Paolo Cugini
In che modo dare
concretezza al desiderio di una pastorale giovanile più missionaria, frutto di
un cammino di Chiesa che cerca di dialogare con il mondo, non accontentandosi
più di conservare semplicemente l’esistente, di una Chiesa, per dirla alla
Francesco, in uscita, una Chiesa tenda da campo in mezzo ai giovani?
In questa
prospettiva si tratta di far ricorso a tutta la fantasia possibile, anche
perché sono pochissime le esperienze in questo campo. Tenterò di delineare le
possibili tappe di un cammino, con l’obiettivo di progettare una pastorale
giovanile aperta ai giovani sul territorio, capace di pensarsi come proposta
formativa per tutti i giovani ed aperta ad operare su tutti gli spazi possibili.
a. Cercarli
e farsi compagni di viaggio. E’ fuori discussione il primo passo da
compiere. Occorre mettersi in movimento, visitare i luoghi di aggregazione
giovanile, sia quelli istituzionali come i bar, i pub, sia gli informali come
le piazze, le case e altro. Già in questa primissima fase, ci si rende conto
che è impossibile lavorare da soli, ma che diviene necessaria una equipe con la
quale confrontarsi e progettare assieme. L’obiettivo di questa prima fase è
capire come si muovono i giovani sul territorio, come si raggruppano, quali sono
gli spazi preferiti, in che momenti s’incontrano in quel determinato luogo.
E’ la fase più lunga e delicata, anche perché
non è detto che si realizzi e questo per tanti motivi. Il primo è dovuto al
fatto che gli educatori disponibili per la realizzazione di questo progetto,
molto probabilmente sono membri della comunità parrocchiale e, di conseguenza,
fanno parte di quella cerchia di persone che gli adolescenti non desiderano
incontrare. Anni di catechismo forzato, anche con le più belle dinamiche e proposte,
lasciano il segno. Chi lavora pastoralmente sul territorio, con l’obiettivo di
realizzare una pastorale giovanile aperta a tutti, impara a proprie spese il
risultato di una proposta di fede identificata con la scolarizzazione e non
come scelta personale e libera.
Inizia, a questo
primo livello d’incontro, la fase più dura e critica. In gioco, infatti, ci
sono gli educatori che, per questa loro immersione nel vissuto giovanile in un
terreno sconosciuto e non abituale, saranno chiamati a realizzare un vero e
proprio cammino di conversione che è, allo stesso tempo, un cammino di
destrutturazione del proprio ruolo e delle proprie competenze. Gli educatori
saranno messi in discussione sulle motivazioni di fondo che li conducono ad
incontrare i giovani presenti sul territorio e siccome non sono funzionari del
comune o di qualsiasi altra agenzia educativa, dovranno fare ricorso a tutta la
loro spiritualità per resistere a tale verifica. Soprattutto, però, gli
educatori saranno verificati sulle loro intenzioni di fondo. Venendo dalla
parrocchia, il sospetto è che il tutto del progetto sia finalizzato a riportare
all’ovile le pecorelle smarrite e quindi fare in modo che i giovani incontrati,
ritornino all’oratorio o alla Messa domenicale. Se gli educatori non riterranno
la relazione amicale come ponte per comunicare proposte e contenuti, sarà molto
difficile che il contatto con i giovani sul territorio avvenga. Allora, in
questa seconda fase lunga e critica, si tratta di togliere tutti i sottintesi,
per permettere il rapporto amicale con gli adolescenti e i giovani presenti sul
territorio, non per condurli un giorno nei perimetri ecclesiali, ma per
rimanere lì con loro. Se questo cammino porterà qualcuno di loro al desiderio
di un incontro più profondo con il Signore, tanto meglio.
