Paolo Cugini
Si vede da lontano che stiamo vivendo
una fase di cambiamento culturale che sta coinvolgendo anche la chiesa. Quello
che invece non è molto chiaro è la direzione, il cammino che dobbiamo
intraprendere per non rimanere travolti dagli eventi. Sul territorio italiano
sono in atto differenti e contradditorie esperienze con l’intento di arginare
il problema della scarsità del clero. Ci sono diocesi che stanno risolvendo il
problema del calo delle vocazioni sacerdotali importando preti da tutte le
parti del modo. Altre diocesi invece, hanno deciso di affrontare il problema
ristrutturando la geografia diocesana con la proposta delle unità pastorali.
Naturalmente si tratta sempre di decisioni prese da vescovi, preti, consigli
presbiterali, vale a dire dagli addetti ai lavori. Di chiedere qualcosa al
popolo di Dio a nessuno viene in mente. Il popolo è così abituato a subire
passivamente le decisioni che piovano dall’alto, che sembra proprio andar bene
così.
Che il problema delle comunità locali sia
tutto legato alla scarsità di clero è molto discutibile, soprattutto se si
comparano i dati con altre regioni del mondo. Senza dubbio, è numericamente
scarso il clero diocesano per come viene intesa la sua funzione all’interno
della comunità locale. Se, infatti, la comunità esiste se vi è un presbitero
che vi celebra i sacramenti, allora la crisi è evidente. Forse però, il
problema non è nel numero dei presbiteri, ma altrove, vale a dire da come
osserviamo l’evento dell’evangelizzazione, da come valutiamo la possibilità di
annunciare il Vangelo nel contesto attuale. È come se facessimo tutti gli
sforzi possibili di imbrigliare la cultura postmoderna di recente formazione
con l’apparato ecclesiologico in nostro possesso, che evidentemente non brilla
di novità, di capacità di adattamento al nuovo. Dire che si tratta di roba
vecchia, d’impostazione desueta, ormai incapace di rispondere alle esigenze del
momento sembra di dire una bestemmia. I dati, però confermano la necessità di
pensare qualcosa di nuovo, di tentare nuovi cammini per fare in modo che le
comunità locali riacquistino il vigore delle origini, che diventino, cioè
luoghi nei quali si percepisce la presenza del Signore, dove la fraternità e la
condivisione sono il pane quotidiano.
C’è tutto un mondo cattolico che
tutte le volte che sente la parola novità si sente male, dà segni
d’insofferenza. Pensare che sia necessario cambiare impostazione a partire dal
nuovo contesto è considerato un assurdo, perché metterebbe in discussione la
verità che, per definizione, così pensano loro, è inalterabile, immobile. È
interessante come dinanzi ad ogni problema emergano le diverse impostazioni
teologiche di riferimento. Mi vengono in mente le parole di Papa pio XII che nell’Enciclica
Humani Generis del 1950 si scagliava
contro la nuova teologia, che in quel tempo si stava sforzando di dialogare con
il mondo scientifico e con la cultura laica. Lo faceva tentando cammini nuovi
grazie anche alle ricerche che un gruppo di teologici stava realizzando nel
campo dell’esegesi, della patristica e della liturgia. Il nuovo fa paura a
tutti coloro che identificano la verità con un’idea, con una teoria,
dimenticando così che il nostro riferimento della verità è Gesù Cristo, che si
è incarnato nella storia ed ha camminato con noi. È la storia il luogo nel
quale è necessario pensare e cogliere la verità e gli eventi storici cambiano,
come cambiano i contesti culturali. Questo
vale anche per il modello di chiesa che stiamo cercando in questo periodo di cambiamento
epocale. Cambiare modello non significa dire addio alla verità, ma di coglierla
nella sua attualità, nel suo modo di manifestarsi nell’oggi della storia.
Siamo come intrappolati dagli schemi
ecclesiologici creati nel passato, incapaci di pensare qualcosa di differente,
di guardare l’evento con occhiali diversi, da un’altra prospettiva da come
l’abbiamo sempre osservato. Eppure i testi biblici sono pieni d’indicazioni che
c’invitano a dimenticarci del passato e a guardare avanti, ad essere disponibili
alle cose nuove che il Signore vuole creare con noi (cfr. Is 43,18-28; Fil 3,21).
È certo che, se un cambiamento di rotta sarà necessario nel modo d’intendere la
chiesa, la comunità locale, non lo potremo aspettare dall’Istituzione che, per
definizione, si struttura per difendere la tradizione, la continuità. Anche
vescovi illuminati o per così dire profetici, non riusciranno mai cambiare il
modo di vedere, a porre delle scelte al passo con i temi, capaci di scardinare
dall’interno modelli obsoleti. C’è bisogno di qualcosa d’altro.
E allora, dove dovrebbero intervenire delle
discontinuità nel modo d’intendere e di vivere la comunità locale? Chi ci potrà
salvare dall’immobilismo ecclesiale? Chi potrà indicare la luce del nuovo
cammino? Chi ci salverà dalla puzza di muffa che sembra soffocarci? Senza
dubbio la base, vale a dire il popolo di Dio. È il popolo che possiede la luce
della profezia. Questo Popolo di Dio
così significativo nell’impostazione del Concilio Vaticano II, ma che troppo
alla svelta lo si è relegato negli studi teologici di alto livello, togliendolo
dalla possibilità d’incidere nella storia, è la risorsa che abbiamo per
inventare qualcosa di nuovo. Non c’è
bisogno, infatti, del consenso del vescovo per annunciare il Vangelo, per
proporre delle liturgie più inculturate, per pensare a cammini nuovi per vivere
la comunità in un mondo sempre più secolarizzato e scristianizzato. Forse ci
potrà venire in mente di non far coincidere la comunità con il ministro
consacrato, ma di ritenere che il vero cuore della comunità sia il Signore. Detta
così non sembra una novità sconvolgente, ma provando a pensare la comunità
locale a partire da questo semplice dato originario, si può sognare e guardare
lontano.