno accompagnato parrocchie formate da decine di comunità, possono aiutare i presbiteri locali a vivere in modo più sereno il loro compito, nel coinvolgimento dei laici e delle laiche.

·         Nuove responsabilità pastorali: affidare ai missionari compiti di coordinamento, formazione, animazione missionaria o accompagnamento dei giovani in discernimento.

·         Progetti di cooperazione internazionale: Sfruttare le reti e le relazioni costruite all’estero per avviare gemellaggi, scambi e progetti di sviluppo tra la diocesi e altre Chiese sorelle.

·         Accompagnamento spirituale: Offrire ai missionari spazi e tempi di accompagnamento spirituale, rilettura dell’esperienza e discernimento vocazionale per individuare nuovi cammini di servizio.

Conclusione

Valorizzare i missionari e le missionarie rientrati rappresenta una grande opportunità per l’intera diocesi: significa aprirsi all’universalità della Chiesa, arricchire le comunità con testimonianze vive e favorire percorsi di rinnovamento pastorale e spirituale. Il loro ritorno può diventare un seme di speranza e di rinnovamento per tutti e tutte, se accolto con attenzione, creatività e spirito di comunione. Crediamoci.

 

 

mercoledì 16 luglio 2025

UNITA’ PASTORALI: PERCHÉ NON FUNZIONANO?

 





 

Paolo Cugini

 

Se le guardiamo da vicino le Unità Pastorali son un modo positivo di attualizzazione dell’ecclesiologia del Vaticano II. Il problema è che non funzionano: perché?

Non basta cambiare il modello ecclesiologico, ma occorre mettere mano anche al modello del ministero ordinato. Infatti, il tipo di presbitero che abbiamo oggi in Occidente è calibrato sul modello pastorale di parrocchia, la quale funziona con la presenza di un parroco. La nuova proposta pastorale avanzata con le Unità Pastorali esige un tipo di presbitero totalmente diverso. La domanda a questo punto potrebbe essere: che specificità dovrebbe avere il ministro ordinato nell’impostazione dell’Unità Pastorale?

Le Unità Pastorali sono un insieme di parrocchie e, di conseguenza, dovrebbero avere una guida pastorale capace di accompagnare le singole comunità. Questo è un primo importante aspetto del problema. Non si può pesare e pretendere, come invece purtroppo sta avvenendo, di accompagnare la vita pastorale delle Unità Pastorali come se fossero delle parrocchie: sarebbe la morte delle singole comunità. Il calo progressivo e inarrestabile di preti, che ha portato alla formazione delle Unità Pastorali, esige un ripensamento radicale del ministero presbiterale. Il rischio che stiamo già vedendo ogni giorno è pretendere dal prete che faccia tutto quello che avrebbe fatto, come se fosse il parroco di una parrocchia, mentre nell’Unità Pastorale a volte le parrocchie sono più di cinque. La conseguenza che è sotto gli occhi di tutti è il malessere dei nostri presbiteri, che devono correre come dei pazzi per chiudere tutti i buchi e, allo stesso tempo, il malessere dei parrocchiani che si sentono abbandonati perché, come dicono: “il prete non c’è mai”. Cambiare il modello pastorale senza cambiare il modello di presbitero sta producendo un’insoddisfazione generalizzata, che sta conducendo anche molti adulti ad abbandonare le parrocchie, anche perché, in quei baracconi senza identità che sono le attuali Unità Pastorali, non ci si riesce proprio ad identificare.

Ci vorrebbe un tipo di parroco totalmente diverso da quello attuale.  In primo luogo, bisognerebbe capire che è necessario accompagnare le singole comunità: questo è il punto di partenza. Se c’è una nuova identità pastorale identificata nell’Unità Pastorale, questa non può eliminare il cammino di parrocchie che, nella nostra realtà, hanno alle spalle secoli di storia. Occorre, allora un parroco capace di condurre più comunità nella comunione e nell’unità rispettando, però, le diversità dei cammini. Ciò sarà possibile solamente individuando collaboratori all’interno di ogni comunità, con la responsabilità riconosciuta di essere guide della comunità in collaborazione con il parroco.

Porre dei laici e laiche come guida di comunità è fondamentale per il buon esito del cammino dell’Unità Pastorale, ma non basta. Occorre, infatti, un duplice lavoro di formazione, In primo luogo occorre che il parroco dell’UP si metta in cammino con i responsabili di comunità indicati. Non basta indicare qualcuno e investirlo, investirla in un ruolo di guida: occorre aiutare ad assumere questo ruolo nel cammino quotidiano delle comunità. Il rischio è sempre il fantomatico clericalismo, che può infettare anche laici e laiche che, dopo essere stati investiti si un ruolo, si sentono i padroni delle comunità. Il secondo lavoro formativo è con i laici e le laiche delle comunità. Abituati da secoli ad avere come punto di riferimento un prete, occorrerà aiutarli ad entrare in questa nuova modalità pastorale.

Il problema, a questo punto è capire come formare i presbiteri al nuovo contesto pastorale? In primo luogo, dovrebbero capirlo i vescovi. Che cosa sta, infatti avvenendo, in questo nuovo contesto religioso? Siccome stanno scarseggiando i preti e non si riescono più a celebrare le messe domenicali come un tempo, si importano preti là dove le vocazioni sono in aumento, come l’Africa e l’India. Si fa questo perché si ha paura a cambiare modello, anzi, non ci si pensa proprio.

