Paolo Cugini
Visitando le
chiese e gli oratori si rimane perplessi nel costatare la mancanza della
presenza giovanile nelle strutture ecclesiali. Si percepisce una sproporzione
tra i numeri che i grandi eventi che la Chiesa organizza per i giovani riesce
ad ottenere e i numeri della pastorale giovanile ordinaria, del cammino quotidiano.
Perplessità accresciuta dalla consapevolezza dell’impegno profuso dalla Chiesa,
non solo nei cammini formativi proposti ed elaborati, ma anche nelle strutture
costruire e messe a disposizione per gli stessi giovani. Viene da chiedersi:
che cos'è che non va? Che cos'è che non funziona? Perché, nonostante tutti gli
sforzi, la Chiesa non riesce a raggiungere i giovani nel loro vissuto
quotidiano?
Le domande
diventano ancora più inquietanti se si pensa che la stragrande maggioranza
degli adolescenti che non frequentano la Chiesa, hanno partecipato,
nell'infanzia, al lungo cammino di catechesi per ricevere i sacramenti
dell’iniziazione cristiana. Forse è esattamente a questo livello il problema[1]. La
Chiesa possiede un materiale spirituale ricchissimo, che proviene da secoli di
tradizione, di elaborazione dottrinale e pastorale, solo che non riesce a
metterlo in condizioni di portare i frutti sperati. Per chi ha un po’ di
dimestichezza con gli adolescenti, conosce benissimo la resistenza che
manifestano nell'affrontare le problematiche religiose, soprattutto se queste
hanno a che fare con la Chiesa[2].
Sembra quasi che il lungo periodo di formazione catechistica vissuto
nell'infanzia, invece di stimolare il desiderio di Dio, abbia prodotto il
contrario, la nausea, il tedio e, di conseguenza, l’abbandono.
E’ ormai dal
convegno di Palermo[3], che la Chiesa Italiana ha
intuito la necessità di percorsi nuovi, di una pastorale giovanile non solo di
attesa, rivolta ai giovani che frequentano gli ambienti della parrocchia, ma
anche a tutti coloro – e sono la maggioranza – che in questi ambienti non ci
mettono più piede. Incontrare i giovani nei loro ambienti di vita come le
piazze, i bar, i pub, le case, le scuole e altro significa reinventare la
pastorale giovanile[4]. Non si può, infatti,
pensare di andare nelle piazze e incontrare quei giovani che sino a qualche
anno prima frequentavano il catechismo, e riformulare la stessa proposta. E’
esattamente a questo livello che incontriamo la difficoltà della pastorale
giovanile, la quale ha imparato ad affinare progetti sempre più elaborati ed
attraenti per i giovani che frequentano gli ambienti ecclesiali, ma che non
riesce ancora a pensare qualcosa di nuovo per la maggioranza dei giovani che si
trovano sul territorio, che non s’identificano con i percorsi che la Chiesa
propone.
Il problema
allora è il seguente. È possibile dedicare tempo e forze per elaborare progetti
formativi rivolto a quegli adolescenti, ai giovani che si trovano sul
territorio parrocchiale, ma che per tanti motivi non sono più interessati a
frequentare? Che tipo di progetti e che metodologia dovrebbe adottare? Che
Chiesa è necessaria per proporsi sul
territorio in questo modo?
E’ all’interno
di un tipo di Chiesa tutta protesa a pensare in grande, a vivere la propria
dimensione ecclesiale non solo tra le mura amiche del perimetro delle proprie
strutture, ma sul terreno spesso sconosciuto del territorio, che va pensato il
nuovo progetto di pastorale giovanile. Su questo punto è bene chiarirsi.
Quando la pastorale giovanile non funziona,
non è solamente perché: “i giovani di
oggi sono difficili”, come si suole dire per scaricare altrove l’incapacità
di mettersi in discussione. Spesso e volentieri, infatti, l’incapacità di una
pastorale giovanile seria e aperta sul territorio, e non chiusa nelle mura
asfittiche e care di un oratorio, dipende anche dall’incapacità di una comunità
parrocchiale o diocesana di interrogarsi sul proprio cammino, di smantellare le
proprie chiusure, per prendere coraggiosamente il largo.
