Matteo Mennini, La
chiesa dei poveri. Dal Concilio Vaticano II a Papa Francesco, Guerini e
Associati, Milano 2016
Sintesi: Paolo Cugini
Il lavoro di Matteo Mennini ha come
obiettivo quello di ricostruire un dibattito che ha segnato profondamente il Concilio
Vaticano II e che aiuta a comprendere meglio il significato dell’attuale
pontificato di Papa Francesco, vale a dire il dibattito sulla Chiesa ei poveri.
I due punti di riferimento di questa ricerca storica sono l’attività del gruppo
del Collegio Belga e il ruolo del suo principale animatore vale a dire il
sacerdote francese Paul Gautheir (1914-2002). La ricerca si sforza di
contestualizzare il dibattito ecclesiale nell’ambito degli eventi per non
correre il rischio di ridurlo ad una semplice querelle teologica interna. Il lavoro è strutturato su tre parti. Nella
prima Mennini ricostruisce la genesi del tema in questione, presentando anche i
principali protagonisti del dibattito conciliare sulla Chiesa dei poveri. Primo
di questi è il Papa Giovanni XXIII che nel il famoso radiomessaggio pronunciato
per annunciare l’apertura del Concilio Vaticano II, annunciava che: “In faccia
ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la
Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Linguaggio semplice e
chiaro che esprimeva il desiderio di aprire un dialogo con il mondo sui temi
scottanti dell’attualità e, trai quali, la disuguaglianza sociale. Del resto i
primi anni ’60 del secolo scorso, erano ancora molto vicini alla fine della
seconda guerra mondiale e le nazioni erano coinvolte nella riflessione sul tipo
di progresso economico da proporre. “Si
affermava una prospettiva dinamica che, a partire dalla seconda guerra mondiale
e il parallelo al processo di decolonizzazione, sostituiva alla definizione di
arretratezza quella di sottosviluppo”.
Papa Giovanni XXIII con i suoi
interventi mostra l’intenzione che il Concilio Vaticano II non intendeva
soffermarsi appena per chiarimenti interni alla Chiesa, ma desiderava offrire
il suo contributo per affrontare i grandi temi del mondo contemporaneo. Figura
importante del dibattito sulla Chiesa dei poveri alla quale Mennini dedica
molto spazio durante tutto lo svolgimento della ricerca è il sacerdote francese
Paul Gauthier. Vicino alle esperienze dei piccoli fratelli di Charles de
Foucauld e attento all’esperienza dei preti operai già presenti in Francia sin
dalla decada degli anni ’30, Gauthier durante le prime settimane del Concilio
diffonde un dossier in titolato: “Gesù, la chiesa e i poveri”, che offrirà
l’occasione ai vescovi e ai teologi approfondire la riflessione sul rapporto
tra la Chiesa e i poveri. Il dossier nasceva dalla percezione che la chiesa
avendo perso il contatto con la classe operaia aveva perso il contatto con i poveri.
Da qui la domanda centrale: la separazione tra la Chiesa e le masse operaie era
sintomo della frattura più profonda tra la Chiesa e Cristo? Gauthier metteva il
dito sulla piaga della percezione che il mondo aveva di una Chiesa distante
dalle masse lavoratrici, “Gauthier mise
in connessione l’idea che Cristo si era inserito nel mondo dei lavoratori e dei
poveri direttamente alla dottrina della Mystici Corporis, in cui si affermava che quanto proveniva
dalla divina pienezza di Cristo affluisce alla Chiesa affinché essa quanto è
più possibile sia a Lui somigliante”. Gauthier nel dossier richiamava la
Chiesa alla sua originaria vocazione di annunciare il Vangelo ai poveri e, per
realizzare tale progetto, era necessario vivere in mezzo a loro. Il sacerdote francese
diverrà l’animatore di un gruppo dci vescovi convocati sin dal mese di ottobre
1962 dai vescovi Himmer e Hakim per iniziare a riflettere sulle scottanti
questioni del dossier di Gauthier. L’incontro aveva prodotto varie conclusioni
e proposte tra le quali quella di rimuovere gli ostacoli che impedivano alla
Chiesa di mostrare al mondo operaio la sua vera natura e missione. La
percezione condivisa dal gruppo è che i poveri non sono in grado di accogliere
i messaggi della Chiesa perché scandalizzati dai segni esteriori e dal tenore
di vita dei suoi membri. Due membri del gruppo, i vescovi Mercier e Helder Camara, proposero di rivolgersi
al Papa affinché il Concilio si occupasse esplicitamente della povertà della
Chiesa.
