venerdì 25 settembre 2020

LA MIGRAZIONE ITALIANA NEL DOPOGUERRA

 MASTER MIGRAZIONI BERGAMO





Prof: Paolo Barcella

Sintesi: Paolo Cugini

 

Migrazione italiana del II dopoguerra. Un libro importante sul tema è quello di Michele Colucci. Siamo negli anni della guerra fredda. È interessante questo periodo perché ci dice molto delle modalità di ridefinizione delle comunità migranti all’interno di territori in cui si ha una mobilità organizzata dal mercato del lavoro. È interessante questo periodo per capire delle dinamiche migratorie.

Cosa fondamentale da sottolineare è che al di là della percezione del fenomeno migratorio come fenomeno che riguarda l’ambito dei rifugiati, che fa storia delle migrazioni contemporaneamente fa storia del lavoro. Qualunque fenomeno migratorio abbia assunto fenomeno di massa, è una storia di spostamento di mano d’opera che si sposta per le ragioni più varie. Le migrazioni per molti aspetti hanno a che fare con la mobilità dentro i mercati del lavoro quando avviene in una prospettiva di permanenza.

Giliola Cinguetti vince il Festival di Sanremo nel 1964 a 16 anni, riceve più di 140 mila lettere da immigrati italiani. Per loro rappresentava una sorte d’interlocutore imaginario, era un’icona di successo, d’italianità. Per l’emigrazione italiana in giro per il mondo rappresenta una sorta di aggregatore culturale.

Guardando la vicenda della Cinguetti e alle lettere si ottengono molti spunti. Sono lettere che trasudano una cultura del paese delle origini di chi scrive. Persone che provenivano dall’Italia rurale, cattolica, nata negli anni ’20-30. Lettere che rivelano un mondo di persone che si sta incontrando con la modernità. Dentro alle lettere si vede anche un forte elemento religioso e anche dei problemi della società in cui stavano vivendo. Chiedono alla Cinguetti di aiutarli a risolvere i problemi incontrati.

Altro elemento di riflesso riguarda la dimensione della dinamica incontro-conflitto che si produce a livello culturale quando si vive un fenomeno di migrazione di massa. Per 20 anni in giro per l’Europa si conosceva la cultura italiana grazia a queste masse migranti appassionate del Festival di San Remo, nato nel ’51, divenuto subito un fenomeno significativo. Leonardo Campus, non solo canzonette, L’Italia di… Significativa è la frequente presenza di canzoni dedicate alla figura della mamma lontana. Un orecchio attento si rende conto di come letti e studiati con attenzione, quei prodotti sono stati anche degli agenti di trasmissione culturale in lingua italiana a delle masse migranti che cercavano nella musica di San Remo una sorta di memoria, insegnando loro a parlare italiano e un linguaggio emotivo, li rendeva diffusori di tutto questo nei contesti dove loro si radicavano. Il successo del Festival di San Remo è stato tale che alla fine degli anni '50 si era arrivati ad avere 30 milioni di radioamatori connessi. Veniva trasmesso anche nei cinema e nei teatri. Un innesto di questa italianità si diffondeva in Europa a partire da questo discorso musicale. Il fatto che avesse successo in modo particolare in Svizzera è dovuto ad alcune ragioni.




Le politiche migratorie dei diversi paesi erano differenziate. La migrazione è sempre un agente di trasformazione di cambiamento culturale anche dei paesi di arrivo. Dove arriva una massa di persone è chiaro che contagiano e lasciano una traccia importante.

 C’è una periodizzazione più precisa che vale la pena tenere in considerazione e guarda ad un’epoca chiamata Golden age: 1945-1973. Sono gli anni del grande bum economico, che a livello euro-americano ha visto un’accelerazione di processi messi in moto dopo la prima guerra, che ha portato ad un’industrializzazione e ad un inurbamento massiccio e la conseguente fuga dalle campagne. È l’epoca in cui finisce il mondo rurale cattolico. C’è un trasferimento nei grandi centri urbani. È un processo di pressione in uscita dalle campagne verso i centri urbani. Genova, Torino, Milano: conoscono in pochi anni un processo di trasformazione impressionante. Tutto ciò avveniva a partire da uno spostamento massiccio di spostamento di contadini. È un processo di mobilità interna italiana. Il cambiamento nelle città è enorme. C’è poi il fenomeno della ricerca del lavoro in grandi centri in Europa.

 1958-63: anni del bum economico in Italia. L’Europa conosce la crescita economica prima dell’Italia e a questi paesi attraggono e hanno bisogno di mano d’opera. L’Italia ha una riserva importante di lavoratori disoccupati, di mano d’opera agricola disponibile a tutto.

