martedì 30 maggio 2017

LA CHIESA POVERA E DEI POVERI NEL DIBATTITO DEL CONCILIO VATICANO II




Matteo Mennini, La chiesa dei poveri. Dal Concilio Vaticano II a Papa Francesco, Guerini e Associati, Milano 2016
Sintesi: Paolo Cugini

Il lavoro di Matteo Mennini ha come obiettivo quello di ricostruire un dibattito che ha segnato profondamente il Concilio Vaticano II e che aiuta a comprendere meglio il significato dell’attuale pontificato di Papa Francesco, vale a dire il dibattito sulla Chiesa ei poveri. I due punti di riferimento di questa ricerca storica sono l’attività del gruppo del Collegio Belga e il ruolo del suo principale animatore vale a dire il sacerdote francese Paul Gautheir (1914-2002). La ricerca si sforza di contestualizzare il dibattito ecclesiale nell’ambito degli eventi per non correre il rischio di ridurlo ad una semplice querelle teologica interna.  Il lavoro è strutturato su tre parti. Nella prima Mennini ricostruisce la genesi del tema in questione, presentando anche i principali protagonisti del dibattito conciliare sulla Chiesa dei poveri. Primo di questi è il Papa Giovanni XXIII che nel il famoso radiomessaggio pronunciato per annunciare l’apertura del Concilio Vaticano II, annunciava che: “In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Linguaggio semplice e chiaro che esprimeva il desiderio di aprire un dialogo con il mondo sui temi scottanti dell’attualità e, trai quali, la disuguaglianza sociale. Del resto i primi anni ’60 del secolo scorso, erano ancora molto vicini alla fine della seconda guerra mondiale e le nazioni erano coinvolte nella riflessione sul tipo di progresso economico da proporre. “Si affermava una prospettiva dinamica che, a partire dalla seconda guerra mondiale e il parallelo al processo di decolonizzazione, sostituiva alla definizione di arretratezza quella di sottosviluppo”. 

Papa Giovanni XXIII con i suoi interventi mostra l’intenzione che il Concilio Vaticano II non intendeva soffermarsi appena per chiarimenti interni alla Chiesa, ma desiderava offrire il suo contributo per affrontare i grandi temi del mondo contemporaneo. Figura importante del dibattito sulla Chiesa dei poveri alla quale Mennini dedica molto spazio durante tutto lo svolgimento della ricerca è il sacerdote francese Paul Gauthier. Vicino alle esperienze dei piccoli fratelli di Charles de Foucauld e attento all’esperienza dei preti operai già presenti in Francia sin dalla decada degli anni ’30, Gauthier durante le prime settimane del Concilio diffonde un dossier in titolato: “Gesù, la chiesa e i poveri”, che offrirà l’occasione ai vescovi e ai teologi approfondire la riflessione sul rapporto tra la Chiesa e i poveri. Il dossier nasceva dalla percezione che la chiesa avendo perso il contatto con la classe operaia aveva perso il contatto con i poveri. Da qui la domanda centrale: la separazione tra la Chiesa e le masse operaie era sintomo della frattura più profonda tra la Chiesa e Cristo? Gauthier metteva il dito sulla piaga della percezione che il mondo aveva di una Chiesa distante dalle masse lavoratrici, “Gauthier mise in connessione l’idea che Cristo si era inserito nel mondo dei lavoratori e dei poveri direttamente alla dottrina della Mystici Corporis, in cui si affermava che quanto proveniva dalla divina pienezza di Cristo affluisce alla Chiesa affinché essa quanto è più possibile sia a Lui somigliante”. Gauthier nel dossier richiamava la Chiesa alla sua originaria vocazione di annunciare il Vangelo ai poveri e, per realizzare tale progetto, era necessario vivere in mezzo a loro. Il sacerdote francese diverrà l’animatore di un gruppo dci vescovi convocati sin dal mese di ottobre 1962 dai vescovi Himmer e Hakim per iniziare a riflettere sulle scottanti questioni del dossier di Gauthier. L’incontro aveva prodotto varie conclusioni e proposte tra le quali quella di rimuovere gli ostacoli che impedivano alla Chiesa di mostrare al mondo operaio la sua vera natura e missione. La percezione condivisa dal gruppo è che i poveri non sono in grado di accogliere i messaggi della Chiesa perché scandalizzati dai segni esteriori e dal tenore di vita dei suoi membri. Due membri del gruppo, i vescovi Mercier e Helder Camara, proposero di rivolgersi al Papa affinché il Concilio si occupasse esplicitamente della povertà della Chiesa.
La seconda parte della ricerca di Mennini ha come titolo: alla ricerca della povertà perduta. L’autore mostra lo sforzo del gruppo di lavoro di elaborare un testo che mostrasse la relazione intrinseca tra l’attenzione ai poveri, la chiesa povera e la liturgia. A dire del gruppo c’è uno sfarzo liturgico che offende i poveri. La chiesa dei poveri deve dunque essere visibile sia nello stile di vita dei ministri, che nelle celebrazioni liturgiche. “Non si corre il pericolo che la sontuosità delle suppellettili e dei paramenti liturgici costituisca occasione di scandalo per color che assistono alle cerimonie?” (p. 74). 

