sabato 24 ottobre 2015

TAPPE DI UN CAMMINO PER UNA PASTORALE GIOVANILE IN USCITA




Paolo Cugini


In che modo dare concretezza al desiderio di una pastorale giovanile più missionaria, frutto di un cammino di Chiesa che cerca di dialogare con il mondo, non accontentandosi più di conservare semplicemente l’esistente, di una Chiesa, per dirla alla Francesco, in uscita, una Chiesa tenda da campo in mezzo ai giovani?
In questa prospettiva si tratta di far ricorso a tutta la fantasia possibile, anche perché sono pochissime le esperienze in questo campo. Tenterò di delineare le possibili tappe di un cammino, con l’obiettivo di progettare una pastorale giovanile aperta ai giovani sul territorio, capace di pensarsi come proposta formativa per tutti i giovani ed aperta ad operare su tutti gli spazi possibili.

a. Cercarli e farsi compagni di viaggio. E’ fuori discussione il primo passo da compiere. Occorre mettersi in movimento, visitare i luoghi di aggregazione giovanile, sia quelli istituzionali come i bar, i pub, sia gli informali come le piazze, le case e altro. Già in questa primissima fase, ci si rende conto che è impossibile lavorare da soli, ma che diviene necessaria una equipe con la quale confrontarsi e progettare assieme. L’obiettivo di questa prima fase è capire come si muovono i giovani sul territorio, come si raggruppano, quali sono gli spazi preferiti, in che momenti s’incontrano in quel determinato luogo.
 E’ la fase più lunga e delicata, anche perché non è detto che si realizzi e questo per tanti motivi. Il primo è dovuto al fatto che gli educatori disponibili per la realizzazione di questo progetto, molto probabilmente sono membri della comunità parrocchiale e, di conseguenza, fanno parte di quella cerchia di persone che gli adolescenti non desiderano incontrare. Anni di catechismo forzato, anche con le più belle dinamiche e proposte, lasciano il segno. Chi lavora pastoralmente sul territorio, con l’obiettivo di realizzare una pastorale giovanile aperta a tutti, impara a proprie spese il risultato di una proposta di fede identificata con la scolarizzazione e non come scelta personale e libera.
Inizia, a questo primo livello d’incontro, la fase più dura e critica. In gioco, infatti, ci sono gli educatori che, per questa loro immersione nel vissuto giovanile in un terreno sconosciuto e non abituale, saranno chiamati a realizzare un vero e proprio cammino di conversione che è, allo stesso tempo, un cammino di destrutturazione del proprio ruolo e delle proprie competenze. Gli educatori saranno messi in discussione sulle motivazioni di fondo che li conducono ad incontrare i giovani presenti sul territorio e siccome non sono funzionari del comune o di qualsiasi altra agenzia educativa, dovranno fare ricorso a tutta la loro spiritualità per resistere a tale verifica. Soprattutto, però, gli educatori saranno verificati sulle loro intenzioni di fondo. Venendo dalla parrocchia, il sospetto è che il tutto del progetto sia finalizzato a riportare all’ovile le pecorelle smarrite e quindi fare in modo che i giovani incontrati, ritornino all’oratorio o alla Messa domenicale. Se gli educatori non riterranno la relazione amicale come ponte per comunicare proposte e contenuti, sarà molto difficile che il contatto con i giovani sul territorio avvenga. Allora, in questa seconda fase lunga e critica, si tratta di togliere tutti i sottintesi, per permettere il rapporto amicale con gli adolescenti e i giovani presenti sul territorio, non per condurli un giorno nei perimetri ecclesiali, ma per rimanere lì con loro. Se questo cammino porterà qualcuno di loro al desiderio di un incontro più profondo con il Signore, tanto meglio.
 A questo punto del discorso si potrebbero citare alcuni versetti del Vangelo che sostengono quanto andiamo dicendo. L’immagine più significativa ci sembra quella dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Gesù si avvicina delicatamente e si fa loro compagno di viaggio, ascoltando il loro vissuto e aiutandoli a leggerlo alla luce degli eventi pasquali, sino alla rivelazione della sua identità. La durata di questo cammino che i discepoli di Emmaus compiono con Gesù, letta spiritualmente e trasferita nella nostra realtà, può essere inteso come il tempo necessario per una persona ad accogliere il mistero di Dio. Alla Chiesa spetta farsi compagna di viaggio, ascoltare, consegnare una lettura, un’interpretazione evangelica degli eventi: il resto lo fa il Signore. La disperazione che si legge tra le righe di certe prese di posizioni dure e non troppo evangeliche, dinanzi alla pochezza dei numeri raggiunti in determinati eventi, la dice lunga sugli autentici obiettivi di certe progettazioni pastorali. Il riempimento degli ambienti ecclesiali sembra divenire, in molti casi, l’obiettivo fondante di tanti progetti pastorali rivolto ai giovani. Di conoscerli, di amarli, di volergli bene per quello che sono, di mettersi a disposizione per aiutarli ad assumere responsabilmente la propria vita, sembra non esserci ombra. E’ questa mancanza di umanità che è necessario estirpare dalla progettazione pastorale, se si vuole realizzare qualcosa di positivo con i giovani presenti su un territorio. Non si può, allora, cercare i giovani, avvicinarli per fargli una predica, per gettargli addosso una morale.
 E’ in questa prospettiva pastorale che possiamo leggere il mistero dell’Incarnazione del Verbo. Gesù per comunicarci il mistero della salvezza, della misericordia del Padre per noi, si è abbassato, si è fatto servo, ha compiuto un itinerario di avvicinamento che è stato anzitutto un itinerario di abbassamento, umiliazione. E’ di questa Chiesa umile e serva che i giovani hanno bisogno, per ascoltare un messaggio di salvezza, che diviene, in questa prospettiva, una proposta di vita e non una predica morale. Comunicare il Vangelo ai giovani in un mondo che cambia, un mondo che in ogni modo rimane benedetto dal Signore e non semplice oggetto di demonizzazione, richiede l’umiltà di percorrere lo stesso cammino che il Signore ha realizzato per avvicinarci e indicarci la strada.