La seconda parte della ricerca di
Mennini ha come titolo: alla ricerca della povertà perduta. L’autore mostra lo
sforzo del gruppo di lavoro di elaborare un testo che mostrasse la relazione
intrinseca tra l’attenzione ai poveri, la chiesa povera e la liturgia. A dire
del gruppo c’è uno sfarzo liturgico che offende i poveri. La chiesa dei poveri
deve dunque essere visibile sia nello stile di vita dei ministri, che nelle
celebrazioni liturgiche. “Non si corre il pericolo che la sontuosità delle
suppellettili e dei paramenti liturgici costituisca occasione di scandalo per
color che assistono alle cerimonie?” (p. 74).
Sono osservazioni di questo tipo,
manifestate in aula Conciliare dai rappresentanti del collegio Belga, che
animavano le discussioni del Concilio. Veniva sempre più manifestata una
profonda preoccupazione per una rinnovata comprensione della povertà della
Chiesa come condizione per la sua credibilità nel mondo e che la povertà della
Chiesa non poteva semplicemente essere un tema fra gli altri. Secondo Mennini
fu proprio questa forte presenza del Collegio Belga nel Concilio che provocò il
dibattito della Chiesa povera e dei poveri anche al di fuori delle stanze
vaticane. Di fatto, l’autore cita lettere pastorali di molti vescovi e riviste
cattoliche parlando ampiamente e approfonditamente del tema in questione. Nel
frattempo Paul Gauthier vero e proprio animatore del gruppo di lavoro che si
era costituito sul tema della povertà della Chiesa, nel 1963 lancia un nuovo
libro nel quale si chiedeva come mai fosse così arduo parlare della Chiesa dei
poveri. Gauthier era consapevole che il problema della chiesa dei poveri
metteva in discussione il tradizionale impianto ecclesiologico. “Per un cristiano – sottolinea l’autore – Cristo è tanto presente nei poveri come
lo è nell’Eucarestia e nella gerarchia. Ammettere ciò significava molto più che
un orientamento pastorale, non era l’aggiornamento di una prassi, ma del
contenuto stesso della fede” (p. 101).
Diveniva così sempre più chiaro che il movimento innescatosi con le
riunioni del Collegio Belga e, soprattutto, con l’azione di Paul Gauthier,
superava l’ambito stesso del Concilio e influenzasse il dibattito pastorale di
molte diocesi. Le riunioni al Collegio Belga avevano avviato la promozione di
un vissuto concreto e visibile della povertà nella Chiesa e
dell’evangelizzazione dei poveri. Lo stesso Gauthier avviò una riflessione
sulla povertà in chiave ecumenica e il rapporto della Chiesa col comunismo a
cui il gruppo di lavoro guardava con grande preoccupazione pastorale. Durante
la seconda sessione del Concilio i membri del gruppo del Collegio Belga
s’incontrarono per una verifica del lavoro svolto. Monsignor Himmer sostenne
che, accanto ad aspetti positivi tra i quali il diffondersi anche tra i fedeli
laici una sensibilità verso il tema della Chiesa povera e dei poveri, non
mancavano però alcune perplessità. Himmer sosteneva che le stesse categorie
sulle quali si stava da tempo lavorando non erano chiare. “Che cosa significava Chiesa dei poveri? In che modo andava intesa la
presenza di Cristo nei poveri? Quale rapporto tra una Chiesa che vuole vivere
poveramente, l’evangelizzazione dei poveri e le forme di aiuto paternalistico?”
(p. 130).
Il dibattito sulla Chiesa dei poveri diviene con il passare del tempo
sempre più teso, anche perché non tutti riescono ad accompagnare l’irruenza e
le continue provocazioni di Paul Gauthier. Alcuni esegeti e teologi quali De
Lubac, Mollat e Martelet, dopo aver analizzato le bozza dei documenti prodotte
dal gruppo per essere discusse nelle sessioni conciliari ritennero quei testi
troppo ideologiche e non esenti da gravi errori. Mennini accompagna l’evolversi
del dibattito Conciliare sul tema della Chiesa dei poveri con grande attenzione
e con continui rimandi ai documenti non solo conciliari, ma soprattutto a testi
che furono prodotti in quel periodo che aiutano nella comprensione dei
contenuti elaboratori durante il Concilio sul tema in questione. L’autore
riporta alcuni passaggi significativi dell’intenzione del gruppo belga di migliorare
i contenuti dei testi criticati. Si afferma, così, che i poveri, intesi in
senso biblico come tutti gli oppressi, portano il peso del peccato del mondo e
sono associati al mistero della redenzione. Se Cristo infatti, si è
identificato con la sua Chiesa e vive misteriosamente in essa, si è anche
identificato con i poveri e vive misteriosamente in essi.