A questo punto del discorso si potrebbero
citare alcuni versetti del Vangelo che sostengono quanto andiamo dicendo. L’immagine
più significativa ci sembra quella dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Gesù
si avvicina delicatamente e si fa loro compagno di viaggio, ascoltando il loro
vissuto e aiutandoli a leggerlo alla luce degli eventi pasquali, sino alla
rivelazione della sua identità. La durata di questo cammino che i discepoli di
Emmaus compiono con Gesù, letta spiritualmente e trasferita nella nostra
realtà, può essere inteso come il tempo necessario per una persona ad
accogliere il mistero di Dio. Alla Chiesa spetta farsi compagna di viaggio,
ascoltare, consegnare una lettura, un’interpretazione evangelica degli eventi:
il resto lo fa il Signore. La disperazione che si legge tra le righe di certe
prese di posizioni dure e non troppo evangeliche, dinanzi alla pochezza dei
numeri raggiunti in determinati eventi, la dice lunga sugli autentici obiettivi
di certe progettazioni pastorali. Il riempimento degli ambienti ecclesiali
sembra divenire, in molti casi, l’obiettivo fondante di tanti progetti
pastorali rivolto ai giovani. Di conoscerli, di amarli, di volergli bene per
quello che sono, di mettersi a disposizione per aiutarli ad assumere responsabilmente
la propria vita, sembra non esserci ombra. E’ questa mancanza di umanità che è
necessario estirpare dalla progettazione pastorale, se si vuole realizzare
qualcosa di positivo con i giovani presenti su un territorio. Non si può,
allora, cercare i giovani, avvicinarli per fargli una predica, per gettargli
addosso una morale.
E’ in questa prospettiva pastorale che
possiamo leggere il mistero dell’Incarnazione del Verbo. Gesù per comunicarci
il mistero della salvezza, della misericordia del Padre per noi, si è
abbassato, si è fatto servo, ha compiuto un itinerario di avvicinamento che è
stato anzitutto un itinerario di abbassamento, umiliazione. E’ di questa Chiesa
umile e serva che i giovani hanno bisogno, per ascoltare un messaggio di
salvezza, che diviene, in questa prospettiva, una proposta di vita e non una
predica morale. Comunicare il Vangelo ai giovani in un mondo che cambia, un
mondo che in ogni modo rimane benedetto dal Signore e non semplice oggetto di
demonizzazione, richiede l’umiltà di percorrere lo stesso cammino che il
Signore ha realizzato per avvicinarci e indicarci la strada.
Quello
che ci sembra importante sottolineare è che, se non avviene l’aggancio, se non
avviene il cammino di avvicinamento amicale, la Chiesa perde la possibilità di
realizzare l’annuncio del Vangelo ai giovani, perde il ponte necessario per
dire in modo diverso la Parola d’amore di Dio, che è Cristo. In un’epoca
definita postmoderna, in cui la Cristianità come progetto storico sembra essere
definitivamente tramontato[1], il
messaggio evangelico non può più essere pronunciato solamente dal pulpito. La scristianizzazione
del mondo moderno e la relativa indifferenza su Dio, passa attraverso una
progressiva sfiducia della Chiesa e della sua proposta, identificata con un
modello storico ben preciso, modello ritenuto passato. Questa situazione
culturale di rifiuto della Chiesa, anche se non possiamo parlare allo stesso
tempo di un rifiuto di Dio[2], la
troviamo in modo latente nei giovani. Diviene, allora, impossibile avvicinarli
con una proposta esplicita. Non si avvicinano i giovani presenti sul territorio
per arrivare a fare catechismo con loro, nei loro spazi. Se sottolineiamo
queste cose è perché, purtroppo, constatiamo che la preoccupazione di tanti
educatori è solamente sul piano della catechesi, preoccupati solo di insegnare
qualcosa su Dio, di sentirsi in pari con “il programma”, come se tanti gesti, uno
stile di vita, l’attenzione, l’amicizia, la dedicazione disinteressata e a
tempo pieno, non fossero segni sufficienti della presenza di Dio nel mondo.