  Quello che ci sembra importante sottolineare è che, se non avviene l’aggancio, se non avviene il cammino di avvicinamento amicale, la Chiesa perde la possibilità di realizzare l’annuncio del Vangelo ai giovani, perde il ponte necessario per dire in modo diverso la Parola d’amore di Dio, che è Cristo. In un’epoca definita postmoderna, in cui la Cristianità come progetto storico sembra essere definitivamente tramontato[1], il messaggio evangelico non può più essere pronunciato solamente dal pulpito. La scristianizzazione del mondo moderno e la relativa indifferenza su Dio, passa attraverso una progressiva sfiducia della Chiesa e della sua proposta, identificata con un modello storico ben preciso, modello ritenuto passato. Questa situazione culturale di rifiuto della Chiesa, anche se non possiamo parlare allo stesso tempo di un rifiuto di Dio[2], la troviamo in modo latente nei giovani. Diviene, allora, impossibile avvicinarli con una proposta esplicita. Non si avvicinano i giovani presenti sul territorio per arrivare a fare catechismo con loro, nei loro spazi. Se sottolineiamo queste cose è perché, purtroppo, constatiamo che la preoccupazione di tanti educatori è solamente sul piano della catechesi, preoccupati solo di insegnare qualcosa su Dio, di sentirsi in pari con “il programma”, come se tanti gesti, uno stile di vita, l’attenzione, l’amicizia, la dedicazione disinteressata e a tempo pieno, non fossero segni sufficienti della presenza di Dio nel mondo.

