Paolo
Cugini
Non si diventa
missionari perché si va in missione. È qualcosa che una persona deve avere dentro
come battezzato, come discepolo di Gesù, che lo vuole imitare, vuole seguire il
suo esempio. E allora con entusiasmo si prende su e si va per le strade, le
case ad incontrare le persone dove vive la gente e lì senza mediazione, senza
sotterfugi si annuncia il Vangelo di Gesù. Perché la realtà è questa e cioè che
il Vangelo per essere annunciato non ha bisogno di strutture, di cose molto
sofisticate. Ha semplicemente bisogno di un cuore che lo accolga e che
accogliendolo si faccia testimone, portatore, annunciatore.
Gesù non ha bisogno di
sofisticazioni: è l’inganno del mondo che complica tutto e soprattutto che
tenta di rendere tutto alla mercé dei ricchi, di coloro che le cose non le
accolgono, ma le comprano. Gesù, invece non lo compriamo. Forse qualcuno crede
di comprarlo, ma la realtà è un’altra. Anche perché Gesù fugge e si nasconde:
si nasconde là dove l’umanità non lo cerca e cioè nei poveri, nei sofferenti,
negli esclusi, negli emarginati, senza casa e senza terra. In questa
prospettiva missionaria, missionario non è solamente colui che annuncia il
Vangelo all’umanità, ma che allo stesso tempo è alla ricerca continua del
Signore. Perché la verità è che nessuno possiede il Signore, anche perché il
Signore non si lascia possedere da nessuno, e c’è continuamente bisogno di
cercarlo. E allora, il missionario mentre annuncia il Signore lo trova nei
poveri che ricevono l’annuncio, lo trova tutte le volte che si sforza di andare
fuori: fuori dalle Chiese, dagli oratori, dagli schemi prefissati; fuori per un
incontro più vero e autentico, perché povero e spogliato di tutto. Missionario
è colui che, come Cisto, è alla ricerca dell’uomo, della donna e lo va a
trovare per entrare nella sua casa, per cercare un’approssimazione, una
relazione. Di fatto, il missionario è anzitutto un uomo di relazione, che cerca
la relazione che ama conoscere gli altri e lasciarsi conoscere.
È chiaro che la
missionarietà comporta una stanchezza, un ritorno. Ciò significa che come c’è
il tempo dell’uscire fuori, c’è anche il tempo dell’entrare dentro. Ed è il
tempo della preghiera, della riflessione, del voltarsi dinanzi al Padre. È il
momento, anche dell’accoglienza dell’altro. La missione, per chi la vive,
comporta anche un cambiamento. Ogni approssimazione, se è autentica, comporta
un mutamento. C’è qualcosa che deve morire per lasciare spazio all’altro, alla
novità dell’altro. E l’altro è il fratello, la sorella alla quale mi sono
avvicinato per portargli un annuncio di salvezza che è la conoscenza del
Signore. E in questo incontro scopriamo che c’è qualcosa che non conoscevamo,
che non sapevamo; scopriamo che mentre portiamo il Signore, Lui stesso ci sta
aspettando nel fratello, nella sorella. Per questo c’è sempre una morte in un
incontro di annuncio, perché il nuovo uccide ciò che è passato, il vecchio, per
fare spazio alla novità. Non c’è risurrezione senza morte (Diario 2000).
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