giovedì 19 novembre 2020

APPUNTI SULLA TEORIA ECONOMICA DI JOHN MAYNARD KEYNES



 

 

Paolo Cugini

Negli anni della golden age, anche grazie alla teoria economica dominante (la teoria keynesiana), le differenze tra zone ricche e zone povere del mondo, sia a livello internazionale sia a livello nazionale, tendono a ridursi per poi riprendere nel periodo successivo (nel periodo successivo viene abbandonata la teoria keynesiana e si torna alla teoria neoclassica).

Il ragionamento keynesiano. Keynes è preoccupato che ci sia equilibrio tra domanda e offerta nel mercato, le variabili sono i macro-aggregati, la domanda è domanda aggregata (consumi delle famiglie e investimenti delle imprese), l’offerta è offerta aggregata ossia la produzione nazionale. Mercato delle merci e mercato della moneta e relativo equilibrio. Produzione di piena occupazione, produzione che si avrebbe se tutte le persone che si offrono al mercato del lavoro lavorassero. L’obiettivo keynesiano è quello di stabilire come fare per aumentare la produzione e quindi, l’occupazione. Keynes afferma che non c’è alcuna ragione per cui il punto della produzione sia corrispondente a quello della piena occupazione, è possibile che tutto il sistema economico sia in equilibrio (domanda = offerta), ma che non ci sia piena occupazione (si parla di equilibrio di sotto – occupazione).

Se il sistema si trova in una situazione di equilibrio di sottoccupazione, Keynes si pone il problema di cosa sia necessario fare. Le componenti private del sistema economico non riescono a produrre una domanda aggregata sufficiente per far aumentare la produzione. La domanda aggregata è insufficiente ma è in equilibrio, famiglie e imprese non hanno interesse a modificare consumi e investimenti e, quindi, è necessario l’intervento di un soggetto terzo, lo stato attraverso la politica fiscale o la politica monetaria.



Cos’è la politica fiscale?

La politica fiscale è la determinazione del livello di spesa pubblica (G) e del livello di tassazione (T). Queste sono le variabili della politica fiscale e l’autorità della politica fiscale è lo Stato o il governo che gestisce il paese (nella teoria keynesiana è elemento fondamentale del sistema economico). La politica fiscale può agire attraverso la spesa pubblica o la tassazione. Lo stato è liberto di determinare il livello di spesa pubblica o di tasse. L’aumento della spesa pubblica determina un aumento del PIL, perché la spesa pubblica è un aumento della domanda che agisce sul mercato. La spesa pubblica è una componente della domanda aggregata. Oppure la politica fiscale può essere fatta attraverso la riduzione delle tasse, in questo caso la variazione deve essere negativa (ci deve essere una riduzione delle tasse) perché la riduzione delle tasse determina un aumento dei consumi delle famiglie (secondo la teoria keynesiana). Keynes ipotizza che i consumi delle famiglie siano proporzionali al reddito che le famiglie ricevono, se aumenta il reddito (perché diminuiscono le tasse) aumentano i consumi con conseguente aumento del PIL.

 

Questa è quella che viene definita una politica fiscale espansiva, che significa che avviene una variazione delle variabili della politica fiscale, che sono o la spesa pubblica o la tassazione che attiva dei meccanismi che determinato un aumento del PIL. Una politica fiscale che avvenga tramite una riduzione della spesa pubblica, quindi una variazione negativa della spesa pubblica, farà ridurre la domanda aggregata con una riduzione del PIL. Parimenti un aumento delle tasse determina una riduzione dei consumi delle famiglie, diminuiscono i consumi delle stesse e, quindi, contraggono la domanda aggregata. Queste sono politiche restrittive o di austerità. Secondo Keynes, l’austerità determina un aumento della disoccupazione, questa teoria è stata seguita fino alla fine degli anni ’90, poi sono comparsi economisti neoclassici che hanno applicato una teoria restrittiva per aumentare l’occupazione (austerità espansiva): è la teoria che è stata applicata negli ultimi anni con le politiche di austerità. L’austerità espansiva è considerata da alcuni economisti (tra cui la docente) una “favola”. Nella teoria keynesiana esiste un principio fondamentale che è principio cardine della teoria e ha rappresentato uno stravolgimento della teoria tradizionale: il principio della domanda effettiva. È un principio che vige solo nel mercato delle merci il cui equilibrio si verifica quando l’offerta aggregata è uguale alla domanda aggregata.

 


Cosa succede quando non c’è equilibrio?

