Paolo Cugini
E’ incontestabile che l’atteggiamento
di Gesù nei confronti delle donne sia libero dal paradigma patriarcale delle
culture mediterranee. E’ interessante riflettere, allora, sulla recezione dei
suoi gesti e delle sue parole con le donne da parte della comunità cristiana
dei primi secoli. Che cosa avviene nella comunità cristiana? Come viene
recepito il messaggio di Gesù, soprattutto il suo modo di pensare e considerare
la donna in un contesto culturale patriarcale e misogino? Come il cristianesimo
ha saputo destreggiarsi nel dialogo con le culture greca e romana non molto
tenere, come sappiamo, con il ruolo delle donne nella società? Il lavoro più
significativo, in questa prospettiva, è senza dubbio quello di Elisabeth
Schussler Fiorenza[1], uno
studio approfondito e già ampiamente discusso e assorbito all’interno del
percorso della teologia femminista, sia per la sua impostazione ermeneutica ed
epistemologica, che per la sua ricostruzione storica. Per questa riflessione
che propongo, pur tenendo come sfondo il lavoro di Fiorenza, faccio riferimento
al più recente studio della teologa spagnola Elisa Estévez Lòpez[2].
Lo spazio della donna nelle lettere Pastorali
All’inizio del cristianesimo, come ci
testimoniano le lettere di Paolo, la casa svolge un ruolo centrale
nell’evoluzione delle prime comunità. E’, infatti, nelle case che le persone si
riuniscono per celebrare l’Eucarestia e ascoltare il messaggio di Gesù. La casa
è per antonomasia, lo spazio in cui è la donna che dirige i lavori. Non è un
caso, allora, che troviamo proprio delle donne che svolgeranno funzioni di
leadership all’interno delle prime comunità, perché poteva essere interpretato
come un’estensione della loro attività in ambito domestico. Questo semplice ma
delicato aspetto, che comportava dunque, una conduzione paritaria della
comunità, assieme all’insegnamento della Parola di Dio, sconvolgevano i valori
che fondavano la struttura dell’antica società mediterranea, che vedeva la
donna chiusa in casa intenta all’educazione dei figli. Non è un caso che Tacito
e Plinio il Giovane catalogassero il cristianesimo come corruttore di costumi e
propagatore di superstizioni depravate e squilibrate. La conduzione della
comunità da parte della donna veniva interpretata come contestazione
dell’autorità del padre di famiglia, minaccia che poteva condurre alla
disgregazione sociale, al sovvertimento dei valori. A causa di queste tensioni,
secondo Elisa Lopez, “nell’organizzazione
cristiana la matrice familiare non andò perduta, bensì adattata al modello
patriarcale e kyriarcale stabilito, garantendo così un adattamento all’ambiente
e offrendo un ambito adeguato di protezione per difendersi dai “falsi dottori”[3]. Nonostante
lo sforzo delle donne di mantenere la struttura egualitaria di partecipazione,
secondo le testimonianze che ci vengono dalle lettere Pastorali (1-2 Timoteo e
lettera a Tito), le comunità furono riorganizzate designando autorità locali
maschili – presbiteri e vescovi (Tt 1,5.7) – che, secondo il modello del pater familias, si dovevano far carico
di vegliare sulla sana dottrina e limitare i comportamenti ambigui che potessero
provocare disagio della comunità nei confronti del mondo esterno. Sin dagli
inizi, dunque, lo spazio riservato alle donne nella comunità, fu una questione
cruciale, un punto di passaggio fondamentale, provocando una gerarchizzazione
escludente nella vita delle chiese. Le donne delle classi agiate sentivano
l’attrattiva nei confronti delle prime comunità proprio per le possibilità di
autonomia che in esse esercitavano le donne. Per fronteggiare la crescente
indipendenza delle donne facoltose arricchitesi a causa dei tanti uomini morti
in guerra, venne approvata una legge per evitare la concentrazione di ricchezze
in mani femminili[4]. Seneca
e Plutarco avevano ribadito a più riprese, la necessità delle donne di stare
sottomesse ai loro mariti, per coltivare le virtù tipiche delle donne, vale a
dire essere bune spose e madri, silenziose e ritirate dalla vita pubblica.
