lunedì 26 giugno 2023

EUCARESTIA DOMANI - RECENSIONE DI ANTONIO DE CARO




Antonio De Caro

RECENSIONE a P. Cugini,

L’Eucarestia domani. Inculturazione e inclusività della liturgia,

Cantalupa (TO) Effatà 2023

 

I numeri parlano chiaro: le chiese si svuotano, molti uomini e donne di oggi non si riconoscono più nella fede cristiana o cattolica. Si tratta di un profondo cambiamento culturale che ci spinge a parlare di epoca post-cristiana. È ancora possibile, pertanto, proporre una riflessione sull’Eucarestia? La fede e la liturgia possono incontrare uomini e donne di oggi e di domani solo se riescono a dialogare con loro “per la strada”, cioè nei contesti concreti dove si svolgono le loro vite e dove nascono le loro domande di senso e il loro bisogno di conforto e speranza. La liturgia non ha senso se non entra e non rimane in un rapporto circolare e dinamico con la vita di tutti e di ciascuno.

Dai Vangeli emerge che l’Eucarestia è vita e dà vita, ma spesso la liturgia che si è codificata nei secoli soffoca questa energia e questo messaggio, che andrebbero invece riscoperti attraverso un ritorno alla semplicità essenziale delle origini. Il saggio di Paolo Cugini, pertanto, si propone il disvelamento dell’autentico tesoro d’amore che Gesù ha nascosto nelle parole dell’ultima cena (p. 7).

 

I Vangeli sinottici rappresentano in modo esplicito i gesti di Gesù sul pane e sul vino, cioè l’istituzione del sacramento. Il Vangelo di Giovanni, invece, omette questa scena e vi sostituisce quella della lavanda dei piedi. In tal modo viene portato alla luce il profondo significato etico e teologico dell’Eucarestia per la Chiesa: espressione della kénosis, cioè dell’abbassamento del Figlio che ha assunto la natura umana, essa si configura come una coerente scelta di amore che Gesù fa “fino alla fine”, pur rispettando la nostra libertà e quindi l'eventualità che noi possiamo rifiutare questo dono. Gesù si dona pur essendo consapevole della nostra fragilità (Dio si propone ad una coscienza libera e accetta la debolezza del rifiuto, p. 16), perché per lui conta maggiormente uno sguardo pieno di speranza sulla persona, sul futuro e sulla nostra salvezza. Ricevere l’Eucarestia vuol dire rendere proprio questo sguardo di misericordia che alimenta l’impulso verso il servizio vicendevole. Fare Eucarestia non è una devozione privata, ma una crescita nella dimensione comunitaria, che presuppone un cammino insieme e la capacità di condividerne le gioie e i dolori. Non si tratta del “premio dei perfetti”, ma del nutrimento per continuare il viaggio, senza abbattersi di fronte alle difficoltà, e prendersi cura gli uni degli altri. Di conseguenza, non può che rivolgersi a tutti e tutte, in un abbraccio di uguaglianza. La visione inclusiva ispira all’autore pagine meravigliose (pp. 47-59) sull’accoglienza delle persone LGBT+ nella comunità cristiana e nella comunione eucaristica: Gesù intendeva demolire la “religione del Tempio” con i suoi pregiudizi e i suoi privilegi per mettere al centro l’ascolto delle persone e la loro ricerca di amore. Se l’insegnamento della Chiesa perpetua una dolorosa distanza fra la dottrina e la vita, esso tradisce l’invito universale alla misericordia fatto dal Signore.

 

La bellezza e la forza dell’Eucarestia vanno riscoperte e riproposte proprio in un mondo dove essere cristiani non è più un’abitudine scontata o un dovere, ma una scelta personale che la coscienza può fare liberamente solo a patto di cogliere, nel messaggio evangelico e nella vita comunitaria, l’autentica risposta alle domande profonde dell’esistenza. Ormai nessuno può più credere o praticare una fede come precetto, ma solo per una sincera motivazione etica e spirituale. È giunto il momento che la fede perda la sua connotazione metafisica per diventare ermeneutica della vita in cui il soggetto umano sia pienamente ascoltato, coinvolto, liberato. Ma per questo è necessario che la liturgia sia attenta alla vita concreta del presente, valorizzando la comunità dei credenti come popolo di Dio: è, di fatto, il messaggio del Concilio Vaticano II, che intende superare il peso delle incrostazioni imperiali e tridentine per ritornare alle fonti genuine della fede cristiana. La Scrittura e i Padri, infatti, mostrano chiaramente che l’Eucarestia ha senso solo nel contesto della vita comunitaria, in cui i battezzati condividono la dignità sacerdotale e la chiamata universale alla santità. Da questa consapevolezza deriva la necessità che il popolo di Dio sia attivamente coinvolto nella celebrazione.