Ci sono diocesi, come quella di Reggio Emilia e Guastalla, che hanno investito pesantemente nelle missioni, inviando non solo laici, laiche, suore e religiosi, ma anche molti presbiteri. Solo in Brasile sono stati inviati più di trenta preti. Perché sottolineo questo aspetto missionario? Perché i presbiteri che hanno vissuto anni in Brasile sono stati abituati ad amministrare parrocchie con un grande numero di comunità. Non si apprende ad accompagnare tante comunità leggendo dei libri di ecclesiologia o di pastorale teologica, ma facendo pratica sul posto. I missionari fidei donum che sono stati in Brasile hanno appreso sul campo a valorizzare i laici e le laiche, a lavorare sulla loro formazione, a creare comunione tra le decine do comunità di una parrocchia valorizzando ogni singola comunità. Il vescovo della Diocesi di Ruy Barbosa, che ho servito per 15 anni, realizzava il sacramento della cresima in ogni singola comunità: non ha mai fatto l’ammucchiata, perché voleva dare valore al cammino di ogni singola comunità.

Siamo in una fase delicata del nostro cammino ecclesiale e nessuno ha la formula esatta in tasca. Il rischio è fare delle scelte con l’unico obiettivo si conservare ciò che si ha, senza avere il coraggio di cambiare rotta. Credo che l’attuale situazione ecclesiale offra chiare indicazioni della necessità di cambiare impostazione, di ascoltare i segni dei tempi e riconoscerli, uscire dalla mentalità che identifica la comunità con il presbitero per valorizzare i laici e le laiche in un nuovo cammino di comunione con i presbiteri. In questo nuovo cammino proviamo a metterci n ascolto dei missionari che hanno già sperimento questa nuova modalità pastorale. Ascoltare non significa riprodurre alla pari un’esperienza che appartiene ad un altro continente, ma semplicemente farsi consigliare, confrontarsi e capire, così, che nella ricerca di nuovi percorsi non siamo soli, perché lo Spirito Santo ha già preparato il terreno. Non chiudiamoci alla voce dello Spirito.

martedì 8 luglio 2025

C’E’ ANCORA TEMPO

 



 

Paolo Cugini

 

Forse uno dei più grandi errori commessi nella cristianità è stato quello di far credere che Dio era presente in modo esclusivo nella Chiesa Cattolica. Del resto, la famosa frase attribuita a San Cipriano che nel III sec. D. C: affermava: “extra ecclesiam nulla salus”, dice tutto. Le parrocchie si sono strutturate attorno a questa affermazione, divenendo, nel tempo, baluardi della difesa della giusta dottrina su Dio. Fuori c’era il mondo, il demonio. Solo dentro la Chiesa ci trovava la salvezza. E Dio dov’era?

Poi ci sono state le crociate, la Santa Inquisizione e la caccia alle streghe: tutte cose nell’ordine del controllo della presunta verità da parte dell’istituzione ecclesiale che, quanto più si allontanava dal Vangelo, tanto più irrigidiva la sua dottrina a scapito dell’autentica verità evangelica e, soprattutto, delle tante persone torturate e uccise. Poi c’era il Papa con il suo esercito e nessuno si chiedeva se aveva senso che un Papa, rappresentante di Cristo nella terra avesse un esercito. Quante pagine di storia fasulla sono state scritte per giustificare tutte queste porcherie.

Esercitare il controllo sulla verità è stato il grande errore dell’Occidente. È un peccato di presunzione, che ha condotto allo stermino di popoli, culture e religioni altrui. Ogni volta che l’Occidente cristiano ha incontrato popoli culturalmente e religiosamente diversi, non ha applicato l’insegnamento di Gesù dell’amore vicendevole, ma il principio dello sterminio, messo in atto da Giosuè, quando entrò nella fatidica terra promessa. Chi semina violenza raccoglie odio. Chi vuole a tutti i costi imporre la propria verità, diventa un menzognero, perché la verità non si trova nell’odio e nella guerra, ma nella pace e nell’amore.

Eppure, bastava poco. Bastava mettersi in ascolto, invece di starnazzare la propria presunta verità. Presunta, perché quello che l’Occidente cristiano ha cercato di difendere con i denti, anche attraverso lo sterminio di popoli e culture, non era il Vangelo che diceva di voler difendere, ma un’altra cosa, un sistema di potere, che nulla aveva a che fare con gli insegnamenti di Gesù, un sistema inquisitorio e oppressivo, che nulla aveva a che fare con lo stile dialogico del Maestro di Nazaret.

Se solo si fossero messi in ascolto! Avrebbero scoperto che lo Spirito soffia dove vuole e che nessuno al mondo può arrogarsi il diritto di controllarlo. Avrebbero colto la presenza del Mistero nella storia degli uomini e delle donne dei popoli, delle culture e delle religioni, che sono sparse nel mondo. Avrebbero compreso che lo Spirito è amore e che suscita amore in tutti coloro che lo accolgono. Avrebbero percepito che lo Spirito Santo soffia dentro e fuori di noi per costruire ponti di comunione e non per sollevare muri di separazione. Se gli uomini presuntuosi della Chiesa si fossero messi in ascolto di coloro che incontravano, avrebbero scoperto che lo Spirito Santo era già lì presente e si era inserito nel cammino di quella cultura, di quel popolo, di quella religione.

Se ci fosse stato sin dall’inizio l’atteggiamento di ascolto dell’altra, dell’altro, messo in atto da Gesù e fosse stata messo in pratica il suo stile dialogico e accogliente, forse il mondo non sarebbe messo così. Non tutto è perduto. C’è ancora tempo per metterci in cammino ed ascoltare la presenza del Mistero in tutto ciò che vive, deponendo la pretesa d’incasellarlo in una unica fonte di categorie razionali. Perché il Mistero è molto più che uno schema razionale.  Adesso che abbiamo capito la lezione, possiamo vivere in modo diverso il messaggio di Gesù. C’è ancora tempo per permettere allo Spirito di agire dentro alle nostre vite, per fargli spazio. C’è ancora tempo.