Es. se offerta è inferiore alla domanda succede che le imprese hanno prodotto meno di quello che viene richiesto e quindi sono spinte ad aumentare la produzione, che continuerà fino a quando l’offerta non sarà uguale alla domanda. Al contrario, se l’offerta è superiore alla domanda, si verificherà una situazione di eccesso di merci, le imprese si trovano merci invendute, hanno prodotto troppo e quindi tenderanno a ridurre la loro produzione. L’andamento del sistema economico è determinato solo dalla domanda aggregata. Y (la produzione) è la variabile dipendente e la domanda aggregata è la variabile indipendente. Il che significa che, in casi di disequilibrio, è l’offerta che si adegua alla domanda aggregata, quindi, si produce di più o di meno a seconda della domanda. La teoria keynesiana è stata spesso chiamata l’economia dal lato della domanda: l’andamento del sistema economico è determinato dal lato della domanda.

 

Questa è una descrizione semplificata della teoria di Keynes, considerando che la domanda aggregata sia determinata solo da famiglie e imprese e poi l’intervento dello stato. Però, in un modello che considera tutte le variabili e le componenti della domanda aggregata, è molto più complesso perché ci sono le esportazioni nette (ossia le esportazioni – le importazioni), perché anche le esportazioni fanno parte della domanda, sono domanda di beni italiani da parte di altri paesi, mentre le importazioni sono la domanda dell’Italia di beni di altri paesi. Anche considerando le esportazioni nette, il principio della teoria keynesiana non cambia. Se la proposta keynesiana è nel momento in cui ci si trova in un punto di equilibrio di sottoccupazione, bisogna fare delle politiche fiscali espansive. Dette politiche, determinano un disavanzo del bilancio pubblico, perché le due variabili della politica fiscale (la spesa pubblica e le tasse) sono le componenti del bilancio dello stato. Il bilancio dello stato è dato da un confronto tra le entrate e le uscite, nel bilancio statale le entrate sono le tasse e le uscite è la spesa pubblica. Con le politiche fiscali espansive si tende ad avere che le entrate sono inferiori rispetto alle uscite e, quindi, tendono a creare disavanzi di bilancio pubblico. Questa è la critica fatta dai neoclassici alle politiche keynesiane in quei tempi. I neoclassici, soprattutto quelli dell’epoca keynesiana, si basavano sulla ortodossia del bilancio in pareggio, ossia ritenevano che lo stato potesse spendere solo quanto introitato con le tasse al fine di mantenere il pareggio di bilancio (deficit spending).

 

Keynes sapeva benissimo che i suggerimenti di politica economica creavano disavanzi, tanto che sosteneva proprio che, in stato di crisi, lo stato dovesse fare spesa pubblica e fare disavanzo (ciò anche in quanto si riteneva che in quel periodo vi era un accordo tra stato e banca centrale e quest’ultima stampava denaro per coprire i disavanzi), oppure riteneva che i disavanzi fossero temporanei, in quanto funzionali solo per far ripartire l’economia in stato di sotto occupazione. Una volta che l’economia fosse ripartita si assumono nuovi lavoratori, che a loro volta inizieranno a consumare e, quindi, l’aumento della spesa pubblica aumenta i consumi, i quali faranno aumentare la produzione delle imprese che assumeranno nuovi lavoratori e così via ecc. Quando l’economia riparte, lo stato smette di intervenire e lascia funzionale le componenti private del mercato e può aumentare nuovamente le tasse per coprire il deficit.

 


Ora, nella zona area euro, ci sono i vincoli di Maastricht e, quindi, vincolano la possibilità degli stati di fare politiche fiscali espansive. Per precisione, quando l’economia si trova in equilibrio di sotto occupazione, servono le politiche fiscali espansive che sono due o aumento della spesa pubblica o aumento delle tasse, ma andando avanti nella trattazione keynesiana, quello che Keynes dice è che lo stato, quando deve scegliere lo strumento più efficacie per far partire l’economia, dimostra che il più efficace è l’aumento della spesa pubblica (rispetto all’aumento delle tasse), ciò perché la spesa pubblica è una componente immediata della domanda aggregata e influisce direttamente sull’aumento del PIL, mentre l’aumento delle tasse non è immediato perché deve passare per l’aumento dei consumi. Inoltre, c’è il concetto del moltiplicatore keynesiano che dice: che quando c’è aumento della spesa pubblica di un certo valore es. di 100 l’aumento finale che si avrà sul PIL è di più di 100, l’effetto finale viene moltiplicato. Viceversa, lo stesso succede con le tasse ma in un modo minore, es. riduzione delle tasse di 100, alla fine l’aumento del PIL è di più di 100 ma questo aumento causato dall’aumento della spesa pubblica è molto maggiore dell’aumento del PIL causato dalla riduzione delle tasse. Quindi, se si vuole fare aumentare di molto il PIL, è meglio farlo con aumento della spesa pubblica rispetto alla riduzione delle tasse. C’è un moltiplicatore keynesiano per le tasse e un moltiplicatore per l’aumento della spesa pubblica. Va poi considerato che in un momento di crisi anche se si riducono le tasse non ne deriva un boom di consumi, in quanto i soggetti tendono a risparmiare i soldi per la consapevolezza di vivere in un momento di crisi. Quindi il risparmio delle tasse non sarà tradotto integralmente in consumi.

 

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