Sono osservazioni di questo tipo, manifestate in aula Conciliare dai rappresentanti del collegio Belga, che animavano le discussioni del Concilio. Veniva sempre più manifestata una profonda preoccupazione per una rinnovata comprensione della povertà della Chiesa come condizione per la sua credibilità nel mondo e che la povertà della Chiesa non poteva semplicemente essere un tema fra gli altri. Secondo Mennini fu proprio questa forte presenza del Collegio Belga nel Concilio che provocò il dibattito della Chiesa povera e dei poveri anche al di fuori delle stanze vaticane. Di fatto, l’autore cita lettere pastorali di molti vescovi e riviste cattoliche parlando ampiamente e approfonditamente del tema in questione. Nel frattempo Paul Gauthier vero e proprio animatore del gruppo di lavoro che si era costituito sul tema della povertà della Chiesa, nel 1963 lancia un nuovo libro nel quale si chiedeva come mai fosse così arduo parlare della Chiesa dei poveri. Gauthier era consapevole che il problema della chiesa dei poveri metteva in discussione il tradizionale impianto ecclesiologico. “Per un cristiano – sottolinea l’autore – Cristo è tanto presente nei poveri come lo è nell’Eucarestia e nella gerarchia. Ammettere ciò significava molto più che un orientamento pastorale, non era l’aggiornamento di una prassi, ma del contenuto stesso della fede” (p. 101).  

Diveniva così sempre più chiaro che il movimento innescatosi con le riunioni del Collegio Belga e, soprattutto, con l’azione di Paul Gauthier, superava l’ambito stesso del Concilio e influenzasse il dibattito pastorale di molte diocesi. Le riunioni al Collegio Belga avevano avviato la promozione di un vissuto concreto e visibile della povertà nella Chiesa e dell’evangelizzazione dei poveri. Lo stesso Gauthier avviò una riflessione sulla povertà in chiave ecumenica e il rapporto della Chiesa col comunismo a cui il gruppo di lavoro guardava con grande preoccupazione pastorale. Durante la seconda sessione del Concilio i membri del gruppo del Collegio Belga s’incontrarono per una verifica del lavoro svolto. Monsignor Himmer sostenne che, accanto ad aspetti positivi tra i quali il diffondersi anche tra i fedeli laici una sensibilità verso il tema della Chiesa povera e dei poveri, non mancavano però alcune perplessità. Himmer sosteneva che le stesse categorie sulle quali si stava da tempo lavorando non erano chiare. “Che cosa significava Chiesa dei poveri? In che modo andava intesa la presenza di Cristo nei poveri? Quale rapporto tra una Chiesa che vuole vivere poveramente, l’evangelizzazione dei poveri e le forme di aiuto paternalistico?” (p. 130). 

Il dibattito sulla Chiesa dei poveri diviene con il passare del tempo sempre più teso, anche perché non tutti riescono ad accompagnare l’irruenza e le continue provocazioni di Paul Gauthier. Alcuni esegeti e teologi quali De Lubac, Mollat e Martelet, dopo aver analizzato le bozza dei documenti prodotte dal gruppo per essere discusse nelle sessioni conciliari ritennero quei testi troppo ideologiche e non esenti da gravi errori. Mennini accompagna l’evolversi del dibattito Conciliare sul tema della Chiesa dei poveri con grande attenzione e con continui rimandi ai documenti non solo conciliari, ma soprattutto a testi che furono prodotti in quel periodo che aiutano nella comprensione dei contenuti elaboratori durante il Concilio sul tema in questione. L’autore riporta alcuni passaggi significativi dell’intenzione del gruppo belga di migliorare i contenuti dei testi criticati. Si afferma, così, che i poveri, intesi in senso biblico come tutti gli oppressi, portano il peso del peccato del mondo e sono associati al mistero della redenzione. Se Cristo infatti, si è identificato con la sua Chiesa e vive misteriosamente in essa, si è anche identificato con i poveri e vive misteriosamente in essi.

