lunedì 5 ottobre 2015

IDEE PER UNA PASTORALE GIOVANILE DAL VOLTO MISSIONARIO




Paolo Cugini
Visitando le chiese e gli oratori si rimane perplessi nel costatare la mancanza della presenza giovanile nelle strutture ecclesiali. Si percepisce una sproporzione tra i numeri che i grandi eventi che la Chiesa organizza per i giovani riesce ad ottenere e i numeri della pastorale giovanile ordinaria, del cammino quotidiano. Perplessità accresciuta dalla consapevolezza dell’impegno profuso dalla Chiesa, non solo nei cammini formativi proposti ed elaborati, ma anche nelle strutture costruire e messe a disposizione per gli stessi giovani. Viene da chiedersi: che cos'è che non va? Che cos'è che non funziona? Perché, nonostante tutti gli sforzi, la Chiesa non riesce a raggiungere i giovani nel loro vissuto quotidiano?
Le domande diventano ancora più inquietanti se si pensa che la stragrande maggioranza degli adolescenti che non frequentano la Chiesa, hanno partecipato, nell'infanzia, al lungo cammino di catechesi per ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Forse è esattamente a questo livello il problema[1]. La Chiesa possiede un materiale spirituale ricchissimo, che proviene da secoli di tradizione, di elaborazione dottrinale e pastorale, solo che non riesce a metterlo in condizioni di portare i frutti sperati. Per chi ha un po’ di dimestichezza con gli adolescenti, conosce benissimo la resistenza che manifestano nell'affrontare le problematiche religiose, soprattutto se queste hanno a che fare con la Chiesa[2]. Sembra quasi che il lungo periodo di formazione catechistica vissuto nell'infanzia, invece di stimolare il desiderio di Dio, abbia prodotto il contrario, la nausea, il tedio e, di conseguenza, l’abbandono.

E’ ormai dal convegno di Palermo[3], che la Chiesa Italiana ha intuito la necessità di percorsi nuovi, di una pastorale giovanile non solo di attesa, rivolta ai giovani che frequentano gli ambienti della parrocchia, ma anche a tutti coloro – e sono la maggioranza – che in questi ambienti non ci mettono più piede. Incontrare i giovani nei loro ambienti di vita come le piazze, i bar, i pub, le case, le scuole e altro significa reinventare la pastorale giovanile[4]. Non si può, infatti, pensare di andare nelle piazze e incontrare quei giovani che sino a qualche anno prima frequentavano il catechismo, e riformulare la stessa proposta. E’ esattamente a questo livello che incontriamo la difficoltà della pastorale giovanile, la quale ha imparato ad affinare progetti sempre più elaborati ed attraenti per i giovani che frequentano gli ambienti ecclesiali, ma che non riesce ancora a pensare qualcosa di nuovo per la maggioranza dei giovani che si trovano sul territorio, che non s’identificano con i percorsi che la Chiesa propone.
Il problema allora è il seguente. È possibile dedicare tempo e forze per elaborare progetti formativi rivolto a quegli adolescenti, ai giovani che si trovano sul territorio parrocchiale, ma che per tanti motivi non sono più interessati a frequentare? Che tipo di progetti e che metodologia dovrebbe adottare? Che Chiesa è necessaria per proporsi  sul territorio in questo modo?


E’ all’interno di un tipo di Chiesa tutta protesa a pensare in grande, a vivere la propria dimensione ecclesiale non solo tra le mura amiche del perimetro delle proprie strutture, ma sul terreno spesso sconosciuto del territorio, che va pensato il nuovo progetto di pastorale giovanile. Su questo punto è bene chiarirsi.
 Quando la pastorale giovanile non funziona, non è solamente perché:  “i giovani di oggi sono difficili”, come si suole dire per scaricare altrove l’incapacità di mettersi in discussione. Spesso e volentieri, infatti, l’incapacità di una pastorale giovanile seria e aperta sul territorio, e non chiusa nelle mura asfittiche e care di un oratorio, dipende anche dall’incapacità di una comunità parrocchiale o diocesana di interrogarsi sul proprio cammino, di smantellare le proprie chiusure, per prendere coraggiosamente il largo.

