Paolo Cugini
Negli
anni della golden age, anche grazie alla teoria economica dominante (la teoria
keynesiana), le differenze tra zone ricche e zone povere del mondo, sia a
livello internazionale sia a livello nazionale, tendono a ridursi per poi
riprendere nel periodo successivo (nel periodo successivo viene abbandonata la
teoria keynesiana e si torna alla teoria neoclassica).
Il
ragionamento keynesiano. Keynes è preoccupato che ci sia
equilibrio tra domanda e offerta nel mercato, le variabili sono i
macro-aggregati, la domanda è domanda aggregata (consumi delle famiglie e
investimenti delle imprese), l’offerta è offerta aggregata ossia la produzione
nazionale. Mercato delle merci e mercato della moneta e relativo equilibrio. Produzione
di piena occupazione, produzione che si avrebbe se tutte le persone che si
offrono al mercato del lavoro lavorassero. L’obiettivo keynesiano è quello di
stabilire come fare per aumentare la produzione e quindi, l’occupazione. Keynes
afferma che non c’è alcuna ragione per cui il punto della produzione sia
corrispondente a quello della piena occupazione, è possibile che tutto il
sistema economico sia in equilibrio (domanda = offerta), ma che non ci sia
piena occupazione (si parla di equilibrio di sotto – occupazione).
Se
il sistema si trova in una situazione di equilibrio di sottoccupazione, Keynes
si pone il problema di cosa sia necessario fare. Le componenti private del
sistema economico non riescono a produrre una domanda aggregata sufficiente per
far aumentare la produzione. La domanda aggregata è insufficiente ma è in
equilibrio, famiglie e imprese non hanno interesse a modificare consumi e investimenti
e, quindi, è necessario l’intervento di un soggetto terzo, lo stato attraverso
la politica fiscale o la politica monetaria.
Cos’è la politica fiscale?
La politica fiscale è la determinazione del livello di spesa pubblica (G) e del livello di tassazione (T). Queste sono le variabili della politica fiscale e l’autorità della politica fiscale è lo Stato o il governo che gestisce il paese (nella teoria keynesiana è elemento fondamentale del sistema economico). La politica fiscale può agire attraverso la spesa pubblica o la tassazione. Lo stato è liberto di determinare il livello di spesa pubblica o di tasse. L’aumento della spesa pubblica determina un aumento del PIL, perché la spesa pubblica è un aumento della domanda che agisce sul mercato. La spesa pubblica è una componente della domanda aggregata. Oppure la politica fiscale può essere fatta attraverso la riduzione delle tasse, in questo caso la variazione deve essere negativa (ci deve essere una riduzione delle tasse) perché la riduzione delle tasse determina un aumento dei consumi delle famiglie (secondo la teoria keynesiana). Keynes ipotizza che i consumi delle famiglie siano proporzionali al reddito che le famiglie ricevono, se aumenta il reddito (perché diminuiscono le tasse) aumentano i consumi con conseguente aumento del PIL.
Questa
è quella che viene definita una politica fiscale espansiva, che
significa che avviene una variazione delle variabili della politica fiscale,
che sono o la spesa pubblica o la tassazione che attiva dei meccanismi che
determinato un aumento del PIL. Una politica fiscale che avvenga tramite una
riduzione della spesa pubblica, quindi una variazione negativa della spesa
pubblica, farà ridurre la domanda aggregata con una riduzione del PIL. Parimenti
un aumento delle tasse determina una riduzione dei consumi delle famiglie,
diminuiscono i consumi delle stesse e, quindi, contraggono la domanda
aggregata. Queste sono politiche restrittive o di austerità. Secondo
Keynes, l’austerità determina un aumento della disoccupazione, questa teoria è
stata seguita fino alla fine degli anni ’90, poi sono comparsi economisti
neoclassici che hanno applicato una teoria restrittiva per aumentare
l’occupazione (austerità espansiva): è la teoria che è stata applicata negli
ultimi anni con le politiche di austerità. L’austerità espansiva è considerata
da alcuni economisti (tra cui la docente) una “favola”. Nella teoria keynesiana
esiste un principio fondamentale che è principio cardine della teoria e ha
rappresentato uno stravolgimento della teoria tradizionale: il principio
della domanda effettiva. È un principio che vige solo nel mercato delle
merci il cui equilibrio si verifica quando l’offerta aggregata è uguale alla
domanda aggregata.
Cosa
succede quando non c’è equilibrio?
Es.
se offerta è inferiore alla domanda succede che le imprese hanno prodotto meno
di quello che viene richiesto e quindi sono spinte ad aumentare la produzione,
che continuerà fino a quando l’offerta non sarà uguale alla domanda. Al
contrario, se l’offerta è superiore alla domanda, si verificherà una situazione
di eccesso di merci, le imprese si trovano merci invendute, hanno prodotto
troppo e quindi tenderanno a ridurre la loro produzione. L’andamento del
sistema economico è determinato solo dalla domanda aggregata. Y (la produzione)
è la variabile dipendente e la domanda aggregata è la variabile indipendente. Il
che significa che, in casi di disequilibrio, è l’offerta che si adegua alla
domanda aggregata, quindi, si produce di più o di meno a seconda della domanda.