b. La
proposta. Se l’incontro tra la
Chiesa, attraverso i suoi operatori pastorali, e i giovani presenti sul
territorio avviene, allora è possibile passare ad una fase successiva, che è
più propositiva. Quando la relazione amicale è intessuta di stima reciproca,
diviene naturale avanzare una proposta, anche per spostare l’attenzione dal
piano affettivo al piano dei contenuti e dei valori. La proposta che a nostro
avviso deve essere fatta a questo punto del cammino, è di tipo formativo. Il
problema allora è chiarire che cosa s’intende per formazione. Il lavoro
formativo realizzato nella catechesi è innanzitutto trasmissione verbale e, a
volte, esperienziale dei contenuti. Con i giovani che la Chiesa incontra sul territorio,
come già abbiamo visto, non si può ripetere lo stesso modello educativo. Che
cosa fare, allora? Come realizzare questa proposta formativa?
Anche in questo caso, per cogliere in
profondità il senso del discorso, ci rifacciamo ad un’immagine biblica, quella
della Moltiplicazione dei pani. In questo episodio Gesù, dinnanzi ad una folla
affamata, che tutto il giorno lo aveva seguito per ascoltare la sua Parola,
sente compassione e decide di dargli da mangiare. Gesù aveva tutta la
possibilità di risolvere il problema con un intervento divino. Invece, con una
serie di domande, coinvolge prima i suoi discepoli e poi si fa consegnare dalla
folla gli alimenti che poi avrebbe benedetto e condiviso. E’ questo il punto
che ci pare centrale e che offre degli spunti metodologici estremamente
significativi, ai fini del nostro discorso. Infatti, tutto il cammino che la
Chiesa compie di avvicinamento ai giovani sul territorio, deve essere
indirizzato a farsi consegnare il materiale culturale, spirituale e umano sul
quale lavorare. Da un lato, esiste una
formazione di tipo scolastico che non è altro che una trasmissione di
contenuti da colui che sa e colui che non sa. Dall’altro, c’è un tipo di
formazione che tenta di mettere le persone in grado di compiere delle scelte.
E’ il metodo dialogico, apparso sulla scena culturale per la prima volta con
Socrate, tramandato dai dialoghi del discepolo Platone. E’ anche il metodo di
Gesù, che attraverso domande e narrazioni, tentava di mettere gli interlocutori
nelle condizioni di compiere una scelta libera e personale. La cultura
postmoderna, che incontriamo oggi diffusa nel mondo Occidentale, non accetta
più di buon grado le verità calate dall’alto: ci vuole vedere dentro.[3]
Si tratta,
allora, di realizzare quel cammino lento e delicato, per farsi consegnare i
vissuti e i contenuti dalle persone incontrate, per aiutarli a vederli con
occhi nuovi, a interpretare le situazioni, gli eventi in una prospettiva nuova
che è la prospettiva del Vangelo. Il cammino che la Chiesa compie nella
compagnia dei giovani, si deve realizzare nel rispetto delle libertà reciproca,
nella convinzione che è solamente nella libertà che può fiorire un autentico
cammino di fede.
Con i giovani
presenti sul territorio si può lavorare con il materiale consegnato da loro
stessi, negli spazi e nei tempi da loro indicati. E’ a questo livello della
proposta, che entra in gioco la creatività dei formatori, che devono essere in
grado di diversificare il più possibile le proposte. Se, infatti, si
personalizza il cammino, nel senso che non si è più preoccupati di rovesciare
lo stesso contenuto allo stesso modo, allora si sentirà l’esigenza di attivare
percorsi differenziati, rispettosi il più possibile delle caratteristiche dei
giovani incontrati e dei contenuti ricevuti nel momento della consegna.
c.