b. La proposta.  Se l’incontro tra la Chiesa, attraverso i suoi operatori pastorali, e i giovani presenti sul territorio avviene, allora è possibile passare ad una fase successiva, che è più propositiva. Quando la relazione amicale è intessuta di stima reciproca, diviene naturale avanzare una proposta, anche per spostare l’attenzione dal piano affettivo al piano dei contenuti e dei valori. La proposta che a nostro avviso deve essere fatta a questo punto del cammino, è di tipo formativo. Il problema allora è chiarire che cosa s’intende per formazione. Il lavoro formativo realizzato nella catechesi è innanzitutto trasmissione verbale e, a volte, esperienziale dei contenuti.   Con i giovani che la Chiesa incontra sul territorio, come già abbiamo visto, non si può ripetere lo stesso modello educativo. Che cosa fare, allora? Come realizzare questa proposta formativa?
 Anche in questo caso, per cogliere in profondità il senso del discorso, ci rifacciamo ad un’immagine biblica, quella della Moltiplicazione dei pani. In questo episodio Gesù, dinnanzi ad una folla affamata, che tutto il giorno lo aveva seguito per ascoltare la sua Parola, sente compassione e decide di dargli da mangiare. Gesù aveva tutta la possibilità di risolvere il problema con un intervento divino. Invece, con una serie di domande, coinvolge prima i suoi discepoli e poi si fa consegnare dalla folla gli alimenti che poi avrebbe benedetto e condiviso. E’ questo il punto che ci pare centrale e che offre degli spunti metodologici estremamente significativi, ai fini del nostro discorso. Infatti, tutto il cammino che la Chiesa compie di avvicinamento ai giovani sul territorio, deve essere indirizzato a farsi consegnare il materiale culturale, spirituale e umano sul quale lavorare. Da un lato, esiste una  formazione di tipo scolastico che non è altro che una trasmissione di contenuti da colui che sa e colui che non sa. Dall’altro, c’è un tipo di formazione che tenta di mettere le persone in grado di compiere delle scelte. E’ il metodo dialogico, apparso sulla scena culturale per la prima volta con Socrate, tramandato dai dialoghi del discepolo Platone. E’ anche il metodo di Gesù, che attraverso domande e narrazioni, tentava di mettere gli interlocutori nelle condizioni di compiere una scelta libera e personale. La cultura postmoderna, che incontriamo oggi diffusa nel mondo Occidentale, non accetta più di buon grado le verità calate dall’alto: ci vuole vedere dentro.[3]
Si tratta, allora, di realizzare quel cammino lento e delicato, per farsi consegnare i vissuti e i contenuti dalle persone incontrate, per aiutarli a vederli con occhi nuovi, a interpretare le situazioni, gli eventi in una prospettiva nuova che è la prospettiva del Vangelo. Il cammino che la Chiesa compie nella compagnia dei giovani, si deve realizzare nel rispetto delle libertà reciproca, nella convinzione che è solamente nella libertà che può fiorire un autentico cammino di fede.

Con i giovani presenti sul territorio si può lavorare con il materiale consegnato da loro stessi, negli spazi e nei tempi da loro indicati. E’ a questo livello della proposta, che entra in gioco la creatività dei formatori, che devono essere in grado di diversificare il più possibile le proposte. Se, infatti, si personalizza il cammino, nel senso che non si è più preoccupati di rovesciare lo stesso contenuto allo stesso modo, allora si sentirà l’esigenza di attivare percorsi differenziati, rispettosi il più possibile delle caratteristiche dei giovani incontrati e dei contenuti ricevuti nel momento della consegna.


c. Lavorare in rete. Quanto maggiore sarà il cammino di avvicinamento ai giovani, tanto maggiore sarà la necessità di entrare in rete con le agenzie educative presenti sul territorio. Spesso l’accusa che viene fatta alla Chiesa e a chi lavora negli ambienti ecclesiali, è di essere chiusa, poco aperta al dialogo e sospettosa. In molti casi si assistono a situazioni di rivalità, di antagonismi, che generano malesseri, incomprensioni. Lo sforzo che la Chiesa compie per raggiungere i giovani, deve condurla a guardare diversamente le strutture sociali ed educative presenti nel territorio, non più, quindi, come agenzie rivali ma come possibili collaboratori, nel rispetto delle reciproche competenze. Lavorare in rete significa farsi aiutare senza false ipocrisie, nella ricerca del bene delle persone che s’intendono aiutare e che necessitano di un intervento differenziato, al di là delle visioni settarie. Un lavoro di pastorale giovanile aperto sul territorio, aiuta a conoscere le risorse attivate, vincendo così la preoccupazione di dover risolvere nella solitudine tutti i problemi incontrati. Oltre a ciò, il lavoro in rete può aiutare la stessa Chiesa ad una riflessone più attenta e profonda sull’uso delle risorse a disposizione e sentire l’esigenza d’investire di più sulla formazione sulle persone.

