giovedì 10 dicembre 2020

La dignità umana e il problema del fondamento dei diritti umani. Alcune prospettive del dibattito attuale

 



 

Paolo Cugini

 Il concetto di dignità umana è divenuto particolarmente significativo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, come frutto della riflessione sui tragici eventi che l’hanno caratterizzata. Da quel momento, il termine dignità umana appare non solo nei documenti internazionali come la dichiarazione universale dei diritti umani adottato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nella sua terza sessione, il 10 dicembre 1948 a Parigi, ma anche in molte costituzioni nazionali, come quella italiana, e regionali. Certamente, sia in campo filosofico che giuridico il tema era già presente e dibattuto prima di questi tragici eventi, ma si è particolarmente acceso proprio a partire dalla necessità di chiarire i limiti e, allo stesso tempo i valori fondamentali, che potevano essere indicati come vincolanti l’agire umano. Tale riflessione, è divenuta ancora più urgente negli ultimi decenni su alcuni temi di bioetica come l’eutanasia, il fine-vita, l’aborto, tra gli altri. Il problema che viene sollevato è il seguente: quando parliamo di dignità dell’uomo, che cosa intendiamo? Nelle ricerche analizzate emergono, in linea generale, due correnti di pensiero: la teoria ontologica o della dotazione e la teoria utilitaristica o della prestazione.

La teoria ontologica fonda la dignità dell’uomo su Dio, per cui essendo l’uomo ad immagine di Dio, ogni aspetto della vita umana è sacro. La positività di questa teoria consiste nel proporsi come baluardo per ogni momento della vita umana, anche e soprattutto, in quei momenti in cui la persona è più debole come la nascita, la malattia e la prossimità della morte. Questa teoria si è sviluppata in occidente soprattutto grazie al cristianesimo, che trova nella Sacra Scrittura i fondamenti delle proprie posizioni. L’uomo ha una dignità che le è stata conferita da Dio, poiché lo ha creato a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26). La riflessione Patristica dei primi secoli della Chiesa e, soprattutto, la teologia Scolastica di Tommaso, hanno fornito una struttura metafisica a tale posizione. L’uomo ha una dignità che non solo gli è conferita da Dio, ma che è inscritta nella natura umana è, quindi, un “possesso originario”, ereditato dalla nascita e, di conseguenza, un dato oggettivo indiscutibile. Questa impostazione ontologica apre il cammino ai così detti valori non negoziabili, nel senso che non sono oggetto di discussione, perché protetti dalla sacralità della vita che viene da Dio e che trova un fondamento metafisico nella legge naturale. Il discorso sui diritti dell’uomo, in questa prospettiva ontologica, ha una valenza universale, perché non dipendono dall’agire umano, o da valori soggettivi e, proprio per questo, devono essere difesi universalmente. Questo modo di fondare il discorso della dignità umana, nel contesto secolarizzato in cui viviamo, incontra molti detrattori che, pur riconoscendone alcuni elementi fondamentali, come il valore della vita, non accettano una argomentazione di tipo religioso o metafisico, perché esclude un dibattito razionale che possa attualizzare e contestualizzare il discorso. In ogni modo, la prospettiva ontologica offre non pochi vantaggi sul piano della vita quotidiana. Infatti, come osserva Francesco Viola:

“vantaggio pratico della via ontologica, e della teoria della dotazione che è ad essa collegata, è quello della totale non discriminazione fra gli esseri appartenenti alla specie umana. La via ontologica non tollera alcuna discriminazione derivante dalla razza, dal genere, dallo stato di salute, dal grado di capacità in atto possedute, dallo sviluppo intellettuale e morale. Tutti coloro che appartengono alla specie umana hanno ipso facto quello status normativo particolare che viene solitamente designato come dignità”.



Al polo opposto, si pone la prospettiva utilitaristica che fa dipendere la dignità umana dal risultato dell’agire umano, “una conquista della soggettività umana che si costruisce una propria identità”. Merito, potere, virtù o censo possono essere elementi che determinano un grado di qualità di una persona rispetto alle altre. Nella teoria utilitaristica la tutela della dignità dell’uomo “è essenzialmente imperniata sul rispetto della sua volontà e, pertanto, può essere posa in essere solo quando l’individuo gode di piena autonomia”. In tale concezione, diventa fondamentale il principio di autodeterminazione, per il quale è necessario assicurare al soggetto il massimo grado di libertà e decisionalità sulle questioni che lo riguardano. C’è un’assolutizzazione della libertà di scelta soggettiva, che apre questioni delicate sul piano morale, lasciando scoperte di protezione proprio quelle situazioni umane più necessitanti di sicurezza da parte dello Stato o di organi competenti. Se, infatti, è degna la persona che per una serie di circostanze riesce a “meritarsi” una qualità della vita degna, che dire di tutto coloro che, per condizioni sociali o fisiche, partono svantaggiati non potendo, quindi, provvedere alla crescita qualitativa della propria esistenza? L’impostazione utilitaristica è alla base della cultura che considera le persone non tutte degne degli stessi diritti; è alla base della società divisa in classi che dichiara qualcuno più degno dell’altro, a partire non da qualità innate, ma da una posizione accidentale dovuta dal fatto di essere nato in una casa piuttosto che in un’altra. Sfogliando le pagine della storia occidentale e anche le pagine dei libri sacri, troviamo le impronte di queste civiltà che hanno giustificato la schiavitù, la superiorità di rango, la giustificazione di privilegi e di punizioni. Secondo Carminiani: “corollari di questa tesi sono: è più degno chi vive meglio, chi è in condizioni di poter perseguire il massimo grado di soddisfazione personale; in definitiva chi nella vita gode di più”. La giustificazione sul porre fine alla vita quando questa si trova in condizioni considerate indegne, trova il suo appoggio teorico nella prospettiva utilitaristica.