Nascono tensioni sociali a causa della disoccupazione. Al crocevia di questi fenomeni succede che i Governi dei paesi europei esprimono questa loro esigenza di andare incontro alla richiesta di mano d’opera nelle loro fabbriche rendendosi disponibili a firmare accordi bilaterali per portare mano d’opera all’interno, e quindi a dare permessi di soggiorno e di lavoro. L’Italia in quel momento trova e sente la necessità di firmare accordi bilaterali che favoriscano l’uscita. Gli accordi bilaterali era la forma storica da studiare del fenomeno migratorio. Questi accordi avevano delle finalità:

1.      Regolare i flussi dal punto di vista della quantità di persone che si legittimavano ad attraversare le frontiere in un determinato periodo. Era necessario sapere quante persone potessero entrare e in numero adeguato ai posti di lavoro disponibili.

2.     Gli accordi bilaterali indicavano le condizioni necessarie da rispettare per i migranti essere autorizzati all’attraversamento.

3.     Indicare quali enti, istituzioni dovessero essere coinvolti nell’organizzazione dei flussi migratori.

 

4.    Indicavano le condizioni di lavoro. Problema dei livelli salariali e le condizioni di vita.

5.     I termini dello scambio tra i due paesi. Era possibile uno scambio di uomini in senso strettamente economico. L’Italia, ad esempio, inviava in Belgio uomini in cambio di carbone. Era un lavoro ad un altissimo tasso di pericolo. Era un lavoro da affidare alla manovalanza straniera. Ecco perché i belgi erano favorevoli che gli italiani arrivassero per le miniere.



la situazione e di accordi l’Italia non ne firma più, se non l’accordo con la Svizzere del 1964. In alcuni paesi rimangono in vigore gli accordi fatti. L’Italia in questi 10 anni firma 14 accordi bilaterali, che significa la grande esigenza di esportare mano d’opera. Quello del Belgio del ’46 è il più terribile dal punto di vista delle condizioni. Gli stesi migranti tendevano a scappare. Treni che rientravano dal Belgio lavoratori e avvisavano chi stava andando in Belgio e alcuni scendevano.

Marcinelle: catastrofe avvenuta all’interno di una miniera in Belgio dove erano impiegati molti lavoratori italiani. 

Quello con la Svizzera è molto importante perché in Svizzere si è trasferita la grandissima parte di lavoratori italiani. 

L’ultimo nel ’55 è stato fatto con la Germania. 

Ci sono paesi che hanno fatto numerosi accordi con i paesi importatori. La Germania firma 8 accordi da paesi importatori di mano d’opera. L’Italia alla metà degli anni ’50 era un paese a cui l’Europa si rivolgeva come al Marocco, Turchia, ecc.

Gli Stati che firmavano questi accordi bilaterali si organizzavano e sceglievano gli Enti che potessero occuparsi della regolazione dei flussi secondo gli accordi presi con i singoli paesi. L’Italia affidò al Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale e al Ministero degli Esteri. È indicativo del punto di vista sull’immaginario legate al concetto di migrante il tipo di enti scelti.

Negli uffici del lavoro si trovavano nelle bacheche la propaganda del lavoro nei vari paesi. In questi uffici il personale italiano possedeva dei dossier che arrivavano dall’Estero direttamente selezionati dai ministeri. Le singole imprese consegnavano i loro dossier dando delle indicazioni sulla tipologia dei lavoratori. Si possono comprendere gli stereotipi dei lavoratori italiani. I Paesi richiedevano lavoratori di certe provincie (non meridionali). Gli uffici italiani rifiutavano queste indicazioni e mandavano quelle che volevano. A questo punto le imprese si muovevano in modo loro senza rispettare le regole degli accordi. Si attivano modalità di reclutamento irregolare. I reclutatori assunti da imprenditori stranieri che venivano mandati a reclutare lavoratori di fiducia provenienti dalla loro stessa provincia.

Missioni cattoliche italiane. Oltre alla pastorale migratoria, vengono attivati questi servizi per i migranti. La Chiesa cattolica italiana si è occupata delle migrazioni italiane dalla fine dell’800. Opera del Vescovo Scalabrini e Monsignor Bolomelli. Sviluppano una rete impressionante di aiuti. Facevano in parte gli assistenti sociali. Questi ordini hanno avuto la lungimiranza di fondare dei grossi centri studi. Negli anni ’60 e ’70 questi ordini sono tra i primi ad avere strumenti per discutere d’immigrazione. Le missioni cattoliche facevano anche reclutamento di lavoratori. La dinamica del reclutamento è quindi una dinamica complessa.

Quando gli italiani varcavano la frontiera da quel momento erano sotto la tutela del Ministero degli Affari Esteri. Scoppiavano conflitti tra imprenditori e lavoratori perché trovavano condizioni diverse da quelle dichiarate in partenza. Esempio: la baracca che non aveva caratteristiche come era stato stipulato nel contratto. Molti si adattavano e altri no. I conflitti erano gestiti entrando in relazione con le ambasciate.




