lunedì 20 giugno 2016

LA PROFEZIA DEL POPOLO DI DIO





Paolo Cugini
Si vede da lontano che stiamo vivendo una fase di cambiamento culturale che sta coinvolgendo anche la chiesa. Quello che invece non è molto chiaro è la direzione, il cammino che dobbiamo intraprendere per non rimanere travolti dagli eventi. Sul territorio italiano sono in atto differenti e contradditorie esperienze con l’intento di arginare il problema della scarsità del clero. Ci sono diocesi che stanno risolvendo il problema del calo delle vocazioni sacerdotali importando preti da tutte le parti del modo. Altre diocesi invece, hanno deciso di affrontare il problema ristrutturando la geografia diocesana con la proposta delle unità pastorali. Naturalmente si tratta sempre di decisioni prese da vescovi, preti, consigli presbiterali, vale a dire dagli addetti ai lavori. Di chiedere qualcosa al popolo di Dio a nessuno viene in mente. Il popolo è così abituato a subire passivamente le decisioni che piovano dall’alto, che sembra proprio andar bene così.

 Che il problema delle comunità locali sia tutto legato alla scarsità di clero è molto discutibile, soprattutto se si comparano i dati con altre regioni del mondo. Senza dubbio, è numericamente scarso il clero diocesano per come viene intesa la sua funzione all’interno della comunità locale. Se, infatti, la comunità esiste se vi è un presbitero che vi celebra i sacramenti, allora la crisi è evidente. Forse però, il problema non è nel numero dei presbiteri, ma altrove, vale a dire da come osserviamo l’evento dell’evangelizzazione, da come valutiamo la possibilità di annunciare il Vangelo nel contesto attuale. È come se facessimo tutti gli sforzi possibili di imbrigliare la cultura postmoderna di recente formazione con l’apparato ecclesiologico in nostro possesso, che evidentemente non brilla di novità, di capacità di adattamento al nuovo. Dire che si tratta di roba vecchia, d’impostazione desueta, ormai incapace di rispondere alle esigenze del momento sembra di dire una bestemmia. I dati, però confermano la necessità di pensare qualcosa di nuovo, di tentare nuovi cammini per fare in modo che le comunità locali riacquistino il vigore delle origini, che diventino, cioè luoghi nei quali si percepisce la presenza del Signore, dove la fraternità e la condivisione sono il pane quotidiano.

C’è tutto un mondo cattolico che tutte le volte che sente la parola novità si sente male, dà segni d’insofferenza. Pensare che sia necessario cambiare impostazione a partire dal nuovo contesto è considerato un assurdo, perché metterebbe in discussione la verità che, per definizione, così pensano loro, è inalterabile, immobile. È interessante come dinanzi ad ogni problema emergano le diverse impostazioni teologiche di riferimento. Mi vengono in mente le parole di Papa pio XII che nell’Enciclica Humani Generis del 1950 si scagliava contro la nuova teologia, che in quel tempo si stava sforzando di dialogare con il mondo scientifico e con la cultura laica. Lo faceva tentando cammini nuovi grazie anche alle ricerche che un gruppo di teologici stava realizzando nel campo dell’esegesi, della patristica e della liturgia. Il nuovo fa paura a tutti coloro che identificano la verità con un’idea, con una teoria, dimenticando così che il nostro riferimento della verità è Gesù Cristo, che si è incarnato nella storia ed ha camminato con noi. È la storia il luogo nel quale è necessario pensare e cogliere la verità e gli eventi storici cambiano, come cambiano i contesti culturali.  Questo vale anche per il modello di chiesa che stiamo cercando in questo periodo di cambiamento epocale. Cambiare modello non significa dire addio alla verità, ma di coglierla nella sua attualità, nel suo modo di manifestarsi nell’oggi della storia.

Siamo come intrappolati dagli schemi ecclesiologici creati nel passato, incapaci di pensare qualcosa di differente, di guardare l’evento con occhiali diversi, da un’altra prospettiva da come l’abbiamo sempre osservato. Eppure i testi biblici sono pieni d’indicazioni che c’invitano a dimenticarci del passato e a guardare avanti, ad essere disponibili alle cose nuove che il Signore vuole creare con noi (cfr. Is 43,18-28; Fil 3,21). È certo che, se un cambiamento di rotta sarà necessario nel modo d’intendere la chiesa, la comunità locale, non lo potremo aspettare dall’Istituzione che, per definizione, si struttura per difendere la tradizione, la continuità. Anche vescovi illuminati o per così dire profetici, non riusciranno mai cambiare il modo di vedere, a porre delle scelte al passo con i temi, capaci di scardinare dall’interno modelli obsoleti. C’è bisogno di qualcosa d’altro.


 E allora, dove dovrebbero intervenire delle discontinuità nel modo d’intendere e di vivere la comunità locale? Chi ci potrà salvare dall’immobilismo ecclesiale? Chi potrà indicare la luce del nuovo cammino? Chi ci salverà dalla puzza di muffa che sembra soffocarci? Senza dubbio la base, vale a dire il popolo di Dio. È il popolo che possiede la luce della profezia.  Questo Popolo di Dio così significativo nell’impostazione del Concilio Vaticano II, ma che troppo alla svelta lo si è relegato negli studi teologici di alto livello, togliendolo dalla possibilità d’incidere nella storia, è la risorsa che abbiamo per inventare qualcosa di nuovo.  Non c’è bisogno, infatti, del consenso del vescovo per annunciare il Vangelo, per proporre delle liturgie più inculturate, per pensare a cammini nuovi per vivere la comunità in un mondo sempre più secolarizzato e scristianizzato. Forse ci potrà venire in mente di non far coincidere la comunità con il ministro consacrato, ma di ritenere che il vero cuore della comunità sia il Signore. Detta così non sembra una novità sconvolgente, ma provando a pensare la comunità locale a partire da questo semplice dato originario, si può sognare e guardare lontano.