Paolo Cugini
Non è difficile scorgere tra
le righe dei documenti della Chiesa, nonché in vari studi o articoli di riveste
specializzate, grande preoccupazione sul futuro della Chiesa. Preoccupazione
che, del resto, è più che giustificata visto e considerata la scristianizzazione
progressiva che stiamo assistendo in questo modo sempre più post-moderno. La
frammentazione dei saperi, infatti, assieme al relativismo in campo morale e al
particolarismo che stanno alla base di molte rivendicazioni politiche in
diverse parti del mondo contraddicendo, in apparenza, la tendenza globalizzante
non solo dell'economia che é in atto; sono fenomeni che fanno riflettere. E
allora come portare il Vangelo in questo secolo che, come scrive giustamente
Matteo Armando no è più solo in cambiamento, ma è già cambiato? In altre parole
emerge con forza il problema dell’inculturazione del Vangelo che viene a porsi
non solamente in modi non occidentali, di culture cioè, e religioni, non
cristiane, ma nello stesso mondo occidentale. Ciò non per il semplice fatto
della presenza di persone provenienti da altri paesi, mondi, ma perché l’uomo
occidentale stesso, per una serie di trasformazioni avvenute, ha perso sempre
di più la propria identità cristiana. C’è, allora una cultura diversa che si è
venuta a formare in questi documenti, una cultura secolarizzata, non
necessariamente atea.
Se c’è chi sostiene che non poteva che andare così,
in quanto la secolarizzazione del mondo occidentale è il punto d’arrivo del
cristianesimo stesso, per chi ha fatto del Vangelo di Gesù Cristo non un
semplice “dato” culturale, ma l’annuncio della salvezza, non può che rimanere preoccupato. Si creano, allora, degli strumenti, delle
chiavi di lettura che aiutino ad interpretare il fenomeno, per individuare
cammini di inculturazione percorribili. La tentazione però, che spesso si
intravede qua e là, in uno studio specifico o in un dibattito tra specialisti
di pastorale, è di correre dietro al post-moderno, per timore di essere
considerati dei poveri cristiani moderni, mettendo involontariamente da parte
il punto di partenza necessario per qualsiasi inculturazione: il Vangelo. Se è
vero che l’ermeneutica ha compiuto passi da gigante, soprattutto in questi
ultimi trent'anni, è altrettanto vero che il metodo donato da Dio per annunciare
la Buona Novella della Salvezza, rimane tutt'oggi insuperato.
Vorrei iniziare queste
semplici riflessioni bibliche con una domanda: come ha fatto Dio a inculturare la Parola nella storia?
In primo luogo l’incontro tra Dio e l’uomo è
avvenuto nella Parola stessa. Lo ricorda l’autore della lettera agli Ebrei
quando scrive: “Dio che nel tempo antico molte volte e in diversi modi aveva
parlato ai Padri nei profeti, in questa fine dei tempi ha parlato a noi nel
Figlio”. Una parola che è discesa, che dall'alto è venuta verso il basso.
Questo cammino di discesa che la Parola ha compiuto, è passato per varie tappe
a giungere a Gesù, il verbo incarnato.
“Ho visto l’oppressione del
mio popolo…e sono sceso a liberarlo dagli Egiziani”. La storia della salvezza
operata da Dio in favore del suo popolo, può essere narrata come la storia di
una progressiva discesa. E’ così la risposta a quella domanda che il saggio
Agur fa nel libro dei poveri. “Chi è salito
al cielo e poi è disceso?” La troviamo in Gesù, Parola definitiva del Padre
che, come ci ricordava l’Evangelista Giovanni "è venuto abitare in mezzo a
noi”. Da questo momento in poi non si tratta più solamente di una Parola
rilevata, ma il Verbo incarnato, di Dio che è diocesi assumendo la stessa carne
degli uomini e, Lui che è eterno, accettando i limiti della storia umana. Il
concilio ci ricorda che tutto ciò è avvenuto perché:
“piacque a Dio nella sua bontà e sapienza, rilevarsi a se stesso per far
conoscere il mistero della sua volontà mediante il quale gli uomini, per mezzo
di Cristo, Verbo incarnato, hanno accesso nello Spirito Santo al Padre e
diventano partecipi della natura divina” (Dei Verbum).
Nonostante questa
delucidazione del magistero ecclesiastico, per l’uomo in cerca della Verità,
rimane comunque aperta una domanda: era davvero necessaria questa discesa che
presenta l’aspetto di un duplice umiliazione? Di fatto, non solamente Dio si
umilia scendendo dal cielo mescolandosi con la creatura sfidando tutte le leggi
della metafisica classica; ma è anche l’uomo a uscirne umiliato, in quanto la
discesa di Dio pone in evidenza l’incapacità della natura umana di rispondere
positivamente al piano di Dio
Leggendo e rileggendo la
storia del popolo di Israele, storia fatta per lo più di alleanze disattese, di
ribellioni e peccati, viene da rispondere immediatamente che non c’era altra
alternativa. Non bastano, infatti, le grida minacciose dei profeti per
rimettere sul giusto cammino un popolo preso dall'idolatria e nella dimenticanza di Dio dei padri.