Pensare la
pastorale giovanile come progetto educativo e formativo aperto sul territorio,
richiede un ulteriore presupposto, vale a dire la possibilità di pensare forme
implicite di annuncio del Vangelo. Annunciare il Vangelo ai giovani che non
frequentano i locali della parrocchia, significa sforzarsi di pensare e
inventare percorsi educativi e formativi
che non abbiano un riferimento immediato al Vangelo. E’ il discorso della
promozione umana, che la Chiesa italiana ha affrontato nel suo primo Convegno
ecclesiale a Roma[5], le cui riflessioni
potrebbero oggi essere trasferite sul piano della pastorale giovanile. Infatti,
una pastorale dal volto missionario, richiede un’apertura mentale tale e, allo
stesso tempo una fermezza spirituale, in grado di considerare qualsiasi
intervento a servizio dell’uomo (La Chiesa serva dell’umanità), come cammini
impliciti di annuncio evangelico.
E’ possibile, allora, considerare
evangelizzazione il sostare amichevolmente per conoscere e parlare con i
giovani e gli adolescenti presenti in un pub, o in una piazza, o al tavolino di
un bar? O, ancora, aiutare gli adolescenti ad operare scelte positive, vincendo
la tentazione del negativo? Fino a
quando l’evangelizzazione ai giovani è identificata con gli incontri che gli
educatori tengono negli spazi ecclesiali, diviene difficile impostare una
pastorale giovanile aperta, dal volto missionario.
In questa
prospettiva, vanno ripensati anche gli spazi utilizzati per realizzare
la pastorale[6]. Se il desiderio è fare in
modo che tutti i giovani incontrino Cristo, allora occorre apprendere a
incontrare i giovani dove essi davvero vivono, senza pretendere di portarli nei
propri ambienti. Ciò che importa è la relazione che s’instaura e non lo spazio
in cui la relazione avviene. Se si accetta questo presupposto pastorale, allora
diviene necessario ripensare al problema delle strutture, sulle quali vengono
rivolte e scaricate numerose risorse materiali e umane.
In questo tipo
d’impostazione un ulteriore presupposto che emerge chiaramente è la priorità
del formatore, dell’educatore sulle strutture. Se, infatti, la pastorale
giovanile dal volto missionario, considera tutto il territorio come spazio per
l’azione pastorale, allora è sull’educatore che vanno rivolte le attenzioni
della comunità.
Oltre a ciò, la
pastorale giovanile dal volto missionario, aperta su tutto il territorio, aiuta
all’elaborazione di un progetto in cui possono essere evitati alcuni pericoli,
primo fra tutti l’esclusione dai processi formativi dei cosiddetti giovani
difficili[7]. Concentrando,
infatti, l’attenzione pastorale su di un perimetro specifico, si rischia, anche
inconsapevolmente, di curare delle élite esclusive, che divengono poi, alla
distanza, motivo di critica e di malessere per gli altri giovani presenti sul
territorio. La metodologia missionaria della nuova impostazione della pastorale
giovanile, dovrebbe agevolare l’inclusione e sfavorire tutte le forme di
esclusione e discriminazione. Proporsi sul territorio, esige l’attenzione al
dialogo e all’apertura verso tutti, attenzione particolarmente richiesta in
questo momento storico, pieno di tensioni sociali e culturali.
[1] Su
questo argomento cfr.: E. Biemmi, L’iniziazione cristiana in Italia tra
cambiamento e tradizione, in: La
Rivista del Clero Italiano, 9/2005, pp. 610-623; Commissione episcopale CEI per
la Dottrina Della Fede, l’Annuncio e la Catechesi, Questa è la nostra fede.
Nota pastorale sul primo annuncio del Vangelo, 15 maggio 2005.
[2]
Cfr.V. Andreoli , Lettera ad un adolescente, Rizzoli, Milano 2004;C.
Betti (a cura di), Adolescenti e società complessa. Proposte d’intervento
formativo e didattico, Ed. del Cerro, Tirrenia 2002. Cfr. anche le interessanti
riflessioni di S. Pagani, Giovani d’oggi e disponibilità al Vangelo.
Paradossi per una nuova possibilità educativa, in La Rivista del Clero
Italiano 1/2005 pp. 6-23.
[3] CEI, Con
il dono della carità dentro la storia. La Chiesa Italiana dopo il Convegno di
Palermo, Paoline, Milano 1996.
[4] Cfr.
CEI, con il dono della carità dentro la Storia, cit. nn 38-40; ID. Comunicare
il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato
italiano per il primo decennio del 2000, n° 51.
[5] Cfr.
AA.VV., Evangelizzazione e promozione umana, AVE, Roma 1976.
[6] Su
questo argomento segnalo le significative riflessioni di M. Augé, I non
luoghi. Introduzione all’antropologia della surmodernità, Eleutéria, Milano
1992.
[7] Cfr.
Miguel Benasayag-Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli,
Milano 2005.
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