lunedì 19 ottobre 2015

INCARNAZIONE COME CAMMINO D'INCULTURAZIONE




Paolo Cugini

Non è difficile scorgere tra le righe dei documenti della Chiesa, nonché in vari studi o articoli di riveste specializzate, grande preoccupazione sul futuro della Chiesa. Preoccupazione che, del resto, è più che giustificata visto e considerata la scristianizzazione progressiva che stiamo assistendo in questo modo sempre più post-moderno. La frammentazione dei saperi, infatti, assieme al relativismo in campo morale e al particolarismo che stanno alla base di molte rivendicazioni politiche in diverse parti del mondo contraddicendo, in apparenza, la tendenza globalizzante non solo dell'economia che é in atto; sono fenomeni che fanno riflettere. E allora come portare il Vangelo in questo secolo che, come scrive giustamente Matteo Armando no è più solo in cambiamento, ma è già cambiato? In altre parole emerge con forza il problema dell’inculturazione del Vangelo che viene a porsi non solamente in modi non occidentali, di culture cioè, e religioni, non cristiane, ma nello stesso mondo occidentale. Ciò non per il semplice fatto della presenza di persone provenienti da altri paesi, mondi, ma perché l’uomo occidentale stesso, per una serie di trasformazioni avvenute, ha perso sempre di più la propria identità cristiana. C’è, allora una cultura diversa che si è venuta a formare in questi documenti, una cultura secolarizzata, non necessariamente atea.
 Se c’è chi sostiene che non poteva che andare così, in quanto la secolarizzazione del mondo occidentale è il punto d’arrivo del cristianesimo stesso, per chi ha fatto del Vangelo di Gesù Cristo non un semplice “dato” culturale, ma l’annuncio della salvezza, non può che rimanere preoccupato.  Si creano, allora, degli strumenti, delle chiavi di lettura che aiutino ad interpretare il fenomeno, per individuare cammini di inculturazione percorribili. La tentazione però, che spesso si intravede qua e là, in uno studio specifico o in un dibattito tra specialisti di pastorale, è di correre dietro al post-moderno, per timore di essere considerati dei poveri cristiani moderni, mettendo involontariamente da parte il punto di partenza necessario per qualsiasi inculturazione: il Vangelo. Se è vero che l’ermeneutica ha compiuto passi da gigante, soprattutto in questi ultimi trent'anni, è altrettanto vero che il metodo donato da Dio per annunciare la Buona Novella della Salvezza, rimane tutt'oggi insuperato.

Vorrei iniziare queste semplici riflessioni bibliche con una domanda: come ha fatto Dio a inculturare la Parola nella storia? 
In primo luogo l’incontro tra Dio e l’uomo è avvenuto nella Parola stessa. Lo ricorda l’autore della lettera agli Ebrei quando scrive: “Dio che nel tempo antico molte volte e in diversi modi aveva parlato ai Padri nei profeti, in questa fine dei tempi ha parlato a noi nel Figlio”. Una parola che è discesa, che dall'alto è venuta verso il basso. Questo cammino di discesa che la Parola ha compiuto, è passato per varie tappe a giungere a Gesù, il verbo incarnato.

“Ho visto l’oppressione del mio popolo…e sono sceso a liberarlo dagli Egiziani”. La storia della salvezza operata da Dio in favore del suo popolo, può essere narrata come la storia di una progressiva discesa. E’ così la risposta a quella domanda che il saggio Agur fa nel libro dei poveri.  “Chi è salito al cielo e poi è disceso?” La troviamo in Gesù, Parola definitiva del Padre che, come ci ricordava l’Evangelista Giovanni "è venuto abitare in mezzo a noi”. Da questo momento in poi non si tratta più solamente di una Parola rilevata, ma il Verbo incarnato, di Dio che è diocesi assumendo la stessa carne degli uomini e, Lui che è eterno, accettando i limiti della storia umana. Il concilio ci ricorda che tutto ciò è avvenuto perché:

piacque a Dio nella sua bontà e sapienza, rilevarsi a se stesso per far conoscere il mistero della sua volontà mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo incarnato, hanno accesso nello Spirito Santo al Padre e diventano partecipi della natura divina” (Dei Verbum).

Nonostante questa delucidazione del magistero ecclesiastico, per l’uomo in cerca della Verità, rimane comunque aperta una domanda: era davvero necessaria questa discesa che presenta l’aspetto di un duplice umiliazione? Di fatto, non solamente Dio si umilia scendendo dal cielo mescolandosi con la creatura sfidando tutte le leggi della metafisica classica; ma è anche l’uomo a uscirne umiliato, in quanto la discesa di Dio pone in evidenza l’incapacità della natura umana di rispondere positivamente al piano di Dio
Leggendo e rileggendo la storia del popolo di Israele, storia fatta per lo più di alleanze disattese, di ribellioni e peccati, viene da rispondere immediatamente che non c’era altra alternativa. Non bastano, infatti, le grida minacciose dei profeti per rimettere sul giusto cammino un popolo preso dall'idolatria e nella dimenticanza di Dio dei padri.
Lo aveva, del resto, già intuito il profeta Geremia quando, in uno dei momenti storici più tristi del popolo d’Israele, vale a dire la distruzione di Gerusalemme operata da Nabucodonosor nel 587 a.C. e la successiva deportazione del popolo a Babilonia, profetizzava un futuro in cui Dio avrebbe scritto le Sue parole di amore non più in tavole di pietra, ma nel cuore stesso dell’uomo. La debolezza della struttura antropologica umana resa fragile a causa del peccato, della disobbedienza originale, non ha permesso all'uomo di obbedire alla legge – Torah- ricevuta da Mosè scritta sulle tavole di pietra.