Lo aveva, del resto, già
intuito il profeta Geremia quando, in uno dei momenti storici più tristi del
popolo d’Israele, vale a dire la distruzione di Gerusalemme operata da
Nabucodonosor nel 587 a .C.
e la successiva deportazione del popolo a Babilonia, profetizzava un futuro in
cui Dio avrebbe scritto le Sue parole di amore non più in tavole di pietra, ma
nel cuore stesso dell’uomo. La debolezza della struttura antropologica umana
resa fragile a causa del peccato, della disobbedienza originale, non ha
permesso all'uomo di obbedire alla legge – Torah- ricevuta da Mosè scritta
sulle tavole di pietra.
Geremia, e dopo di lui Ezechiele, hanno colto
il disastro storico avvenuto nelle deportazione di Babilonia, un problema ben
più profondo nel cuore stesso dell’umanità, che necessitava dunque di un
intervento diretto di YHWH. E’ in questo contesto che è nata la Teologia del cuore, spingendo il
rapporto dell’uomo con Dio sul piano interiore. Discendendo del cielo, Dio è
entrato nel cuore dell’umanità per scrivere dentro di essa la Sua Parola.
Questo suo cammino di discesa, che secondo la letteratura profetica è
innanzitutto un cammino di interiorizzazione, è avvenuto con Gesù Cristo. È san
Paolo che lo rivela quando, nella lettera ai Romani, mentre al capitolo 5
riflette sulle conseguenze della giustificazione scrive: “La speranza non delude, poiché l’amore di Dio è stato riversato nel
nostro cuore per il dono dello Spirito Santo” (Rom 5,5).
E’ una discesa allora che,
se in apparenza sembra umiliare l’uomo, in realtà tenta con successo il
recupero, per metterlo in grado di vivere ciò che per vocazione è: immagine e
somiglianza di Dio.
La discesa del Verbo nel
cuore dell’uomo per riscattare ciò che sembrava per sempre perduto, è avvenuto
sul piano dell’identità e della differenza.
Sul piano dell’identità
innanzi tutto. Infatti, che “Il Verbo si
è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi” ha voluto dire per l’umanità il desiderio di
Dio di salvare l’uomo non con un atto esterno, ma creando un rapporto di
strettissima vicinanza. In altre parole Dio, in Gesù Cristo, si è spinto vicino
all’uomo sin dove poteva. Sono tante che le espressioni che nel Nuovo
Testamento descrivano questo cammino di Dio verso l’uomo. Innanzi tutto san
Paolo nella lettera ai Filippesi ricorda che Gesù Cristo è “diventato simile agli uomini”. Per
salvare l’uomo dal peccato il Verbo ha assunto la carne del peccato stesso
facendosi simile in tutte le cose “ai
fratelli” eccetto chiaramente il peccato. Per rendere autentica questa
partecipazione alla somiglianza della carne e del sangue dell’umanità da
salvare, il Verbo ha dovuto attendere. In primo luogo ha atteso la pienezza del
tempo, la fine dei tempi.
C’è stata una lunga, secolare
preparazione prima che si compisse l’evento dell’incarnazione. Un evento
preparato e annunciato nei secoli. Si pensi ad esempio alle profezie che
incontriamo al capitolo 24 del libro dei numeri in cui Balaam figlio di Beor, a
dispetto delle maledizioni che Balac re di Moab chiedeva sul popolo di Israele
accampato ai piedi del monte Baal, disse: "Io lo vedo, ma non ora, io lo
contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe…".
Anche la
profezia di Natan nel secondo libro di Samuele in cui Dio promette per bocca
del profeta al re Davide una alleanza eterna con la sua casa. Profezie
millenarie che fanno riflettere sui tempi calmi del Signore, così diversi dai
tempi frettolosi degli uomini e delle donne. C’è poi una seconda attesa che
avviene nella vita stessa di Gesù. San Paolo la descrive così: “quando giunse la pienezza del tempo, Dio
invitò suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge”.
Il Verbo si è sottomesso
alla legge della natura umana e degli uomini. La partecipazione alla
somiglianza della care e del sangue dell’uomo non è stato qualcosa di fittizio,
esterno, formale: è stata una sottomissione autentica, un cammino di
apprendimento dentro le mura della famiglia di Nazareth e nella scuola dei
saggi di Israele. Infine, c’è l’attesa di Gesù nel deserto prima di iniziare il
ministero. Si rimane a lungo con il fiato sospeso prima di ascoltare una parola
di Gesù e di vederlo all’opera. E’ una lentezza non solo imbarazzante, ma nel
tempo stesso impressionante che richiede di essere ascoltata e meditata con
attenzione. In effetti, è una lentezza che ha tutti i tratti della delicatezza
di Dio. Se è vero, infatti, che Dio interviene nella storia per salvare l’uomo
dal peccato e dalla morte eterna, sembra che intenda farlo col modo più
delicato possibile, senza ferire troppo una umanità già malata. L’incarnazione
del Verbo operata da Do nella storia vede, quindi, questo primo aspetto
fondamentale: il Verbo è disceso lentamente e delicatamente. E’ stato un
incontro talmente lento e delicato che in pochissimi se ne sono accorti: dice
infatti Giovanni che “il mondo non lo
riconobbe”. Lo stesso vale per il cammino di discesa. Difatti la
somiglianza di Gesù con l’umanità incontrarsi era talmente grande che non
riusciva a percepire la differenza divina. E la gente si chiedeva: “non è questo il figlio di Giuseppe?”.
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