Paolo
Cugini
Il concetto di dignità umana è divenuto particolarmente
significativo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, come frutto
della riflessione sui tragici eventi che l’hanno caratterizzata. Da quel
momento, il termine dignità umana appare non solo nei documenti internazionali
come la dichiarazione universale dei diritti umani adottato dall'Assemblea
generale delle Nazioni Unite nella sua terza sessione, il 10 dicembre 1948 a
Parigi, ma anche in molte costituzioni nazionali, come quella italiana, e
regionali. Certamente, sia in campo filosofico che giuridico il tema era già
presente e dibattuto prima di questi tragici eventi, ma si è particolarmente
acceso proprio a partire dalla necessità di chiarire i limiti e, allo stesso
tempo i valori fondamentali, che potevano essere indicati come vincolanti
l’agire umano. Tale riflessione, è divenuta ancora più urgente negli ultimi
decenni su alcuni temi di bioetica come l’eutanasia, il fine-vita, l’aborto,
tra gli altri. Il problema che viene sollevato è il seguente: quando parliamo
di dignità dell’uomo, che cosa intendiamo? Nelle ricerche analizzate emergono,
in linea generale, due correnti di pensiero: la teoria ontologica o della
dotazione e la teoria utilitaristica o della prestazione.
La
teoria ontologica fonda la dignità dell’uomo su Dio, per cui essendo l’uomo ad
immagine di Dio, ogni aspetto della vita umana è sacro. La positività di questa
teoria consiste nel proporsi come baluardo per ogni momento della vita umana,
anche e soprattutto, in quei momenti in cui la persona è più debole come la
nascita, la malattia e la prossimità della morte. Questa teoria si è sviluppata
in occidente soprattutto grazie al cristianesimo, che trova nella Sacra
Scrittura i fondamenti delle proprie posizioni. L’uomo ha una dignità che le è
stata conferita da Dio, poiché lo ha creato a sua immagine e somiglianza (Gen
1,26). La riflessione Patristica dei primi secoli della Chiesa e, soprattutto,
la teologia Scolastica di Tommaso, hanno fornito una struttura metafisica a
tale posizione. L’uomo ha una dignità che non solo gli è conferita da Dio, ma
che è inscritta nella natura umana è, quindi, un “possesso originario”,
ereditato dalla nascita e, di conseguenza, un dato oggettivo indiscutibile.
Questa impostazione ontologica apre il cammino ai così detti valori non
negoziabili, nel senso che non sono oggetto di discussione, perché protetti
dalla sacralità della vita che viene da Dio e che trova un fondamento
metafisico nella legge naturale. Il discorso sui diritti dell’uomo, in questa
prospettiva ontologica, ha una valenza universale, perché non dipendono
dall’agire umano, o da valori soggettivi e, proprio per questo, devono essere
difesi universalmente. Questo modo di fondare il discorso della dignità umana,
nel contesto secolarizzato in cui viviamo, incontra molti detrattori che, pur
riconoscendone alcuni elementi fondamentali, come il valore della vita, non
accettano una argomentazione di tipo religioso o metafisico, perché esclude un
dibattito razionale che possa attualizzare e contestualizzare il discorso. In
ogni modo, la prospettiva ontologica offre non pochi vantaggi sul piano della
vita quotidiana. Infatti, come osserva Francesco Viola:
“vantaggio
pratico della via ontologica, e della teoria della dotazione che è ad essa
collegata, è quello della totale non discriminazione fra gli esseri
appartenenti alla specie umana. La via ontologica non tollera alcuna
discriminazione derivante dalla razza, dal genere, dallo stato di salute, dal
grado di capacità in atto possedute, dallo sviluppo intellettuale e morale.
Tutti coloro che appartengono alla specie umana hanno ipso facto quello status
normativo particolare che viene solitamente designato come dignità”.

Al
polo opposto, si pone la prospettiva utilitaristica che fa dipendere la dignità
umana dal risultato dell’agire umano, “una conquista della soggettività umana
che si costruisce una propria identità”. Merito, potere, virtù o censo possono
essere elementi che determinano un grado di qualità di una persona rispetto
alle altre. Nella teoria utilitaristica la tutela della dignità dell’uomo “è
essenzialmente imperniata sul rispetto della sua volontà e, pertanto, può
essere posa in essere solo quando l’individuo gode di piena autonomia”. In tale
concezione, diventa fondamentale il principio di autodeterminazione, per il
quale è necessario assicurare al soggetto il massimo grado di libertà e
decisionalità sulle questioni che lo riguardano. C’è un’assolutizzazione della
libertà di scelta soggettiva, che apre questioni delicate sul piano morale,
lasciando scoperte di protezione proprio quelle situazioni umane più
necessitanti di sicurezza da parte dello Stato o di organi competenti. Se,
infatti, è degna la persona che per una serie di circostanze riesce a “meritarsi”
una qualità della vita degna, che dire di tutto coloro che, per condizioni
sociali o fisiche, partono svantaggiati non potendo, quindi, provvedere alla
crescita qualitativa della propria esistenza? L’impostazione utilitaristica è
alla base della cultura che considera le persone non tutte degne degli stessi
diritti; è alla base della società divisa in classi che dichiara qualcuno più
degno dell’altro, a partire non da qualità innate, ma da una posizione
accidentale dovuta dal fatto di essere nato in una casa piuttosto che in
un’altra. Sfogliando le pagine della storia occidentale e anche le pagine dei
libri sacri, troviamo le impronte di queste civiltà che hanno giustificato la
schiavitù, la superiorità di rango, la giustificazione di privilegi e di punizioni.
Secondo Carminiani: “corollari di questa tesi sono: è più degno chi vive
meglio, chi è in condizioni di poter perseguire il massimo grado di
soddisfazione personale; in definitiva chi nella vita gode di più”. La
giustificazione sul porre fine alla vita quando questa si trova in condizioni
considerate indegne, trova il suo appoggio teorico nella prospettiva
utilitaristica.