 

Per partecipare attivamente al mistero eucaristico occorre comprenderlo bene. Gesù ci consegna il suo corpo, cioè la sua umanità che si rende visibile con la sua fatica e la sua passione per le relazioni con le persone che incontrava “per la strada”. Il corpo e il sangue di Cristo sono il segno del suo desiderio di entrare in comunicazione con gli esseri umani, apprezzandone le sfumature e le differenze; e sono anche il segno del suo desiderio di donarsi ai poveri di ogni genere, abitando le periferie e i frammenti esistenziali. La grandezza della nostra vita non dipende da un discorso di quantità, ma di qualità… Capire questa grandezza è uno dei doni più belli della vita, che ci conduce ad abitare con gioia i frammenti esistenziali, nella consapevolezza che è proprio in questi frammenti che il Signore ha nascosto la sua grandezza (p. 32). “Prendete e mangiate, prendete e bevete” equivale allora ad assimilare questo modo di essere di Gesù per sfamare il bisogno dell’uomo.

 

Se il mistero di Dio si è rivelato attraverso l’umanità di Gesù, allo stesso modo la liturgia dev’essere fedele al modo di questa rivelazione (p. 125). La comunità cristiana è chiamata a proseguire la presenza visibile e corporea di Cristo, dono permanente del Padre. Questa dimensione comunitaria, che l’autore fonda su numerosi e solidi riferimenti biblici e patristici, è uno dei temi centrali del Concilio Vaticano II sulla liturgia, che quindi non può più limitarsi ad essere una devozione individuale. Nel modello intimista, triste retaggio del Concilio di Trento, prevale l’idea del sacrificio di Cristo, vittima immolata a causa dei nostri peccati. In questa visione i sacerdoti costituiscono i mediatori della Grazia: possiedono uno status superiore e meritano una posizione gerarchica separata, visibile attraverso l’architettura, l’abbigliamento, la lingua; l’apparenza esteriore deve veicolare il senso del sacro, inteso come dimensione sovraumana. Si tratta di una interpretazione formalista e ritualista del sacramento, che rievoca un fasto pagano ma rimane così distante dalla vita. Se togliamo dalla liturgia ciò che c’è di autenticamente umano, togliamo allo stesso tempo ciò che c’è di autenticamente divino (G. Boselli, citato alle pp. 126-127). Inoltre questa idea suscita nei fedeli un disperato senso di colpa o un atteggiamento di superbia, per cui essi possono accostarsi al sacramento solo se ritenuti degni e meritevoli. Ma soprattutto, il modello della liturgia come devozione intimistica contraddice il dono dell’incarnazione con cui il Signore cerca la relazione con tutti per creare e rafforzare relazioni di fraternità. Infatti, nel modello esistenziale e comunitario i fedeli partecipano attivamente al culto e vi riversano la propria vita, ricevendo la vita di Cristo che costruisce la comunione. “Fare questo in memoria” significa dunque seguire nella vita l’esempio di Gesù, che si dona per il bene della famiglia umana. Quello che celebriamo alla domenica deve avere un legame con le relazioni che intessiamo durante la settimanaIl miracolo che l’eucarestia compie nella vita delle persone che cercano il Signore è la luce che illumina di vita nuova le loro esistenze (pp. 82-83).

 

Come per i discepoli di Emmaus (pp. 73-85: il passo evangelico vi è spiegato con poetica delicatezza), incontrare il Signore significa passare dalla tristezza alla gioia e al bisogno di annunciare il Risorto: ma ciò presuppone la disponibilità ad abbandonare le idee sbagliate su un Dio di potere e accettare la prospettiva di un Dio di amore. Gesù ha amato e basta. È questo amore infinito, vero, autentico che noi assimiliamo ogni volta che ci accostiamo all’altare (p. 94). Da questo incontro nasce l’impulso a condividere il dono ricevuto, a sanare le ingiustizie nel concreto mondo degli uomini, in una fedeltà alla terra che è anche preparazione del Regno. L’Eucaristia alimenta una spiritualità relazionale che diventa cura della comunità umana e cammino di liberazione (pp. 88-107).

 

L’autore ritiene, quindi, fondamentale ritornare alla prospettiva del Concilio Vaticano II e proseguirne la lezione. L’abbandono del latino e l’uso delle moderne lingue nazionali nella liturgia novi ordinis dipendono proprio dall’intenzione di annunciare il Vangelo alle donne e agli uomini di oggi. Ma le comunità umane, come peraltro gli individui, non sono uguali in ogni tempo o in ogni luogo: per questo è necessario che l’annuncio e la liturgia assumano le caratteristiche culturali delle società a cui si rivolgono, in quanto l’inculturazione permette ad una comunità di riconoscersi nella liturgia, superando il retaggio del colonialismo religioso. Rispettare le diverse civiltà umane vuol dire anche riconoscere che a ciascuna di esse lo Spirito ha elargito un tesoro, cioè una visione del mondo e una sensibilità che si approssimano al Vangelo. Proprio per questa ragione la Chiesa, negli scorsi decenni e soprattutto adesso con papa Francesco, sta abbandonando una prospettiva eurocentrica (la pretesa, cioè, che il Vangelo vada annunciato solo con i linguaggi e nelle forme di una certa identità storica, quasi fosse superiore alle altre) per valorizzare le culture di tutti i popoli e i loro specifici carismi, come ad esempio l’attenzione per l’armonia del creato e il rispetto della natura che connotano la mentalità dei popoli amazzonici.