d. La spiritualità dei formatori. Da ciò che sin ad ora è emerso, risulta chiaro come il ruolo degli educatori in questo progetto pastorale, sia fondamentale. Non è qualsiasi educatore che può compiere un lavoro pastorale del tipo che stiamo presentando. Occorrono alcune caratteristiche sulle quali presentiamo alcune indicazioni.
La prima di queste è la capacità di mantenere lo sguardo fisso sulla meta. Il rischio, in un progetto educativo non delimitato da perimetri istituzionali e focalizzato sulla capacità degli educatori di ascoltare le esigenze dei giovani e di creare itinerari formativi sempre nuovi, è quello da un lato di svuotarsi e, dall’altro, di spostare il centro di interesse del progetto. Per questo motivo, a nostro avviso, chi lavoro con i giovani sul territorio, devono essere persone con una vocazione ben definita, come  dei fidanzati, dei giovani sposi o dei religiosi. L’impatto con l’esterno destabilizza, perché richiede un continuo sforzo introspettivo, di messa in discussione di sé, di verifica della bontà delle proprie scelte di vita di fondo. E, allora, se un educatore non è ben centrato, non ha chiara la propria identità, non ha focalizzato il senso del proprio cammino, in poco tempo desiste, si perde. Si potrebbe, così, affidare il progetto ad un gruppo di fidanzati e di giovani sposi, che si rendessero disponibili nei fine settimana.
A questo punto del discorso, diviene necessario riflettere sugli itinerari formativi degli educatori disponibili alla realizzazione del progetto di pastorale giovanile aperto sul territorio.
Un primo livello di formazione dovrebbe riguardare l’acquisizione minima dei contenuti, che aiutino ad identificare meglio l’oggetto del proprio intervento, vale a dire elementi basici di pedagogia, psicologia dell’età evolutiva, sociologia. In questa prospettiva, otre alla lettura collettiva di alcuni testi, si potrebbe pensare ad alcuni interventi con esperti del settore. L’obiettivo di questa prima fase della formazione degli operatori, è metterli in condizioni d’individuare i problemi, per attivare le strutture specifiche e competenti presenti sul territorio.
Ad un secondo livello di complessità si colloca la formazione spirituale. Per coloro che si rendono disponibili ad un lavoro pastorale come questo, è bene iniziare in ginocchio dinnanzi al Signore. La preghiera personale e comunitaria è l’alimento spirituale necessario per affrontare il progetto che s’intende intraprendere. Solamente una persona abituata ad ascoltarsi e ad ascoltare il Signore, può mettersi in ascolto dei fratelli e delle sorelle senza sostituirsi a loro, ma rispettando i loro tempi e la loro libertà. Lo spessore della vita spirituale degli educatori, aiuta anche a precisare meglio l’obiettivo del progetto, che non è specificamente sociale, ma ecclesiale. E’ chiaro che un progetto pastorale di questo tipo, avrà senza dubbio una ricaduta positiva sul tessuto sociale del territorio sul quale si opera. In ogni modo, gli educatori che dalla parrocchia escono sul territorio per incontrare i giovani, non sono operatori di strada, anche se con loro possono condividere alcune mete e alcuni progetti. Diviene importante, ai fini della riuscita del progetto, chiarire con gli stessi operatori l’obiettivo del cammino che s’intende intraprendere, che è annunciare il Vangelo ai giovani sul territorio. Gli educatori che si rendono disponibili per la realizzazione di questo progetto, devono essere degli innamorati del Signore, della Sua Parola e della sua Chiesa. L’immagine biblica che meglio delle altre spiega quanto andiamo dicendo la troviamo in san Paolo.
 “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5).
Il Figlio di Dio non si è semplicemente incarnato, non ha compiuto solamente una discesa per avvicinarsi all’umanità immersa nel peccato, ma ha mantenuto vivo un obiettivo e cioè donare l’adozione figliale. Come dicevano i padri della Chiesa, Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse come Dio. La spiritualità dell’operatore del progetto di pastorale giovanile che stiamo discutendo, deve aiutarlo a mantenere sempre vivo il desiderio di stimolare negli adolescenti e nei giovani che incontra, l’immagine di Dio che è in loro, mostrargli non con le parole ma con l’esempio, la grazia di essere figli e figlie di Dio.
Un ultimo livello di formazione per gli operatori del progetto, è la formazione sul campo. Ci si forma formando. Se questa affermazione ha un valore pedagogico in senso generale, ne ha ancor di più in questa prospettiva educativa. La capacità di formarsi valutando il percorso svolto, i momentanei fallimenti e successi, è ciò che costituisce il materiale di questo livello della formazione. Oltre a ciò, va anche considerato sullo stesso piano, la costante attenzione alle suggestioni che vengono dagli stessi giovani incontrati. In fin dei conti, il materiale formativo è il frutto di ciò che esce dallo sforzo educativo messo in atto dalle persone che lavorano sul progetto stesso e da ciò che emerge dalle relazioni instaurate.