 Geremia, e dopo di lui Ezechiele, hanno colto il disastro storico avvenuto nelle deportazione di Babilonia, un problema ben più profondo nel cuore stesso dell’umanità, che necessitava dunque di un intervento diretto di YHWH. E’ in questo contesto che è nata la Teologia del cuore, spingendo il rapporto dell’uomo con Dio sul piano interiore. Discendendo del cielo, Dio è entrato nel cuore dell’umanità per scrivere dentro di essa la Sua Parola. Questo suo cammino di discesa, che secondo la letteratura profetica è innanzitutto un cammino di interiorizzazione, è avvenuto con Gesù Cristo. È san Paolo che lo rivela quando, nella lettera ai Romani, mentre al capitolo 5 riflette sulle conseguenze della giustificazione scrive: “La speranza non delude, poiché l’amore di Dio è stato riversato nel nostro cuore per il dono dello Spirito Santo” (Rom 5,5).
E’ una discesa allora che, se in apparenza sembra umiliare l’uomo, in realtà tenta con successo il recupero, per metterlo in grado di vivere ciò che per vocazione è: immagine e somiglianza di Dio.

La discesa del Verbo nel cuore dell’uomo per riscattare ciò che sembrava per sempre perduto, è avvenuto sul piano dell’identità e della differenza.

Sul piano dell’identità innanzi tutto. Infatti, che “Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”  ha voluto dire per l’umanità il desiderio di Dio di salvare l’uomo non con un atto esterno, ma creando un rapporto di strettissima vicinanza. In altre parole Dio, in Gesù Cristo, si è spinto vicino all’uomo sin dove poteva. Sono tante che le espressioni che nel Nuovo Testamento descrivano questo cammino di Dio verso l’uomo. Innanzi tutto san Paolo nella lettera ai Filippesi ricorda che Gesù Cristo è “diventato simile agli uomini”. Per salvare l’uomo dal peccato il Verbo ha assunto la carne del peccato stesso facendosi simile in tutte le cose “ai fratelli” eccetto chiaramente il peccato. Per rendere autentica questa partecipazione alla somiglianza della carne e del sangue dell’umanità da salvare, il Verbo ha dovuto attendere. In primo luogo ha atteso la pienezza del tempo, la fine dei tempi.
C’è stata una lunga, secolare preparazione prima che si compisse l’evento dell’incarnazione. Un evento preparato e annunciato nei secoli. Si pensi ad esempio alle profezie che incontriamo al capitolo 24 del libro dei numeri in cui Balaam figlio di Beor, a dispetto delle maledizioni che Balac re di Moab chiedeva sul popolo di Israele accampato ai piedi del monte Baal, disse: "Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe…".
 Anche la profezia di Natan nel secondo libro di Samuele in cui Dio promette per bocca del profeta al re Davide una alleanza eterna con la sua casa. Profezie millenarie che fanno riflettere sui tempi calmi del Signore, così diversi dai tempi frettolosi degli uomini e delle donne. C’è poi una seconda attesa che avviene nella vita stessa di Gesù. San Paolo la descrive così: “quando giunse la pienezza del tempo, Dio invitò suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge”.


 Il Verbo si è sottomesso alla legge della natura umana e degli uomini. La partecipazione alla somiglianza della care e del sangue dell’uomo non è stato qualcosa di fittizio, esterno, formale: è stata una sottomissione autentica, un cammino di apprendimento dentro le mura della famiglia di Nazareth e nella scuola dei saggi di Israele. Infine, c’è l’attesa di Gesù nel deserto prima di iniziare il ministero. Si rimane a lungo con il fiato sospeso prima di ascoltare una parola di Gesù e di vederlo all’opera. E’ una lentezza non solo imbarazzante, ma nel tempo stesso impressionante che richiede di essere ascoltata e meditata con attenzione. In effetti, è una lentezza che ha tutti i tratti della delicatezza di Dio. Se è vero, infatti, che Dio interviene nella storia per salvare l’uomo dal peccato e dalla morte eterna, sembra che intenda farlo col modo più delicato possibile, senza ferire troppo una umanità già malata. L’incarnazione del Verbo operata da Do nella storia vede, quindi, questo primo aspetto fondamentale: il Verbo è disceso lentamente e delicatamente. E’ stato un incontro talmente lento e delicato che in pochissimi se ne sono accorti: dice infatti Giovanni che “il mondo non lo riconobbe”. Lo stesso vale per il cammino di discesa. Difatti la somiglianza di Gesù con l’umanità incontrarsi era talmente grande che non riusciva a percepire la differenza divina. E la gente si chiedeva: “non è questo il figlio di Giuseppe?”.

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