Pensare la pastorale giovanile come progetto educativo e formativo aperto sul territorio, richiede un ulteriore presupposto, vale a dire la possibilità di pensare forme implicite di annuncio del Vangelo. Annunciare il Vangelo ai giovani che non frequentano i locali della parrocchia, significa sforzarsi di pensare e inventare percorsi educativi  e formativi che non abbiano un riferimento immediato al Vangelo. E’ il discorso della promozione umana, che la Chiesa italiana ha affrontato nel suo primo Convegno ecclesiale a Roma[5], le cui riflessioni potrebbero oggi essere trasferite sul piano della pastorale giovanile. Infatti, una pastorale dal volto missionario, richiede un’apertura mentale tale e, allo stesso tempo una fermezza spirituale, in grado di considerare qualsiasi intervento a servizio dell’uomo (La Chiesa serva dell’umanità), come cammini impliciti di annuncio evangelico.

 E’ possibile, allora, considerare evangelizzazione il sostare amichevolmente per conoscere e parlare con i giovani e gli adolescenti presenti in un pub, o in una piazza, o al tavolino di un bar? O, ancora, aiutare gli adolescenti ad operare scelte positive, vincendo la tentazione del negativo?  Fino a quando l’evangelizzazione ai giovani è identificata con gli incontri che gli educatori tengono negli spazi ecclesiali, diviene difficile impostare una pastorale giovanile aperta, dal volto missionario.
In questa prospettiva, vanno ripensati anche gli spazi utilizzati per realizzare la pastorale[6]. Se il desiderio è fare in modo che tutti i giovani incontrino Cristo, allora occorre apprendere a incontrare i giovani dove essi davvero vivono, senza pretendere di portarli nei propri ambienti. Ciò che importa è la relazione che s’instaura e non lo spazio in cui la relazione avviene. Se si accetta questo presupposto pastorale, allora diviene necessario ripensare al problema delle strutture, sulle quali vengono rivolte e scaricate numerose risorse materiali e umane.
In questo tipo d’impostazione un ulteriore presupposto che emerge chiaramente è la priorità del formatore, dell’educatore sulle strutture. Se, infatti, la pastorale giovanile dal volto missionario, considera tutto il territorio come spazio per l’azione pastorale, allora è sull’educatore che vanno rivolte le attenzioni della comunità.
Oltre a ciò, la pastorale giovanile dal volto missionario, aperta su tutto il territorio, aiuta all’elaborazione di un progetto in cui possono essere evitati alcuni pericoli, primo fra tutti l’esclusione dai processi formativi dei cosiddetti giovani difficili[7]. Concentrando, infatti, l’attenzione pastorale su di un perimetro specifico, si rischia, anche inconsapevolmente, di curare delle élite esclusive, che divengono poi, alla distanza, motivo di critica e di malessere per gli altri giovani presenti sul territorio. La metodologia missionaria della nuova impostazione della pastorale giovanile, dovrebbe agevolare l’inclusione e sfavorire tutte le forme di esclusione e discriminazione. Proporsi sul territorio, esige l’attenzione al dialogo e all’apertura verso tutti, attenzione particolarmente richiesta in questo momento storico, pieno di tensioni sociali e culturali.



[1] Su questo argomento cfr.: E. Biemmi, L’iniziazione cristiana in Italia tra cambiamento e tradizione, in:  La Rivista del Clero Italiano, 9/2005, pp. 610-623; Commissione episcopale CEI per la Dottrina Della Fede, l’Annuncio e la Catechesi, Questa è la nostra fede. Nota pastorale sul primo annuncio del Vangelo, 15 maggio 2005.
[2] Cfr.V. Andreoli , Lettera ad un adolescente, Rizzoli, Milano 2004;C. Betti (a cura di), Adolescenti e società complessa. Proposte d’intervento formativo e didattico, Ed. del Cerro, Tirrenia 2002. Cfr. anche le interessanti riflessioni di S. Pagani, Giovani d’oggi e disponibilità al Vangelo. Paradossi per una nuova possibilità educativa, in La Rivista del Clero Italiano 1/2005 pp. 6-23.
[3] CEI, Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa Italiana dopo il Convegno di Palermo, Paoline, Milano 1996.
[4] Cfr. CEI, con il dono della carità dentro la Storia, cit. nn 38-40; ID. Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000, n° 51.
[5] Cfr. AA.VV., Evangelizzazione e promozione umana, AVE, Roma 1976.
[6] Su questo argomento segnalo le significative riflessioni di M. Augé, I non luoghi. Introduzione all’antropologia della surmodernità, Eleutéria, Milano 1992.
[7] Cfr. Miguel Benasayag-Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005.

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