La domanda che, a questo punto del discorso, viene spontanea è la seguente: quando nei documenti del diritto internazionale o nazionale incontriamo l’affermazione della dignità umana, a che cosa si riferisce e che cosa s’intende? Quando c’imbattiamo in queste affermazioni generali entrano in gioco le nostre precomprensioni teoriche più o meno esplicitate, ma non sappiamo quali sono le intenzioni del redattore dei testi. Senza dubbio, c’è alla base il desiderio e la volontà di offrire strumenti giuridici in grado di garantire la massima protezione possibile alla vita umana in tutte le sue fasi e a tutte le latitudini. Nella conclusione proverò ad abbozzare una mia riflessione sul tipo di fondazione che oggi il diritto internazionale cerca per avvalorare le proprie posizioni.

Ripercorrere, se pur velocemente e con notevoli dimenticanze e lacune, alcune delle riflessioni che hanno segnato il pensiero occidentale sul tema della dignità della persona umana, permette di comprendere la profondità e la ricchezza culturale che ha segnato la nostra civiltà. C’è stato un lungo cammino in cui la filosofia e la teologia hanno dialogato, offrendo contenuti che per molti secoli si sono intrecciati per poi, ad un certo punto, intraprendere ognuno il proprio cammino. Questa separazione, seppur necessaria, ha lasciato a mio avviso qualche traccia negativa all’interno della cultura occidentale, perché, segnando negativamente la religione e la sua istituzione, spesso e volentieri non ha permesso l’obiettività di riconoscere i contenuti positivi e, per certi aspetti universali, di cui ancora oggi l’umanità necessita.

Il rifiuto di ogni fondazione metafisica da una parte e l’ambiguità dell’approccio utilitaristico dall’altra, obbligano a cercare quella che possiamo definire una terza via, per formulare criteri il più possibile condivisi, che aiutino le persone a prendere decisioni che sappiano salvaguardare la dignità della persona umana in tutti i momenti della vita. In questa prospettiva, a mio avviso, è possibile attivare il principio di responsabilità, così come indicato da Hans Jonas, solamente all’interno di un processo che sappia ascoltare e valutare le opinioni provenienti dalle diverse matrici culturali di un luogo. È la proposta elaborata da Jurgen Habermas nella sua teoria dell’agire comunicativosecondo il quale, per raggiungere il massimo possibile di obiettività, occorre che il linguaggio dei partecipanti del dibattito sia intellegibile per tutti. Per questo motivo, non è possibile argomentare facendo riferimento a codici religiosi o filosofici o di altra natura, conosciuti solamente da colui che prende la parola. Inoltre, la discussione non dev’essere viziata dal tentativo subdolo di voler a tutti i costi convincere e persuadere l’interlocutore su quello che si vuole affermare e, per questo, il dibattito deve avvenire sul piano della chiarezza e dell’autenticità. Questi criteri, secondo Habermas, sono il minimo che si possa richiedere in qualsiasi dibattito che ricerchi la verità su qualche aspetto della vita sociale, che cerchi risposte a problemi concreti della vita. In questa prospettiva, a mio avviso, viene superata la questione della formulazione di diritti universali della persona umana, perché ciò che importa è la ricerca di una decisione che interessa la comunità locale.





Una simile impostazione, anche se partendo da un punto di riferimento diverso, è quella di Gianni Vattimo. Venendo meno le narrazioni metafisiche per quel processo di dissoluzione dell’essere che la storia della metafisica porta con sé, non rimane altro che interpretare gli eventi per come appaiono sul piano della storia. L’ermeneutica diviene, allora, lo stile di coloro che, abbandonando la presupposta presunzione di chi crede di trovare verità assiomatiche in un percorso storico dominato dalla contingenza, diviene capace di accompagnare il manifestarsi della realtà per offrirne un’interpretazione. Chi è in grado, a detta di Vattimo, d’interpretare un evento dichiarando buono per il bene comune, è la comunità che lo valuta a partire da alcuni criteri condivisi come la vita e l’amore.

Habermas e Vattimo sono solamente alcune delle proposte emerse in questi ultimi decenni di crisi della metafisica classica e affermazione di una cultura che fa fatica a pensare oltre la soglia di casa. Forse possono apparire posizioni deboli, inconcludenti. A mio avviso, però, mostrano lo sforzo di pensare cammini nuovi in grado di offrire alcuni principi, capaci soprattutto di coinvolgere le comunità, vale a dire i diretti interessati dei problemi affrontati. Forse è questo aspetto, una delle maggiori lacune del pensiero forte, così forte da elaborare teorie che spesso e volentieri nella storia hanno scartato i più deboli.

 

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