Paolo Cugini
La riflessione sulla
dignità dell’uomo ha spinto la ricerca nella direzione di cogliere lo specifico
nei confronti degli altri esserei viventi. Mentre la filosofia platonica, che
ancora oggi è il punto di riferimento della cultura occidntale, presentava
l’uomo in un’accezione negativa, vale a dire come copia imperfetta dell’idea
perfetta di uomo, aprendo il varco in questo modo al dualismo antropologico tra
corpo e anima, come realtà antitetiche a detrimento del corpo, Aristotele
cambia di prospettiva. Se in
Platone il cittadino e l'uomo sono ancora un tutt'uno, per il suo discepolo la
distinzione si accentua sino al punto di affermare che: "l'uomo è per
natura un animale politico" e che non sono politici né gli animali né gli
dei: solo l'uomo lo è. La dimensione politica come caratteristica tipica
dell’uomo ne pone in evidenza l’aspetto sociale, vale a dire la tendenza di
formare e vivere in comunità. È importante sottolineare che per Aristotele le
dimensioni politica e comunitaria non qualificano l’uomo e non costituiscono
nemmeno uno specifico, perché non dicono dell’essenza. Sono condizioni
necessarie ma non sufficienti, sono implicati materialmente dall’essenza della
specie. Ciò che, invece, identifica l’uomo nell’essenza e ne definisce la
diversità rispetto agli altri esseri viventi è il logos. Nella Politica
(libro A) dopo aver ribadito che l'uomo è animale politico, distingue la voce,
che è data anche agli altri animali, dal logos, che costituisce il proprio
dell'uomo, che è l'unico ad avere coscienza del bene e del male. La definizione
sembra ottenere completa compatibilità, e se leggiamo anche il libro E
dell'Etica Nicomachea, vediamo come l'anima sia dotata di ragione: tuttavia per
Aristotele anima è comunemente intesa come sinonimo di sinolo umano, dunque
forse lògon èchon va anche qui inteso come l'uomo stesso, in quanto
dotato della componente razionale dell'anima.
Queste definizioni ritenute “comode”
nel discorso filosofico contemporaneo fanno fatica ad incontrare una breccia.
Nel secolo scorso nella corrente filosofica denominata esistenzialismo, la
ricerca sull’uomo non avviene più tanto analizzando la sua essenza, ma nel modo
in cui l’uomo vive ed esercita la sua libertà. Famosa è l’affermazione di Jean
Paul Sartre: “L’esistenza precede l’essenza” che rivela un modo di concepire
l’uomo al di fuori non solo dell’orizzonte teologico, che aveva segnato il
dibattitto antropologico occidentale, ma anche metafisico. L’uomo, nella
prospettiva sartriana, non è altro che ciò che si fa, sorge nel mondo e si
definisce dopo, è il frutto delle sue scelte e delle sue azioni e la sua
originalità va cercata solamente a questo livello e non come conseguenza di
un’azione creatrice o di un essere metafisico.
Il rifiuto dell’impostazione metafisica
per rispondere alla domanda antropologica accompagna anche la riflessione del
filosofo tedesco Helmuth Plessner, anche se lo sviluppo è differente rispetto a
Sartre. Secondo Plessner, infatti, occorre rivedere l’impostazione
epistemologica della domanda “chi è l’uomo?” e concepire una strumentazione
concettuale adeguata a nuove esigenze. Lo sviluppo delle scienze della natura e
l’affermazione di prospettive dell’indagine delle discipline sociali e storiche
particolarmente attente alla realtà concreta, “rendono assai difficile il
recupero di modalità filosofiche del passato, come quella metafisica” Per
Plessner, per comprendere l’uomo occorre conoscere la sua struttura organica.
Per comprendere la natura umana è decisivo il fenomeno della posizione eretta.
Collochiamo l’uomo nell’ambiente, nella storia e nell’organico in cui viene
individuata la posizione eretta, che permette uno sguardo diverso sulla realtà
nonché l’uso libero della mano, del pollice, che ha un carattere oppositivo e
prensile. Un’autentica riflessione antropologica non può che partire dalla vita
e non da posizioni metafisiche, perché può esistere solo chi abbia vita. Ciò
che preme a Plessner è ribadire una filosofia della vita, ovvero “una filosofia
della natura doveva porsi a monte di una filosofia dell’uomo, perché la vita
coinvolge l’uomo senza essere a lui riservata”.
Una posizione diversa come
impostazione, ma che rappresenta un significativo contributo al dibattito
antropologico contemporaneo è quella di Hannah Arendt. Muovendosi da una
posizione di tipo fenomenologico. In Vita Activa la Arendt analizza
l’uomo nel suo agire specifico che si manifesta nella
politica l’uomo si relaziona, agisce e conduce la sua azione in un contesto
sociale e in qualche modo la affida all’altro. Essere un vivente che nasce
e muore, ha una temporalità, che ha un’apertura nel tempo ed una storicità.
Queste sono, a detta dell’Arendt, le condizioni che devono accompagnare ogni
esistenza umana. Ciò permette alla Arendt di riformulare, a partire da questa
riflessione sulla condizione umana, la domanda metafisica “Che cosa è l’uomo?”
in “Chi è l’uomo?”, sottraendo in questo modo alla prima domanda il rischio di
oggettivare l’uomo. L’uomo non va mai oggettivato, l’uomo è un “chi”, non è una
“cosa”. L’identità dell’uomo, dunque, dev’essere conquistata, perché il “chi è”
di ogni individuo si manifesta attraverso l’azione: l’identità dell’io
scaturisce dal suo agire. Secondo la Arendt agendo l’uomo manifesta la sua
“unicità nella distinzione”. La radice dell’uomo si deve dunque incontrare
nella sua storicità, nel suo sapersi relazionare, con il mondo, con la realtà,
con la vita.
Nessun commento:
Posta un commento