La domanda che, a questo punto del
discorso, viene spontanea è la seguente: quando nei documenti del diritto
internazionale o nazionale incontriamo l’affermazione della dignità umana, a
che cosa si riferisce e che cosa s’intende? Quando c’imbattiamo in queste
affermazioni generali entrano in gioco le nostre precomprensioni teoriche più o
meno esplicitate, ma non sappiamo quali sono le intenzioni del redattore dei
testi. Senza dubbio, c’è alla base il desiderio e la volontà di offrire
strumenti giuridici in grado di garantire la massima protezione possibile alla
vita umana in tutte le sue fasi e a tutte le latitudini. Nella conclusione
proverò ad abbozzare una mia riflessione sul tipo di fondazione che oggi il
diritto internazionale cerca per avvalorare le proprie posizioni.
Ripercorrere, se pur velocemente e con notevoli
dimenticanze e lacune, alcune delle riflessioni che hanno segnato il pensiero
occidentale sul tema della dignità della persona umana, permette di comprendere
la profondità e la ricchezza culturale che ha segnato la nostra civiltà. C’è
stato un lungo cammino in cui la filosofia e la teologia hanno dialogato,
offrendo contenuti che per molti secoli si sono intrecciati per poi, ad un
certo punto, intraprendere ognuno il proprio cammino. Questa separazione,
seppur necessaria, ha lasciato a mio avviso qualche traccia negativa
all’interno della cultura occidentale, perché, segnando negativamente la
religione e la sua istituzione, spesso e volentieri non ha permesso
l’obiettività di riconoscere i contenuti positivi e, per certi aspetti
universali, di cui ancora oggi l’umanità necessita.
Il rifiuto di ogni fondazione metafisica da una parte
e l’ambiguità dell’approccio utilitaristico dall’altra, obbligano a cercare quella
che possiamo definire una terza via, per formulare criteri il più possibile
condivisi, che aiutino le persone a prendere decisioni che sappiano
salvaguardare la dignità della persona umana in tutti i momenti della vita. In
questa prospettiva, a mio avviso, è possibile attivare il principio di
responsabilità, così come indicato da Hans Jonas, solamente all’interno di un
processo che sappia ascoltare e valutare le opinioni provenienti dalle diverse
matrici culturali di un luogo. È la proposta elaborata da Jurgen Habermas nella
sua teoria dell’agire comunicativosecondo il quale, per raggiungere il massimo
possibile di obiettività, occorre che il linguaggio dei partecipanti del
dibattito sia intellegibile per tutti. Per questo motivo, non è possibile
argomentare facendo riferimento a codici religiosi o filosofici o di altra
natura, conosciuti solamente da colui che prende la parola. Inoltre, la
discussione non dev’essere viziata dal tentativo subdolo di voler a tutti i
costi convincere e persuadere l’interlocutore su quello che si vuole affermare
e, per questo, il dibattito deve avvenire sul piano della chiarezza e
dell’autenticità. Questi criteri, secondo Habermas, sono il minimo che si possa
richiedere in qualsiasi dibattito che ricerchi la verità su qualche aspetto
della vita sociale, che cerchi risposte a problemi concreti della vita. In questa
prospettiva, a mio avviso, viene superata la questione della formulazione di
diritti universali della persona umana, perché ciò che importa è la ricerca di
una decisione che interessa la comunità locale.

Una simile impostazione, anche se partendo da un punto
di riferimento diverso, è quella di Gianni Vattimo. Venendo meno le narrazioni
metafisiche per quel processo di dissoluzione dell’essere che la storia della
metafisica porta con sé, non rimane altro che interpretare gli eventi per come
appaiono sul piano della storia. L’ermeneutica diviene, allora, lo stile di
coloro che, abbandonando la presupposta presunzione di chi crede di trovare
verità assiomatiche in un percorso storico dominato dalla contingenza, diviene
capace di accompagnare il manifestarsi della realtà per offrirne
un’interpretazione. Chi è in grado, a detta di Vattimo, d’interpretare un
evento dichiarando buono per il bene comune, è la comunità che lo valuta a
partire da alcuni criteri condivisi come la vita e l’amore.
Habermas e Vattimo sono solamente alcune delle
proposte emerse in questi ultimi decenni di crisi della metafisica classica e
affermazione di una cultura che fa fatica a pensare oltre la soglia di casa.
Forse possono apparire posizioni deboli, inconcludenti. A mio avviso, però,
mostrano lo sforzo di pensare cammini nuovi in grado di offrire alcuni
principi, capaci soprattutto di coinvolgere le comunità, vale a dire i diretti
interessati dei problemi affrontati. Forse è questo aspetto, una delle maggiori
lacune del pensiero forte, così forte da elaborare teorie che spesso e
volentieri nella storia hanno scartato i più deboli.