La
nuova religione, dunque, con lo spazio che offriva alle donne nelle case,
divenne motivo da una parte di attrattiva, dall’altro di preoccupazione che
richiedeva un intervento fermo, che sarà uno dei temi portanti delle lettere
Pastorali. Elisa Lopez sostiene che, per comprendere meglio le dinamiche
culturali messe in atto nelle lettere Pastorali, è importante servirsi anche
dei principi che la sociologia della devianza ha messo in rilievo: “Le etichette utilizzate per segnalare le
categorie di devianza manifestano la struttura di potere della società e
rendono noto chi siano i responsabili dell’elaborazione e imposizione di
determinate regole che presentano gli altri come devianti”[5]. Le
lettere Pastorali sono scritte da coloro che abitano il centro, dai
rappresentanti della sana dottrina, da coloro che hanno interessi specifici da
difendere. 1 Tm 4,3 e 2 Tm 3,6 indica come devianti un gruppo di donne, per la
maggior parte vedove, che reclamano un ruolo più attivo nella comunità e
scelgono di vivere come ascete, promuovendo tale stile di vita. La risposta
durissima e senza mezze misure che s’incontra in 1 Tm 2,8-15 dice di un
adeguamento delle comunità operata dai loro capi all’ethos patriarcale
preoccupato di mantenere le differenze sociali fra uomini e donne, fra chi
comanda e chi deve stare sottomesso e deve obbedire. L’autore delle pastorali
intende far tacere quelle donne che hanno osato insegnare pubblicamente agli
uomini, infrangendo un pilastro della cultura patriarcale che regge l’ordine
delle cose. Per questo motivo: “La donna
impari in silenzio, in piena sottomissione” (1 Tm 2,9). Viene da chiedersi:
queste affermazioni sono in continuità con il Vangelo? Gesù avrebbe detto le
stesse cose? Anche lui si sarebbe piegato, ad un certo punto, allo schema
patriarcale o avrebbe prodotto un sovvertimento di valori? Personalmente penso
che l’ultima opzione sia quella giusta. Secondo la Lopez, nonostante le
comunità cristiane vivessero in un clima culturale molto critico nei loro
riguardi a causa del comportamento delle donne, “l’autore delle lettere condivideva ampiamente le credenze e le
convinzioni dell’ambiente circostante circa il primato maschile
nell’organizzazione sociale e religiosa”[6].
Le preoccupazioni di definire in modo adeguato i nuovi limiti sociali e
religiosi si riflettono nell’ansia che le donne portino vestiti adeguati,
comportandosi responsabilmente, come conviene (1 Tm 2,10).
Questi stessi temi
polemici contro il mal costume delle donne, l’eccesso di ostentazione della
fisicità, le critiche contro l’uso di gioielli, vestiti costosi e segni di
ricchezza li troviamo anche nella lettura pagana del secondo secolo, in modo
particolare in Polibio e Giovenale. Sottolineare questo aspetto letterario
vuole aiutare la comprensione delle affermazioni che si riscontrano nelle
lettere Pastorali, che non lasciamo dubbi circa la provenienza dalla cultura
patriarcale diffusa. In questi autori
latini del secondo secolo, che non solo rappresentano i contenuti culturali
della loro epoca, e che condizioneranno non poco la riflessione all’interno
delle comunità cristiane del secondo secolo, troviamo argomentazioni sul tema
della donna che verranno riprese nella riflessione patristica e che tanto
influenzerà il pensiero cristiano successivo. La società androcentrica e
patriarcale individua nelle caratteristiche del corpo femminile la prova
dell’inferiorità delle donne, il loro essere irrazionali, instabili e incapaci
di dominarsi. Gli uomini, al contrario, sono visti come magri e caldi, e di
conseguenza razionali, dotati di capacità di autocontrollo superiori e
compiutamente perfetti[7].
La convinzione condivisa nelle antiche società mediterranee è che per la donna
ci sia bisogno dell’intervento di un uomo. L’autorità maschile, alla quale le
donne devono sottomettersi in silenzio, garantisce il loro autocontrollo. E’ in
questo contesto che è possibile comprendere il significato delle parole di 1 Tm
2, 11s in cui l’autore invita le donne alla più totale sottomissione all’uomo e
al silenzio. “Pur rappresentando sempre
una minaccia per l’ordine sociale, il potere di dare alla luce, controllato
dagli uomini, e l’autorità esercitata su di loro nel matrimonio, abilitano le
donne quali membri che si adeguano all’organizzazione sociale e, secondo la
lettera a Timoteo, anche a quella ecclesiale”[8].