 

Il superamento di barriere secolari, che ormai costituiscono un ostacolo all’annuncio del Vangelo, è un compito urgente anche nell’Occidente post-cristiano, come sostiene Ch. Péguy; l’Eucaristia ha bisogno di una liturgia meno formale e più relazionale, in cui le comunità e i presbiteri locali possano partecipare nel modo più attivo e creativo possibile, per esempio riguardo la spiegazione della parola di Dio, la preghiera dei fedeli, la preghiera eucaristica. Di fronte alla scarsità di presbiteri, propone l’autore, le fedeli e i fedeli laici andrebbero invitati a ricoprire ruoli sempre più ampi, in forza del sacerdozio battesimale da cui nessuno è escluso, e che dovrebbe riconoscere anche alle donne, finalmente, piena dignità per il sacerdozio ministeriale ordinato.

 

Le donne e gli uomini di oggi, come non si stanca di spiegare papa Francesco, non comprendono più un annuncio del Vangelo che si affida a linguaggi desueti, specialmente se questi veicolano un’immagine di Dio che non è quella rivelata da Gesù di Nazaret: questo è il motivo per cui, nella liturgia ma non solo, Dio non andrebbe più chiamato “onnipotente” ma “misericordioso”; allo stesso modo, l’idea dell’Eucaristia come “sacrificio” va sostituita dall’idea dell’Eucaristia come “dono” e sul senso del “peccato” dovrebbe prevalere quello della “responsabilità”. Misericordia, dono, responsabilità: questi sono i valori che l’Eucaristia dovrebbe alimentare nelle comunità cristiane, per far sì che poi i fedeli ne siano autentici testimoni nella vita quotidiana, prendendosi cura dell’umanità e soprattutto dei poveri e dei sofferenti di ogni genere, poiché la sofferenza è il luogo massimo dell’umanità (p. 130), che Gesù ha condiviso fino in fondo.

 

Il libro di Paolo Cugini sviluppa queste idee con una grande coerenza, che si coglie sia nell’articolazione interna sia nei riferimenti teologici, pastorali e liturgici, ispirati al Concilio Vaticano II, ai padri della Chiesa e soprattutto alle Sacre Scritture, alle quali è riservato uno spazio che -giustamente- prevale su quello dei contributi umani nel corso dei secoli: la bibliografia elencata alla fine del volume è assai ricca, ma nelle note è ridotta al minimo. Nello stesso tempo, l’autore cita e commenta con abbondanza il magistero di papa Francesco (soprattutto Evangelii Gaudium, ma anche Misericordiae vultus e Querida Amazonia) di cui viene evidenziata la continuità con il Concilio Vaticano II (Gaudium et spes, Lumen gentium, Sacrosanctum Concilium).

Ciò nonostante, il testo è molto utile anche perché fornisce indicazioni utili a chi desidera approfondire alcune tematiche: la realtà come luogo di manifestazione del mistero (J. L. Marion, p. 18 nota 1); il Concilio Vaticano II e il ritorno alle fonti (M. Faggioli, p. 22 nota 5); umanità e divinità in Cristo (Massimo il Confessore, p. 69 nota 7); il cristianesimo come liberazione dalla falsa religione (Ortensio di Spinetoli, p. 92 nota 4); la bellezza e la festa come segni della presenza di Cristo (D. Bonhoeffer, p. 102 nota 2); il cristianesimo nell’epoca del cambiamento (P. Cugini, p. 181 nota 13).

Ma non deve sfuggire che il discorso tecnico, persino nelle pagine più accademiche, procede in modo fluido e comprensibile e attraverso un tono amichevole, talvolta persino sussurrato. La prosa, sempre concreta, raggiunge in alcuni punti melodie emotive e toccanti (come nelle pagine dedicate ai discepoli di Emmaus, alle donne, alle persone LGBT+) e, grazie all’alternanza di frasi brevi e lunghe, un ritmo lirico, quasi salmico. Questi effetti stilistici derivano anche dall’umanità dell’autore e alludono al suo personale dialogo con la presenza di Cristo nella vita delle persone: sono, a mio giudizio, il segno di un innamoramento che ciascuno e ciascuna di noi siamo chiamati a vivere.

 

Antonio de Caro è docente di scuola secondaria superiore presso "Scuola per l'Europa" di Parma. È autore del libro: La violenza non appartiene a Dio. Relazioni omosessuali e accoglienza nella Chiesa, Calibano 2021. Acquistabile qui:

 

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