Nella terza ed ultima parte del libro Mennini affronta il tema del rapporto della Chiesa con la modernità. Siamo ad un passaggio di svolta del Concilio. La morte di papa Giovanni XXIII e l’elezione di Paolo Vi aveva creato non poche tensioni sia nel mondo ecclesiale che civile. La grande domanda che in molti si facevano era quella di capire se il nuovo Papa avesse continuato sullo stile di Papa Giovanni. Sin dalle prime mosse, come sostiene Mennini e, soprattutto, la prima enciclica di Paolo VI, l’Ecclesiam suam, fugarono ogni dubbio. L’enciclica, infatti, poneva come punto di partenza l’atteggiamento di quel dialogo che era stata la caratteristica dello stile di Papa Giovanni. Uno dei punti più scottanti in questa nuova tappa conciliare a partire dal tema che il libro tratta, ruota attorno secondo l’autore, al nuovo libro di Paul Gauthier: Le Concile et l’Eglise des Pauvres. Il Testo di Gauthier inviato a forma di manoscritto a Himmer e a diversi vescovi per raccogliere le prime opinioni, aveva incontrato a della di Mennini molte resistenze. Comincia sempre più a farsi strada il problema dello stile, del modo giusto da utilizzare da proporre le tesi più significative della Chiesa dei poveri elaborate dal gruppo. Mercier prevedeva che le acquisizioni sul piano teologico del gruppo del Collegio Belga venissero rielaborate da Congar e Mollat, al fine di stimolare ulteriori ricerche, e garantire così maggiori garanzie sull’impianto teorico da presentare in commissione conciliare. Varie strategie vengono studiate sul come presentare il problema della Chiesa dei poveri nel dibattito conciliare. Da un lato, c’è chi sosteneva che era necessario parlare prima di tutto direttamente con Paolo VI e, dall’altra chi non riteneva necessario un simile approccio. In questo contesto viene segnalata dall’autore l’azione dell’allora vescovo di Bologna Lercaro, coadiuvato da Giuseppe Dossetti. Mentre si procede nella riflessione ci si rende sempre più conto che: “non era sufficiente affermare la necessità dello spirito di povertà dei singoli, ma quello delle istituzioni e, inoltre, andavano condannate le moderne forme di usura, superare la carità assistenziale dell’elemosina per sviluppare strutture di cooperazione in favore dell’autonomia dei poveri” (p. 176). 
A questo punto il dibattito si allarga alla ricerca delle cause della povertà. Il Vescovo Zoungrana dell’Alto Volta prese la parola a nome di 70 vescovi africani sostenendo che il ritardo dello sviluppo, soprattutto in Africa era dovuto a diversi fattori. Primo fra tutti era necessario considerare la questione demografica, l’utilizzo del suolo, unito alla scarsa possibilità d’investimenti e la conseguente poca competitività commerciale dei paesi poveri. Mennini riporta a questo punto del suo lavoro, il frutto dell’analisi del gruppo italiano che si era riunito attorno a Lercaro e che aveva elaborato un testo intitolato: Appunti sul tema della povertà della Chiesa. Il documento era diviso in due parti: nella prima veniva esposto un plausibile itinerario per un’elaborazione dottrinale del tema in questione; la seconda presentava i suggerimenti pratici su cui il gruppo stava lavorando. Le tredici pagine degli Appunti trovarono sostegno del gruppo del Collegio Belga. Nonostante ciò, Mennini mostra come tutto questo lavoro non riuscì a portare i frutti sperati. Nel frattempo molte critiche stava ricevendo il manoscritto di Paul Gauthier, non tanto per il contenuto, quanto piuttosto per lo stile. Per come si era mosso, stava emergendo l’idea tra i membri del Concilio, che il testo fosse l’espressione di un gruppo chiuso e che stesse proponendo addirittura un tipo di divisione tra la Chiesa dei poveri e la Chiesa dei ricchi. Il dibattito in aula conciliare proseguì sul tema della questione operaia e sul comunismo. Dalla narrazione riportata da Mennini si coglie la grande importanza che ebbero gli interventi di Woytila il quale insisteva nel presentare e argomentare i pericoli del marxismo e, allo stesso tempo, presentare la Chiesa come unica alternativa ad esso. Nello stesso periodo. L’instancabile Paul Gauthier inviava in forma di circolare un testo che raccoglieva una serie di lettere scritte da operai che lasciava intendere forti accenti di critica nei confronti della Chiesa. Nel dibattito conciliare gli interventi si concentrarono sul tema dell’ateismo dei poveri e degli operai influenzati dal comunismo. Anche in questo caso, illuminanti furono le riflessioni proposte da Paul Gauthier: “L’ateismo dei poveri, diverso da quello dei ricchi, nascondeva una preghiera, resa silenziosa dalla propaganda che abusava dell’ignoranza delle masse, dalla miseria che provocava un sentimento di abbandono e dall’ingiustizia” (p.205). 