Lavorare in rete. Quanto maggiore sarà il cammino di avvicinamento ai
giovani, tanto maggiore sarà la necessità di entrare in rete con le agenzie
educative presenti sul territorio. Spesso l’accusa che viene fatta alla Chiesa
e a chi lavora negli ambienti ecclesiali, è di essere chiusa, poco aperta al
dialogo e sospettosa. In molti casi si assistono a situazioni di rivalità, di
antagonismi, che generano malesseri, incomprensioni. Lo sforzo che la Chiesa
compie per raggiungere i giovani, deve condurla a guardare diversamente le
strutture sociali ed educative presenti nel territorio, non più, quindi, come
agenzie rivali ma come possibili collaboratori, nel rispetto delle reciproche
competenze. Lavorare in rete significa farsi aiutare senza false ipocrisie,
nella ricerca del bene delle persone che s’intendono aiutare e che necessitano
di un intervento differenziato, al di là delle visioni settarie. Un lavoro di
pastorale giovanile aperto sul territorio, aiuta a conoscere le risorse
attivate, vincendo così la preoccupazione di dover risolvere nella solitudine
tutti i problemi incontrati. Oltre a ciò, il lavoro in rete può aiutare la
stessa Chiesa ad una riflessone più attenta e profonda sull’uso delle risorse a
disposizione e sentire l’esigenza d’investire di più sulla formazione sulle persone.
d. La
spiritualità dei formatori. Da ciò che sin ad ora è emerso, risulta
chiaro come il ruolo degli educatori in questo progetto pastorale, sia
fondamentale. Non è qualsiasi educatore che può compiere un lavoro pastorale
del tipo che stiamo presentando. Occorrono alcune caratteristiche sulle quali
presentiamo alcune indicazioni.
La prima di
queste è la capacità di mantenere lo sguardo fisso sulla meta. Il rischio,
in un progetto educativo non delimitato da perimetri istituzionali e
focalizzato sulla capacità degli educatori di ascoltare le esigenze dei giovani
e di creare itinerari formativi sempre nuovi, è quello da un lato di svuotarsi
e, dall’altro, di spostare il centro di interesse del progetto. Per questo
motivo, a nostro avviso, chi lavoro con i giovani sul territorio, devono essere
persone con una vocazione ben definita, come dei fidanzati, dei giovani sposi o dei
religiosi. L’impatto con l’esterno destabilizza, perché richiede un continuo
sforzo introspettivo, di messa in discussione di sé, di verifica della bontà
delle proprie scelte di vita di fondo. E, allora, se un educatore non è ben
centrato, non ha chiara la propria identità, non ha focalizzato il senso del
proprio cammino, in poco tempo desiste, si perde. Si potrebbe, così, affidare
il progetto ad un gruppo di fidanzati e di giovani sposi, che si rendessero
disponibili nei fine settimana.
A questo punto
del discorso, diviene necessario riflettere sugli itinerari formativi degli
educatori disponibili alla realizzazione del progetto di pastorale giovanile
aperto sul territorio.
Un primo
livello di formazione dovrebbe riguardare l’acquisizione minima dei
contenuti, che aiutino ad identificare meglio l’oggetto del proprio intervento,
vale a dire elementi basici di pedagogia, psicologia dell’età evolutiva,
sociologia. In questa prospettiva, otre alla lettura collettiva di alcuni
testi, si potrebbe pensare ad alcuni interventi con esperti del settore.
L’obiettivo di questa prima fase della formazione degli operatori, è metterli
in condizioni d’individuare i problemi, per attivare le strutture specifiche e
competenti presenti sul territorio.