Gli stati esteri dovevano scegliere i loro enti che dovevano occuparsi della mano d’opera che arrivava. La Germania Ovest, per esempio, era un Paese che nei primi anni ’50 non vuole immigrazione italiana. Dal ’52 inizia un dibattito acceso tra il Ministero dell’Economia e Ministero del Lavoro tedesco. C’era bisogno di lavoratori, ma bisognava fare attenzione perché avrebbe creato tensioni interne. Obiettivo di arrivare ad un punto di mediazione: dobbiamo avere lavoratori che arrivano a certe condizioni e fare in modo che non diventino concorrenziali con bassi salari. Si arriva all’idea che il Governo dovesse controllare il processo migratorio dalle origini fino all’arrivo in fabbrica. Nasce il fenomeno della migrazione assistita. Il migrante veniva assistito dal Governo in ogni tappa del processo. Dell’immigrazione in Germania si occupa l’Ente Federale per il lavoro e per l’assicurazione contro la disoccupazione. La dichiarazione implicita: faremo attenzione che importeremo mano d’opera senza creare disoccupati in loco. Immigrazione che non deve diventare concorrenziale. La Germania favorisce in Italia dei centri dove c’è un personale tedesco: Napoli, Verona, Milano. Luoghi dove gli italiani arrivano dopo aver ottenuto un documento dall’ufficio provinciale del lavoro della loro città. 

Le scene dell’immigrazione hanno ricordato le scene della deportazione: li caricavano sui treni e li spedivano. C’era quindi un forte intervento statale con l’obiettivo di regolazione del mercato del lavoro tedesco.

Nell’ottica del Governo tedesco la mano d’opera italiana doveva essere solo temporanea. Si favoriva la stipula di contratti di lavori temporanei, che potevano essere rinnovati fino ad un tot di anni e dopo ci poteva essere la richiesta di un lavoro a tempo indeterminato.

Questi accordi vengono firmati nel ’55. Nel ’57 viene firmato il trattato Ceca, il principio della libera circolazione delle persone. Nel ’68 viene attuata questa libera circolazione e sino a questa data i lavoratori italiani vanno in Germania con gli accordi definiti nel ’55. Ad un certo punto la Germania firma accordi con la Jugoslavia.

La Jugoslavia all’epoca era un paese comunista. Il regime di Tito consentiva la migrazione verso la Germania a carattere temporario.

La DC all’epoca nelle sue componenti più conservatrici affermava il diritto alla migrazione. Bisogna riconoscere alle persone il diritto ad attraversare le frontiere. 

La sinistra dell’epoca era molto più problematica rispetto alla migrazione perché diceva che occorreva migliorare le condizioni dei lavoratori nelle loro regioni, voleva dei piani di sviluppo del territorio. 



Svizzera. Le cose in Svizzera funzionavano in modo apparentemente analogo. Spesso si fa confusione perché la politica migratoria vedeva negli immigrati dei lavoratori ospiti, come in Germania. Però, poi, per quanto riguarda il ruolo dello Stato, l’attività effettiva dello Stato nel processo di reclutamento è tutta un’altra storia. Responsabile dell’immigrazione era l’Ufficio Federale che si occupava delle attività produttive in ottica industriale e a fianco di questo, l’Ufficio Cantonale di Polizia. Già nel ’48 in Svizzera la migrazione era vista nella prospettiva di controllo dell’ordine pubblico. Il Governo Svizzero dichiara da subito di volersi tener fuori dalla selezione del reclutamento e fa una professione di fede liberale. Lo Stato non sa quale possa essere il lavoratore migliore per una determinata fabbrica, devono essere gli imprenditori. 

Problema: perché dal punto di vista delle imprese Svizzere una modalità come quella adottata dalla Germania diventava problematica? Incide sui tempi. Le aziende svizzere passavano attraverso i canali personali. Gli immigrati dovevano sostenere delle visite come in Germania, ma a differenza che le visite venissero realizzate in frontiera. C’era la preoccupazione di essere rispediti. C’era anche l’umiliazione della visita medica.

Gli accordi bilaterali tra Italia e Svizzera introducevano nell’articolo 4 il principio della sanatoria individuale permanente per l’imprenditore. Qualora un imprenditore svizzero avesse un rapporto personale con un lavoratore straniero e volesse assumerlo bastava che andasse all’ufficio di polizia e lo manifestasse. Bastava la dichiarazione alla disponibilità all’assunzione. Era uno strumento molto importante a disposizione dell’imprenditoria elvetica a sanare le irregolarità in qualsiasi momento. Strumento che consentiva alla polizia di essere sempre tutelata ogni volta che veniva trovata mano d’opera clandestina. Non funzionava il rovescio. Gli immigrati subivano questi processi. Fenomeno del tentativo di reclutamento localizzati era forte in Svizzera. Volontà da parte dell’Italia di controllare gli espatri. La Svizzera aveva una tipologia articolata di permessi.

Gli annuali non potevano ottenere il ricongiungimento dei famigliari facilmente. Gli stagionali dovevano andare a vivere nel luogo indicato dal datore di lavoro. Il permesso di lavoro stagionale era usato in modo irregolare dalle imprese. Venivano stipulati contratti da 11 mesi e una settimana. Erano dei falsi stagionali. 


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