Paolo Cugini
Se
il divino si manifesta nello spazio dei fenomeni fisici e quindi anche
nell’orizzonte umano, perlomeno è questo che la fenomenologia della religione ci
insegna da anni, significa che non c’è bisogno di sacralizzare il fenomeno. Che
cos’è infatti ciò che chiamiamo sacro? È il rivestimento umano delle
manifestazioni del divino, o perlomeno, è il tentativo umano di circoscrivere
il divino. Il sacro, infatti, nasce dalla mentalità religiosa che, come ci ha
ricordato Rudolf Otto, è un sentimento che manifesta la relazione dell’uomo con
quei fenomeni misteriosi che non trovavano una spiegazione logica. L’esplosione
di vulcani, i terremoti, i fulmini, ma anche la presenza di bestie feroci, che
terrorizzavano il villaggio: insomma, tutto ciò che creava un sentimento di
timore individuale e collettivo provocava la necessità di proteggersi da queste
forze irrazionali. È a questo punto del percorso umano che nasce la percezione
di una realtà che è al di fuori delle possibilità umane e che devono essere
escogitati degli strumenti, da una parte per proteggersi da quello che nei
diversi popoli e con diversi nomi possiamo indicare con “Dio”; dall’altra, per
ottenere benefici da questa forza misteriosa che l’uomo non può controllare, ma
solo attutitire attraverso riti.
Secondo
gli studiosi di quella corrente di pensiero teologico sorta recentemente
chiamata post-teismo, l’idea di Dio così come l’ho brevemente descritta, sorge
molto tempo dopo l’apparizione dell’uomo e della donna sulla terra. Ciò
significa, secondo la loro ricerca, che l’uomo e la donna hanno vissuto molto
più tempo senza Dio che con il divino. Sappiamo che la ricerca storica,
archeologica che analizza la situazione della preistoria è molto scarsa di dati
e anche un’affermazione come questa non è per nulla documentabile, ma può
essere fatta solo per supposizioni. In ogni modo, può essere utile per
comprendere che l-idea di Dio così come ´utilizzata in tutti i popoli non è un
dato obiettivo, ma una costruzione umana, che risponde a necessità specifiche.
Questo è, perlomeno, l’idea che emerge dagli studi post-teistici e che corrispondano
alle affermazioni dei primi filosofi della Grecia antica come Senofonte.
Seguire in modo radicale questo pensiero porterebbe ad affermare l’esclusione
della possibilità di una rivelazione, di contenuti, cioè, che verrebbero da
altrove e che s’imporrebbero alla nostra coscienza. Il problema è capire se la
ricerca storico-critica può andare per altri percorsi nella ricerca delle
origini dell’esperienza religiosa e, in modo particolare, se è possibile
argomentare sulla religione a partire da quegli eventi, quelle situazioni che
presentavano degli aspetti non totalmente spiegabili con la ragione umana.
Diceva
Jean Luc Marion che esistono fenomeni saturi che lasciano intravedere una
presenza che è qualitativamente diversa e che provoca la ricerca verso il
significato di questa qualità, di questa diversità. E’ in questo modo che è
possibile cogliere fenomenologicamente il sacro. Questo tipo di percorso
ammette la presenza di dati rivelati. Ci sono dei contenuti che vengono da
altrove: è questa l’esperienza di coloro che incontrano fenomeni saturi, il cui
contenuto non è possibile spiegare solamente con i dati della ragione e della
scienza. C’è qualcosa di più, di qualitativamente inspiegabile, qualcosa che
non sembra appartenere a questo mondo. I post-teisti ci ricordano che il
paradigma teista sorge all’interno di un contesto culturale in cui esiste un cielo
come luogo separato dalla terra e che dopo la rivoluzione copernicana il cielo
non esiste più. Possiamo anche essere d’accordo su questa analisi, ma ciò non
toglie la percezione di elementi che hanno caratteristiche che sfuggono ai dati
a nostra disposizione: vengono da altrove.
Secondo
Marion: “Una rivelazione merita questo titolo solo perché rimane
incommensurabile per coloro che la accettano”. Quello che propone Marion è
un cammino nel quale vale la pena entrare, perché provoca una riflessione su
quello che, in modo generico, viene definita un’esperienza religiosa che, a suo
dire, non può che essere un’esperienza di rivelazione.