Paolo
Cugini
Domenica
14 ottobre a Roma verrà dichiarato santo non solo papa Paolo VI, ma anche Mons
Oscar Romero, vescovo martire di San Salvador.
Oscar
Romero nasce a Ciudad Barrios di El Salvador il 15 marzo 1917 da una famiglia
modesta. Avviato all’età di 12 anni come apprendista presso un falegname, a 13
entrerà nel seminario minore di S. Miguel e poi, nel 1937, nel seminario
maggiore di San Salvador retto dai Gesuiti. All’età di 20 anni fa il suo
ingresso all’Università Gregoriana a Roma dove si licenzierà in teologia nel
1943, un anno dopo essere stato ordinato Sacerdote. Rientrato in patria si
dedicherà con passione all’attività pastorale come parroco. Diviene presto
direttore della rivista ecclesiale “Chaparrastique” e, subito dopo, direttore
del seminario inter diocesano di San Salvador. In seguito avrà incarichi
importanti come segretario della Conferenza Episcopale dell’America Centrale e
di Panama. Il 24 maggio 1967 è nominato Vescovo di Tombee e solo tre anni dopo
Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di San Salvador. Nel febbraio del ’77 è
Vescovo dell’arcidiocesi, proprio quando nel paese infierisce la repressione
sociale e politica. Sono, ormai, quotidiani gli omicidi di contadini poveri e
oppositori del regime politico, i massacri compiuti da organizzazioni
paramilitari di destra, protetti e sostenuti dal sistema politico e finanziati
dagli Stati Uniti. E’ il periodo in cui il generale Carlos H. Romero è
proclamato vincitore, grazie a brogli elettorali, delle elezioni presidenziali.
La nomina del nuovo Vescovo non desta preoccupazione: mons. Romero, si sa, è
“un uomo di studi”, non impegnato socialmente e politicamente; è un
conservatore. Il potere confida in una pastorale aliena da ogni compromesso
sociale, una pastorale spirituale e quindi asettica, disincarnata. Mons. Romero
inizia il suo lavoro con passione.
Passa
poco tempo che le notizie della sua inaspettata attività in favore della
giustizia sociale giungono lontano e presto arrivano i primi riconoscimenti
ufficiali dall’estero. Nelle omelie domenicali Romero prende posizione in favore
dei poveri: “La vera persecuzione è contro il
popolo dei poveri. Essi sono il popolo crocifisso come Gesù, il popolo
perseguitato come il servo di Yahvè. Sono quelli che completano nel loro corpo
ciò che manca alla passione di Cristo. E, per questa ragione, quando la Chiesa
ha raccolto le speranze e i dolori dei poveri ha corso la stessa sorte di Gesù
e dei poveri: la persecuzione”. Famose divengono anche, le sue reiterate prese di
posizione nei confronti del potere locale e delle ingiustizie realizzate nei
confronti degli ultimi, i poveri contadini. “Il nostro appello si rivolge
anche a coloro che per difendere ingiustamente i propri interessi e privilegi,
si sono resi colpevoli di tanto malessere e tanta violenza. La giustizia e
la voce dei poveri devono essere ascoltate perché si tratta
della causa stessa del Signore che chiama a conversione e che un giorno
giudicherà tutti gli uomini”.
Nel vescovo Romero matura sempre di più la
consapevolezza che i cristiani non possono rimanere chiusi nelle chiese e,
soprattutto, non possono rimanere ommessi dinanzi alle situazioni di violenza e
d’ingiustizia. “La Chiesa sente come suo dovere e diritto essere presente in
questo settore della realtà, perché il cristianesimo deve evangelizzare la
totalità dell’esistenza umana, inclusa la dimensione
politica. Per questo critica la posizione di coloro che tendono a ridurre
lo spazio della fede alla vita personale o familiare, escludendo l’ordine
professionale, economico, sociale e politico come se il peccato, l’amore,
l’orazione e il perdono non avessero anche lì rilevanza… Le masse vanno evangelizzate
in modo che da masse si trasformino in popolo. Le comunità cristiane non
possono proporsi come un luogo di rifugio tranquillo e alienante, devono essere
fermento, impegno”. L’impegno politico caldeggiato dal Vescovo Romero non
si è mai identificato con l’attivismo in un partito, come spesso ricordava
nelle sue omelie e nella terza lettera pastorale scritta nel giorno della
trasfigurazione del Signore del 1979.