Secondo Gauthier, la condanna del comunismo da parte della Chiesa avrebbe allontanato ancor di più gli operai, e quindi i poveri dalla chiesa. Molte delle istanze proposte sia da Gauthier, che dal gruppo riunito al Collegio Belga non passarono o passarono in modo molto offuscato. Fu per questo motivo e con questa consapevolezza che un gruppo di circa sessanta vescovi conciliari si riunì il 16 novembre del 1965, a circa venti giorni di distanza dalla chiusura del Concilio, per celebrare una messa durante la quale siglarono un patto che passò alla storia come il patto delle catacombe. In questo testo, riportato in forma integrale dall’autore, i vescovi presenti all’evento dichiaravano la disponibilità a vivere in modo sobrio per quanto riguarda il cibo, la casa, i mezzi di trasporto “in modo conforme alla vita quotidiana della nostra gente” (p.221). Dichiaravano inoltre di non voler possedere nessuna cosa, affidando la gestione finanziaria ai laici. L’impegno inoltre si estendeva a coinvolgere in questo stile di sobrietà evangelica sia i confratelli che la società civile. Nell’ultimo paragrafo dell’ultimo capitolo Mennini prende in esame l’immediato dopo Concilio sul tema della Chiesa dei poveri e la figura di Paolo VI, il quale sembra continuare le riflessioni conciliari nell’Enciclica Populorum Progressio. Sviluppo integrale dell’uomo e sviluppo solidale dell’umanità erano i due grandi temi del testo. Molto positiva, a detta dell’autore, fu la recezione dell’Enciclica sia in Italia che all’estero e, in modo particolare in America Latina. Nel frattempo si acuì la tensione tra Israele e la Palestina che sfociò nell’attacco dell’aviazione israeliana del 5 giugno 1967. Durissime furono le ripercussioni della guerra sulla popolazione civile. Paul Gauthier e i sui amici presenti sul territorio palestinese si trovarono coinvolti in questo scenario di morte. Come sempre Gauthier prese l’occasione per una riflessione di ampio respiro spirituale. Per Gauthier Nazareth non era più la terra del Carpentier, ma del Crocifisso e dell’agnello sgozzato. “La solidarietà con i popoli oppressi – sostiene Mennini – l’impegno per il riscatto dei poveri, le manifestazioni a favore della pace divennero la grammatica con cui una generazione intera riuscì a rappresentare il desiderio e il bisogno di una mutazione genetica della società” (p.234). Paolo VI tornò a parlare della Chiesa dei poveri nell’udienza del 2 ottobre del 1968. La Chiesa dei poveri fu per Paolo VI la dimensione veritativa della condizione del cristiano nella modernità contemporanea, non solo nel senso teologico, ma anche sociologico. “Dal Concilio a Medellin la chiesa aveva scoperto la periferia in cui sacerdoti, religiosi e laici vivevano condizioni drammatiche che nel proprio apostolato riflettevano le contraddizioni sociali, politiche ed economiche di un mondo sempre più interconnesso, ma diviso” (p. 240. 

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