Nella terza ed ultima parte del libro
Mennini affronta il tema del rapporto della Chiesa con la modernità. Siamo ad
un passaggio di svolta del Concilio. La morte di papa Giovanni XXIII e
l’elezione di Paolo Vi aveva creato non poche tensioni sia nel mondo ecclesiale
che civile. La grande domanda che in molti si facevano era quella di capire se
il nuovo Papa avesse continuato sullo stile di Papa Giovanni. Sin dalle prime
mosse, come sostiene Mennini e, soprattutto, la prima enciclica di Paolo VI, l’Ecclesiam suam, fugarono ogni dubbio.
L’enciclica, infatti, poneva come punto di partenza l’atteggiamento di quel
dialogo che era stata la caratteristica dello stile di Papa Giovanni. Uno dei
punti più scottanti in questa nuova tappa conciliare a partire dal tema che il
libro tratta, ruota attorno secondo l’autore, al nuovo libro di Paul Gauthier: Le Concile et l’Eglise des Pauvres. Il
Testo di Gauthier inviato a forma di manoscritto a Himmer e a diversi vescovi
per raccogliere le prime opinioni, aveva incontrato a della di Mennini molte
resistenze. Comincia sempre più a farsi strada il problema dello stile, del
modo giusto da utilizzare da proporre le tesi più significative della Chiesa
dei poveri elaborate dal gruppo. Mercier prevedeva che le acquisizioni sul
piano teologico del gruppo del Collegio Belga venissero rielaborate da Congar e
Mollat, al fine di stimolare ulteriori ricerche, e garantire così maggiori
garanzie sull’impianto teorico da presentare in commissione conciliare. Varie
strategie vengono studiate sul come presentare il problema della Chiesa dei
poveri nel dibattito conciliare. Da un lato, c’è chi sosteneva che era
necessario parlare prima di tutto direttamente con Paolo VI e, dall’altra chi
non riteneva necessario un simile approccio. In questo contesto viene segnalata
dall’autore l’azione dell’allora vescovo di Bologna Lercaro, coadiuvato da
Giuseppe Dossetti. Mentre si procede nella riflessione ci si rende sempre più
conto che: “non era sufficiente affermare
la necessità dello spirito di povertà dei singoli, ma quello delle istituzioni
e, inoltre, andavano condannate le moderne forme di usura, superare la carità
assistenziale dell’elemosina per sviluppare strutture di cooperazione in favore
dell’autonomia dei poveri” (p. 176).
A questo punto il dibattito si allarga
alla ricerca delle cause della povertà. Il Vescovo Zoungrana dell’Alto Volta
prese la parola a nome di 70 vescovi africani sostenendo che il ritardo dello
sviluppo, soprattutto in Africa era dovuto a diversi fattori. Primo fra tutti
era necessario considerare la questione demografica, l’utilizzo del suolo,
unito alla scarsa possibilità d’investimenti e la conseguente poca competitività
commerciale dei paesi poveri. Mennini riporta a questo punto del suo lavoro, il
frutto dell’analisi del gruppo italiano che si era riunito attorno a Lercaro e
che aveva elaborato un testo intitolato: Appunti sul tema della povertà della
Chiesa. Il documento era diviso in due parti: nella prima veniva esposto un
plausibile itinerario per un’elaborazione dottrinale del tema in questione; la
seconda presentava i suggerimenti pratici su cui il gruppo stava lavorando. Le
tredici pagine degli Appunti trovarono
sostegno del gruppo del Collegio Belga. Nonostante ciò, Mennini mostra come
tutto questo lavoro non riuscì a portare i frutti sperati. Nel frattempo molte
critiche stava ricevendo il manoscritto di Paul Gauthier, non tanto per il
contenuto, quanto piuttosto per lo stile. Per come si era mosso, stava
emergendo l’idea tra i membri del Concilio, che il testo fosse l’espressione di
un gruppo chiuso e che stesse proponendo addirittura un tipo di divisione tra
la Chiesa dei poveri e la Chiesa dei ricchi. Il dibattito in aula conciliare
proseguì sul tema della questione operaia e sul comunismo. Dalla narrazione
riportata da Mennini si coglie la grande importanza che ebbero gli interventi
di Woytila il quale insisteva nel presentare e argomentare i pericoli del
marxismo e, allo stesso tempo, presentare la Chiesa come unica alternativa ad
esso. Nello stesso periodo. L’instancabile Paul Gauthier inviava in forma di
circolare un testo che raccoglieva una serie di lettere scritte da operai che
lasciava intendere forti accenti di critica nei confronti della Chiesa. Nel
dibattito conciliare gli interventi si concentrarono sul tema dell’ateismo dei
poveri e degli operai influenzati dal comunismo. Anche in questo caso,
illuminanti furono le riflessioni proposte da Paul Gauthier: “L’ateismo dei poveri, diverso da quello dei
ricchi, nascondeva una preghiera, resa silenziosa dalla propaganda che abusava
dell’ignoranza delle masse, dalla miseria che provocava un sentimento di
abbandono e dall’ingiustizia” (p.205).