La letteratura latina antica sottolinea la diversità dei corpi tra uomini e
donne per giustificare la diversità degli spazi sociali da loro occupati. Oltre
a Seneca, Senofonte e Plutarco, è soprattutto Filone Alessandrino a spiegare
come lo spazio pubblico sia per gli uomini, mentre gli spazi domestici per le
donne. Come abbiamo già visto l’autore delle pastorali si appoggia su questa
cultura patriarcale diffusa, ricorrendo anche all’appoggio dei dati della
Scrittura, soprattutto su due punti. La 1 Timoteo sostiene che nell’ordine
della creazione il primo ad essere formato fu Adamo e solo in un secondo
momento Eva. Per questo la donna non può permettersi d’insegnare all’uomo. Il
secondo argomento scritturistico sostiene che non fu Adamo ad essere ingannato
dal serpente, ma Eva. Le conseguenze di questa testimonianza biblica sono
immediate. Infatti, “nella stessa natura
femminile è iscritto che queste siano più inclini degli uomini a peccare e,
pertanto, a legarsi a falsi maestri, prestando fede a dottrine che allontanano
dai doveri che tradizionalmente spettano loro in quanto mogli e madri”[9].
E’ con simili argomenti, sorretti sia dalle prove della Scrittura che dagli
autorevoli autori latini, che alle donne viene proibito d’insegnare in pubblico
e quindi nella comunità cristiana le viene imposto il silenzio assoluto.
Il coraggio di Tecla
Presentando gli Atti di Paolo e di Tecla, Elisa Lopez mostra che le Pastorali non
furono l’unica risposta della comunità cristiana al mondo culturale circostante
sul ruolo delle donne. Tecla, così come Paolo, è una missionaria itinerante
dotata del ministero della Parola. Sin dall’inizio aderisce alla pratica della
continenza come cammino di perfezione nella vita cristiana. Stando al testo, fu
questo il motivo principale che provocò l’accusa di agitatore e di corruttore
di costumi contro Paolo, la cui colpa sarebbe consistita nell’imporre ad altre
donne la scelta celibataria, impedendole di accedere alle nozze. Tecla dovrà
affrontare il martirio per due volte, l’espulsione dalla città natale e lo
scontro con la madre che ne deciderà la condanna a morte. La predicazione di
Tecla suscita grande gioia nella casa di Trifena e rafforza gli ascoltatori
nella casa di Hermes. Non è la prima volta che Tecla insegna dinanzi ad una
comunità: era già successo ad Antiochia. La parola femminile proferita da Tecla
in pubblico si afferma come una virtù, contraddicendo, come abbiamo visto, la
cultura dominante. Proprio per questo, però, viene condannata al supplizio e
Tecla si proclama serva, ma solo di Dio. Il racconto presenta Tecla come una
donna forte, “capace di opporsi alle
pressioni sociali e di dimostrare con i fatti che visibilità nello spazio
pubblico e virtù non sono incompatibili fra loro, che autonomia ed esemplarità
sono compagne di strada, che ascetismo e integrità si stringono la mano”[10].
Lopez sottolinea anche come le donne emancipate e ricche che reclamavano un
ruolo più attivo nelle comunità cristiane, trovarono in Tecla un paradigma di
discepolato molto suggestivo. Oltre a ciò, Elisa Lopez sottolinea come il
racconto esalti la solidarietà femminile legando Tecla a diversi gruppi di
riferimento che la sostengono e incoraggiano. Con lei e le sue serve sembra
costituire una piccola comunità cristiana nello stile di molte altre che
esistettero[11]. Tecla,
che diede inizio alla sua opera in stretto collegamento con Paolo, si
caratterizzerà sempre di più come donna autonoma e attiva, indipendente dalla
autorità apostolica. Si battezzerà da se stessa, deciderà di continuare a
predicare prima che Paolo glielo suggerisca, affronterà i pericoli con
coraggio, incentiverà spazi alternativi di vita femminile in comune. Diversamente
da ciò che è descritto nelle lettere Pastorali, l’esperienza religiosa divenne
per Tecla fonte di acquisizione di autorevolezza. “Nello sfidare l’ordine civico sacralizzato – sostiene Elisa Lopez – è divenuta un soggetto individuale nel
processo di equiparazione con gli uomini”[12].
Processo che, come sappiamo pagherà con la vita.
[1] SCHUSSLER FIORENZA, E., In
memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane,
Claudiana, Torino 1990
[2] LOPEZ, E.E., Disobbedienti figli
di Eva. Rivendicazioni femminili nelle chiese delle origini, EDB, Bologna
2016
[3] Ivi, p. 22
[4] Cfr. ivi, p. 12
[5] Ivi, p. 30
[6] Ivi, p. 34
[7] Cfr. ivi p. 42
[8] Ivi p. 50
[9] Ibidem
[10] Ivi, p. 61
[11] Cfr. Il Pastore d’Erma,
Visione II, 4,3
[12] LOPEZ, E., Disobbedienti figlie di Eva, cit., p. 65
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