Ma
che cosa è accaduto nell’animo del vescovo conservatore? Nel libro Romero martire di Cristo e
degli oppressi pubblicato dall’Editrice Missionaria, il teologo
sudamericano John Sobrino sostiene che potrebbe essere stato
l’assassinio del gesuita Rutilio Grande da parte dei sicari del regime a
provocare il cambiamento. « monsignor Romero – afferma John Sobrino -
conosceva molto bene Rutilio, lo considerava un sacerdote esemplare e un amico…
ma troppo politicizzato… credo che davanti al cadavere di Rutilio a monsignor
Romero siano cadute le bende dagli occhi».
Romero
apre un’inchiesta sul delitto e ordina la chiusura di scuole e collegi per tre
giorni consecutivi. Nei suoi discorsi, a partire da quel momento, inizia a
mettere sotto accusa il potere politico e giuridico di El Salvador. Istituisce,
in seguito, una commissione permanente in difesa dei diritti umani. Le sue
omelie, ascoltate da moltissimi parrocchiani e trasmesse dalla radio della
diocesi, vengono pubblicate sul giornale “Orientaciòn”. Una certa chiesa,
quella filo-regime, si impaurisce
allontanandosi da Romero e dipingendolo come un ”incitatore della lotta di classe e del socialismo”.
In
realtà Romero non invitò mai nessuno alla lotta armata, ma, piuttosto, alla
riflessione, alla presa di coscienza dei propri diritti e all’azione mediata,
mai gonfia d’odio. Basterebbe leggere le sue quattro lettere pastorali e, in
modo particolare le ultime due, per rendersi conto dello stile di Romero.
Purtroppo, il regime sfidato aveva alzato il tiro; dal 1977 al 1980 si
alternano i regimi ma non cessano i massacri: il 24 marzo 1980 Oscar Romero,
proprio nel momento in cui sta elevando il Calice nell’Eucarestia viene
assassinato. Le sue ultime parole sono ancora per la giustizia: “In questo Calice il vino diventa sangue che
è stato il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio di Cristo darci il
coraggio di offrire il nostro corpo ed il nostro sangue per la giustizia e la
pace del nostro popolo. Questo momento di preghiera ci trovi saldamente uniti
nella fede e nella speranza”.
Da
quel giorno la gente lo chiama, lo prega, lo invoca come San Romero ’America. La
profezia di Romero, il vescovo fatto popolo si è realizzata: “Se mi uccideranno – aveva detto – risorgerò nel popolo salvadoregno”.
Durante i tre anni di episcopato a san Salvador Romero aveva fatto di
tutto per promuovere la pace. Era profondamente convinto della necessità di
promuovere leggi giuste per garantire ai contadini il giusto salario. L’invito
costante era rivolto ai militari affinché smettessero di uccidere, perché la
pace si potrà ottenere solo con la giustizia e non con la violenza. “Desidero
fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base
della guardia nazionale, della polizia, delle caserme. Fratelli! Siete del
nostro stesso popolo! Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti
all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che
dice “Non ammazzare!”… E’ ora che recuperiate la vostra coscienza; e
che obbediate alla vostra coscienza piuttosto che agli ordini del peccato”.
Come sappiamo, gli appelli di Romero rimasero per lungo tempo senza una
risposta positiva. L’anno successivo della
sua morte, tra l’8 e il 13 dicembre 1981, l’Esercito della dittatura
salvadoregna sterminò centinai di contadini, donne, anziani, adolescente e
bambini. Il 20 ottobre 2013 mons. José Luis Escobar Alas, arcivescovo di San
Salvador, parlando con la stampa ha dichiarato: «Gli archivi dell’Ufficio
Tutela legale non saranno mai consegnati al Procuratore generale». Questi
archivi, proprietà della Chiesa salvadoregna, conservano la memoria storica
documentata di almeno 50.000 casi di persone che dal giorno della loro
fondazione (1977) per volere dell’arcivescovo Oscar Romero, hanno chiesto
protezione e aiuto alle autorità ecclesiastiche locali, in particolare quando i
diritti umani dei salvadoregni erano violati sistematicamente, soprattutto da
parte dei regimi di destra. Il Vescovo Romero era consapevole che chi si
schiera dalla parte dei poveri e denuncia ogni forma d’ingiustizia e oppressione,
prima o poi arriverà a soffrire pesanti conseguenze. In un’omelia pronunciata a
pochi mesi dalla morte disse: “La Chiesa deve denunziare ciò che viola
la vita, la libertà e la dignità dell’uomo. Non chiede la vita, ma dà la vita
per difendere la vita. La mia funzione è di essere voce di questa chiesa. Colui
che si impegna con i poveri deve correre lo stesso destino dei poveri:
scomparire, essere torturato, catturato, ucciso. Come pastore della Chiesa e
del popolo, io sono obbligato a dare la vita per coloro che amo”. E così, purtroppo, avvenne.
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