La teoria keynesiana è stata spesso chiamata l’economia dal lato della
domanda: l’andamento del sistema economico è determinato dal lato della
domanda.
Questa
è una descrizione semplificata della teoria di Keynes, considerando che la
domanda aggregata sia determinata solo da famiglie e imprese e poi l’intervento
dello stato. Però, in un modello che considera tutte le variabili e le
componenti della domanda aggregata, è molto più complesso perché ci sono le
esportazioni nette (ossia le esportazioni – le importazioni), perché anche le
esportazioni fanno parte della domanda, sono domanda di beni italiani da parte
di altri paesi, mentre le importazioni sono la domanda dell’Italia di beni di
altri paesi. Anche considerando le esportazioni nette, il principio della
teoria keynesiana non cambia. Se la proposta keynesiana è nel momento in cui ci
si trova in un punto di equilibrio di sottoccupazione, bisogna fare delle
politiche fiscali espansive. Dette politiche, determinano un disavanzo del
bilancio pubblico, perché le due variabili della politica fiscale (la spesa
pubblica e le tasse) sono le componenti del bilancio dello stato. Il bilancio
dello stato è dato da un confronto tra le entrate e le uscite, nel bilancio
statale le entrate sono le tasse e le uscite è la spesa pubblica. Con le politiche
fiscali espansive si tende ad avere che le entrate sono inferiori
rispetto alle uscite e, quindi, tendono a creare disavanzi di bilancio
pubblico. Questa è la critica fatta dai neoclassici alle politiche keynesiane
in quei tempi. I neoclassici, soprattutto quelli dell’epoca keynesiana, si
basavano sulla ortodossia del bilancio in pareggio, ossia ritenevano che lo
stato potesse spendere solo quanto introitato con le tasse al fine di mantenere
il pareggio di bilancio (deficit spending).
Keynes
sapeva benissimo che i suggerimenti di politica economica creavano disavanzi,
tanto che sosteneva proprio che, in stato di crisi, lo stato dovesse fare spesa
pubblica e fare disavanzo (ciò anche in quanto si riteneva che in quel periodo
vi era un accordo tra stato e banca centrale e quest’ultima stampava denaro per
coprire i disavanzi), oppure riteneva che i disavanzi fossero temporanei, in
quanto funzionali solo per far ripartire l’economia in stato di sotto
occupazione. Una volta che l’economia fosse ripartita si assumono nuovi
lavoratori, che a loro volta inizieranno a consumare e, quindi, l’aumento della
spesa pubblica aumenta i consumi, i quali faranno aumentare la produzione delle
imprese che assumeranno nuovi lavoratori e così via ecc. Quando l’economia
riparte, lo stato smette di intervenire e lascia funzionale le componenti
private del mercato e può aumentare nuovamente le tasse per coprire il deficit.
Ora,
nella zona area euro, ci sono i vincoli di Maastricht e, quindi,
vincolano la possibilità degli stati di fare politiche fiscali espansive. Per
precisione, quando l’economia si trova in equilibrio di sotto occupazione,
servono le politiche fiscali espansive che sono due o aumento della spesa
pubblica o aumento delle tasse, ma andando avanti nella trattazione keynesiana,
quello che Keynes dice è che lo stato, quando deve scegliere lo strumento più
efficacie per far partire l’economia, dimostra che il più efficace è l’aumento
della spesa pubblica (rispetto all’aumento delle tasse), ciò perché la spesa
pubblica è una componente immediata della domanda aggregata e influisce
direttamente sull’aumento del PIL, mentre l’aumento delle tasse non è immediato
perché deve passare per l’aumento dei consumi. Inoltre, c’è il concetto del moltiplicatore
keynesiano che dice: che quando c’è aumento della spesa pubblica di un
certo valore es. di 100 l’aumento finale che si avrà sul PIL è di più di 100,
l’effetto finale viene moltiplicato. Viceversa, lo stesso succede con le tasse
ma in un modo minore, es. riduzione delle tasse di 100, alla fine l’aumento del
PIL è di più di 100 ma questo aumento causato dall’aumento della spesa pubblica
è molto maggiore dell’aumento del PIL causato dalla riduzione delle tasse. Quindi,
se si vuole fare aumentare di molto il PIL, è meglio farlo con aumento della
spesa pubblica rispetto alla riduzione delle tasse. C’è un moltiplicatore keynesiano
per le tasse e un moltiplicatore per l’aumento della spesa pubblica. Va poi
considerato che in un momento di crisi anche se si riducono le tasse non ne
deriva un boom di consumi, in quanto i soggetti tendono a risparmiare i soldi
per la consapevolezza di vivere in un momento di crisi. Quindi il risparmio
delle tasse non sarà tradotto integralmente in consumi.
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