Ad un secondo
livello di complessità si colloca la formazione spirituale. Per coloro che
si rendono disponibili ad un lavoro pastorale come questo, è bene iniziare in
ginocchio dinnanzi al Signore. La preghiera personale e comunitaria è
l’alimento spirituale necessario per affrontare il progetto che s’intende
intraprendere. Solamente una persona abituata ad ascoltarsi e ad ascoltare il
Signore, può mettersi in ascolto dei fratelli e delle sorelle senza sostituirsi
a loro, ma rispettando i loro tempi e la loro libertà. Lo spessore della vita
spirituale degli educatori, aiuta anche a precisare meglio l’obiettivo del
progetto, che non è specificamente sociale, ma ecclesiale. E’ chiaro che un
progetto pastorale di questo tipo, avrà senza dubbio una ricaduta positiva sul
tessuto sociale del territorio sul quale si opera. In ogni modo, gli educatori
che dalla parrocchia escono sul territorio per incontrare i giovani, non sono
operatori di strada, anche se con loro possono condividere alcune mete e alcuni
progetti. Diviene importante, ai fini della riuscita del progetto, chiarire con
gli stessi operatori l’obiettivo del cammino che s’intende intraprendere, che è
annunciare il Vangelo ai giovani sul territorio. Gli educatori che si rendono
disponibili per la realizzazione di questo progetto, devono essere degli
innamorati del Signore, della Sua Parola e della sua Chiesa. L’immagine biblica
che meglio delle altre spiega quanto andiamo dicendo la troviamo in san Paolo.
“Quando venne la pienezza del tempo, Dio
mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro
che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,
4-5).
Il Figlio di Dio
non si è semplicemente incarnato, non ha compiuto solamente una discesa per
avvicinarsi all’umanità immersa nel peccato, ma ha mantenuto vivo un obiettivo
e cioè donare l’adozione figliale. Come dicevano i padri della Chiesa, Dio si è
fatto uomo affinché l’uomo diventasse come Dio. La spiritualità dell’operatore
del progetto di pastorale giovanile che stiamo discutendo, deve aiutarlo a
mantenere sempre vivo il desiderio di stimolare negli adolescenti e nei giovani
che incontra, l’immagine di Dio che è in loro, mostrargli non con le parole ma
con l’esempio, la grazia di essere figli e figlie di Dio.
Un ultimo
livello di formazione per gli operatori del progetto, è la formazione sul campo.
Ci si forma formando. Se questa affermazione ha un valore pedagogico in senso
generale, ne ha ancor di più in questa prospettiva educativa. La capacità di
formarsi valutando il percorso svolto, i momentanei fallimenti e successi, è
ciò che costituisce il materiale di questo livello della formazione. Oltre a
ciò, va anche considerato sullo stesso piano, la costante attenzione alle
suggestioni che vengono dagli stessi giovani incontrati. In fin dei conti, il
materiale formativo è il frutto di ciò che esce dallo sforzo educativo messo in
atto dalle persone che lavorano sul progetto stesso e da ciò che emerge dalle
relazioni instaurate.
e. La
ricaduta sulla comunità. Il progetto di pastorale giovanile rivolto ai
giovani del territorio parrocchiale, non può essere slegato dal cammino della
stessa comunità. Per questo, è un progetto che deve essere pensato e
accompagnato dalla comunità e, in modo particolare, dal Consiglio Pastorale e,
dove esiste, dal consiglio dell’Oratorio. Accompagnare un progetto simile,
significa accettare un cammino di conversione che coinvolge tutta la comunità,
attenta a cogliere le provocazioni e i segni dei tempi ricevuti dagli operatori
che lavorano sul progetto. E’ la stessa dimensione ecclesiale che viene
stimolata nelle sua capacità di ascolto, di dialogo e, soprattutto, di umanità.
Dimensione ecclesiale che si riveste di missionarietà, di spinta al di fuori di
sé stessa, in obbedienza al comando del Signore, che invita ad annunciare la
Buona Novella a tutti. Questo percorso ecclesiale di annuncio fuori dai
territori consueti, provocherà la vecchia impostazione di pastorale giovanile
basata soprattutto sulle strutture, vale a dire l’Oratorio. Sarà, quindi,
necessaria molta pazienza e delicatezza, per non creare rivalità e tensioni, ma
mantenere continuamente in osmosi le due dimensioni di uscita e di entrata.