Secondo Gauthier, la condanna del
comunismo da parte della Chiesa avrebbe allontanato ancor di più gli operai, e
quindi i poveri dalla chiesa. Molte delle istanze proposte sia da Gauthier, che
dal gruppo riunito al Collegio Belga non passarono o passarono in modo molto
offuscato. Fu per questo motivo e con questa consapevolezza che un gruppo di
circa sessanta vescovi conciliari si riunì il 16 novembre del 1965, a circa
venti giorni di distanza dalla chiusura del Concilio, per celebrare una messa
durante la quale siglarono un patto che passò alla storia come il patto delle
catacombe. In questo testo, riportato in forma integrale dall’autore, i vescovi
presenti all’evento dichiaravano la disponibilità a vivere in modo sobrio per
quanto riguarda il cibo, la casa, i mezzi di trasporto “in modo conforme alla vita quotidiana della nostra gente” (p.221).
Dichiaravano inoltre di non voler possedere nessuna cosa, affidando la gestione
finanziaria ai laici. L’impegno inoltre si estendeva a coinvolgere in questo
stile di sobrietà evangelica sia i confratelli che la società civile.
Nell’ultimo paragrafo dell’ultimo capitolo Mennini prende in esame l’immediato
dopo Concilio sul tema della Chiesa dei poveri e la figura di Paolo VI, il
quale sembra continuare le riflessioni conciliari nell’Enciclica Populorum Progressio. Sviluppo integrale
dell’uomo e sviluppo solidale dell’umanità erano i due grandi temi del testo.
Molto positiva, a detta dell’autore, fu la recezione dell’Enciclica sia in
Italia che all’estero e, in modo particolare in America Latina. Nel frattempo
si acuì la tensione tra Israele e la Palestina che sfociò nell’attacco
dell’aviazione israeliana del 5 giugno 1967. Durissime furono le ripercussioni
della guerra sulla popolazione civile. Paul Gauthier e i sui amici presenti sul
territorio palestinese si trovarono coinvolti in questo scenario di morte. Come
sempre Gauthier prese l’occasione per una riflessione di ampio respiro
spirituale. Per Gauthier Nazareth non era più la terra del Carpentier, ma del
Crocifisso e dell’agnello sgozzato. “La solidarietà con i popoli oppressi –
sostiene Mennini – l’impegno per il riscatto dei poveri, le manifestazioni a
favore della pace divennero la grammatica con cui una generazione intera riuscì
a rappresentare il desiderio e il bisogno di una mutazione genetica della società”
(p.234). Paolo VI tornò a parlare della Chiesa dei poveri nell’udienza del 2
ottobre del 1968. La Chiesa dei poveri fu per Paolo VI la dimensione veritativa
della condizione del cristiano nella modernità contemporanea, non solo nel
senso teologico, ma anche sociologico. “Dal
Concilio a Medellin la chiesa aveva scoperto la periferia in cui sacerdoti,
religiosi e laici vivevano condizioni drammatiche che nel proprio apostolato
riflettevano le contraddizioni sociali, politiche ed economiche di un mondo
sempre più interconnesso, ma diviso” (p. 240.
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