e. La ricaduta sulla comunità. Il progetto di pastorale giovanile rivolto ai giovani del territorio parrocchiale, non può essere slegato dal cammino della stessa comunità. Per questo, è un progetto che deve essere pensato e accompagnato dalla comunità e, in modo particolare, dal Consiglio Pastorale e, dove esiste, dal consiglio dell’Oratorio. Accompagnare un progetto simile, significa accettare un cammino di conversione che coinvolge tutta la comunità, attenta a cogliere le provocazioni e i segni dei tempi ricevuti dagli operatori che lavorano sul progetto. E’ la stessa dimensione ecclesiale che viene stimolata nelle sua capacità di ascolto, di dialogo e, soprattutto, di umanità. Dimensione ecclesiale che si riveste di missionarietà, di spinta al di fuori di sé stessa, in obbedienza al comando del Signore, che invita ad annunciare la Buona Novella a tutti. Questo percorso ecclesiale di annuncio fuori dai territori consueti, provocherà la vecchia impostazione di pastorale giovanile basata soprattutto sulle strutture, vale a dire l’Oratorio. Sarà, quindi, necessaria molta pazienza e delicatezza, per non creare rivalità e tensioni, ma mantenere continuamente in osmosi le due dimensioni di uscita e di entrata. Occorre creare il clima pastorale idoneo, affinché venga attivata la circolarità tra Oratorio e piazza, in uno scambio continuo di riflessioni e idee, che sappiano valorizzare i percorsi intrapresi. Attivando il progetto, bisognerà sempre stare attenti affinché non divenga un corpo slegato dal cammino d’insieme della comunità, un qualcosa di autonomo e separato dal resto. Se così avvenisse, sarebbe la fine dello stesso progetto, che non avrebbe più ragione di esistere. Se insistiamo tanto su questo aspetto, è perché percepiamo la forza d’impatto sulla comunità ecclesiale che, una simile proposta, può provocare. Una Chiesa che in virtù della propria vocazione missionaria, si apre sul territorio e si pone il problema del come annunciare a tutti il Vangelo e, in modo specifico, ai giovani, deve accettare di mettersi in discussione. E’, infatti, nella natura stessa del Vangelo il cammino di conversione, che è un cammino di cambiamento, di messa in discussione delle forme consuete di vita. L’uscita all’esterno della comunità ecclesiale provocherà per lo meno due prese di coscienza. La prima riguarda la necessità di migliorare la vita interna della stessa comunità. Qualsiasi attitudine di avvicinamento, anche il più libero e disinteressato, provocherà nei giovani incontrati, una certa curiosità per la comunità mandante. Questo mi sembra un aspetto altamente positivo e insito nello stesso progetto, che rappresenta, in ogni modo, una grande sfida alla stessa comunità. Questa, infatti, si vedrà costretta a rivedere il proprio stile fraterno, a verificare la bontà delle relazioni instaurate tra i membri, la coerenza delle scelte fatte alla luce del Vangelo.
La seconda presa di coscienza riguarda il contenuto dell’annuncio. La comunità che esce ad annunciare il Vangelo ai giovani presenti sul territorio, forse scopre che, di questo Vangelo, non è poi che ne sappia così tanto. E allora, spinta dal desiderio di annunciare a tutti il Vangelo, sentirà l’esigenza di attivare percorsi formativi non solo per gli operatori pastorali che hanno accettato la sfida di andare sul territorio, ma anche per tutti i componenti della comunità.




[1] Cfr. le suggestive riflessioni di G. Campanini, Siamo diventati una minoranza, in Presbyteri  36/ 2002, n. 6, pp.411-420. In area francese, cfr. R. Rémond, Le christianisme en acusation, Desclée de Brouwer, Paris 2001;
[2] Cfr. S. Pagani, Giovani d’oggi e disponibilità al Vangelo. Paradossi per una nuova possibilità educativa, in La Rivista del Clero Italiano, 1/2005, pp. 6-23. Cfr. Anche: A.CASTEGNARO, Fuori dal Recinto. Giovani, fede, Chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013.
[3] Su questo punto cfr. G Vattimo, Credere di credere. E’ possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Garzanti, Milano 1998.

2 commenti:

  1. Ciao, pensieri condivisibilissimi, progetto interessante, quanto impegnativo, ma se non ci riesci tu, non ci riesce nessuno. Leggendoti mi sono venuti in mente alcuni libri di Chiara Almirante, stesso modo di concepire l'evangelizzazione che passa prima di tutto dall' incontro con l' altro, andando verso l' altro, nei luoghi dell' altro. Notte carissimo. 😃😃 Roberta B.

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  2. Grazie don Paolo, condividiamo che la stima dell'altro sia il punto di partenza della relazione e che solo la nostra autenticità può renderci interessanti, soprattutto agli occhi dei giovani. ...perciò il problema non sono i giovani ma siamo noi.... vabbeh, siamo tutti in cammino! a presto, Giuliana e Vincenzo

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