Occorre creare il clima pastorale idoneo, affinché venga attivata la
circolarità tra Oratorio e piazza, in uno scambio continuo di riflessioni e
idee, che sappiano valorizzare i percorsi intrapresi. Attivando il progetto,
bisognerà sempre stare attenti affinché non divenga un corpo slegato dal
cammino d’insieme della comunità, un qualcosa di autonomo e separato dal resto.
Se così avvenisse, sarebbe la fine dello stesso progetto, che non avrebbe più
ragione di esistere. Se insistiamo tanto su questo aspetto, è perché percepiamo
la forza d’impatto sulla comunità ecclesiale che, una simile proposta, può
provocare. Una Chiesa che in virtù della propria vocazione missionaria, si apre
sul territorio e si pone il problema del come annunciare a tutti il Vangelo e,
in modo specifico, ai giovani, deve accettare di mettersi in discussione. E’,
infatti, nella natura stessa del Vangelo il cammino di conversione, che è un
cammino di cambiamento, di messa in discussione delle forme consuete di vita.
L’uscita all’esterno della comunità ecclesiale provocherà per lo meno due prese
di coscienza. La prima riguarda la necessità di migliorare la vita interna
della stessa comunità. Qualsiasi attitudine di avvicinamento, anche il più
libero e disinteressato, provocherà nei giovani incontrati, una certa curiosità
per la comunità mandante. Questo mi sembra un aspetto altamente positivo e
insito nello stesso progetto, che rappresenta, in ogni modo, una grande sfida
alla stessa comunità. Questa, infatti, si vedrà costretta a rivedere il proprio
stile fraterno, a verificare la bontà delle relazioni instaurate tra i membri,
la coerenza delle scelte fatte alla luce del Vangelo.
La seconda presa
di coscienza riguarda il contenuto dell’annuncio. La comunità che esce ad
annunciare il Vangelo ai giovani presenti sul territorio, forse scopre che, di
questo Vangelo, non è poi che ne sappia così tanto. E allora, spinta dal
desiderio di annunciare a tutti il Vangelo, sentirà l’esigenza di attivare
percorsi formativi non solo per gli operatori pastorali che hanno accettato la
sfida di andare sul territorio, ma anche per tutti i componenti della comunità.
[1] Cfr.
le suggestive riflessioni di G. Campanini, Siamo diventati una minoranza,
in Presbyteri 36/ 2002, n. 6,
pp.411-420. In area francese, cfr.
R. Rémond, Le christianisme en acusation, Desclée de Brouwer, Paris
2001;
[2] Cfr.
S. Pagani, Giovani d’oggi e disponibilità al Vangelo. Paradossi per una
nuova possibilità educativa, in La Rivista del Clero Italiano, 1/2005, pp.
6-23. Cfr. Anche: A.CASTEGNARO, Fuori dal
Recinto. Giovani, fede, Chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013.
[3] Su questo punto cfr. G Vattimo, Credere
di credere. E’ possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Garzanti, Milano 1998.
Ciao, pensieri condivisibilissimi, progetto interessante, quanto impegnativo, ma se non ci riesci tu, non ci riesce nessuno. Leggendoti mi sono venuti in mente alcuni libri di Chiara Almirante, stesso modo di concepire l'evangelizzazione che passa prima di tutto dall' incontro con l' altro, andando verso l' altro, nei luoghi dell' altro. Notte carissimo. 😃😃 Roberta B.
RispondiEliminaGrazie don Paolo, condividiamo che la stima dell'altro sia il punto di partenza della relazione e che solo la nostra autenticità può renderci interessanti, soprattutto agli occhi dei giovani. ...perciò il problema non sono i giovani ma siamo noi.... vabbeh, siamo tutti in cammino! a presto, Giuliana e Vincenzo
RispondiElimina