IN CAMMINO VERSO LA SINODALITA’
Paolo
Cugini
Non è
facile pensare e decidere insieme. Non è facile perché, prima di tutto, non ci
siamo abituati. Non possiamo, poi pretendere che un’istituzione come la chiesa
si metta a sinodalizzare (passatemi il neologismo) dopo secoli di monologo. Che
lo metta tra i suoi obiettivi è bello e simpatico, ma che lo faccia realmente è
un altro capitolo della storia. Gli piacerebbe, ma non ci riesce fino in fondo.
Sinodalità richiama, infatti, ad un concetto fondamentale della chiesa di Gesù
Cristo, vale a dire il principio di uguaglianza, che considera tutte le persone
della comunità come fratelli e sorelle. La chiesa è sinodale quando non solo
ascolta tutti, ma non giudica nessuno inferiore, non mette nessuno
nell’impossibilità di poter esprimere il proprio parere. Già da queste prime battute si comprende come
tra il dire e il fare, il desiderio e la realtà, ci sia molto mare in mezzo. Peter Neuner nel suo recente studio: Per una teologia del Popolo di Dio (Queriniana,
Brescia 2016), mostra come già alla fine del primo secolo il termine fratello e
sorella, utilizzato nelle prime comunità tra i membri delle stesse, sparisce
dal linguaggio. Cipriano, infatti, nella sua prima lettera datata all’incirca nel
96 del I secolo, attribuisce il termine fratello solamente i suoi colleghi
vescovi.
Per sedersi
attorno allo stesso tavolo per prendere delle decisioni insieme – è questo il
senso della sinodalità – occorre che nessuno si consideri superiore dell’altro.
Questo è il problema. C’è una relazione tra i membri della chiesa che è venuta
lentamente e progressivamente sgretolandosi e distanziandosi e ancora oggi
porta il peso di questa distanza. Del resto, se uno degli interlocutori detiene
il diritto di dire sempre l’ultima parola, si capisce bene come il dialogo
diventi complicato. A questo proposito, sempre Neuner dimostra che la
contrapposizione laici/clero non faceva parte delle origini. Infatti, il termine
laos viene usato per indicare tutti i cristiani e non per indicare i laici
contrapposti ai sacerdoti. “Visto in
questo modo, laos e il nostro termine laico, che da esso deriva, sono per la
terminologia biblica i termini onorifici più alti che possono essere dati a un
cristiano”. Tutti coloro che appartengono al popolo sono laici e lo sono
anche sia i ministri ordinati che color che sono dotati di un carisma
particolare. In realtà, accompagnando gli sviluppi del Nuovo Testamento, la
differenza a cui rimanda la parola Laos, è quella tra i credenti e i non
credenti e quindi non una differenza riguardante classi diverse all’interno
della chiesa. Dal punto di vista prettamente storico, il concetto di laico si è
imposto in ambito ecclesiale nel III secolo. Sarà poi con la svolta
costantiniana del IV secolo che la contrapposizione laici/clero non solo si
confermerà, ma si radicalizzerà, anche perché i rappresentanti della chiesa
riceveranno una posizione sociale onorifica. Contrapposizione che ha passato i
secoli e che è giunta sino ai nostri giorni con tutto il suo peso storico che
fa fatica ad attenuarsi.
È umanamente difficile vivere la novità che
Gesù è venuto a portare al mondo. Per chiamare le persone di una comunità
fratelli e sorelle, per considerarli uguali, occorre compiere un cammino di
conversione radicale, un cambiamento di mentalità, un passaggio da un modo di
concepire la realtà ad un altro. Il Vangelo è, infatti, prima di tutto uno
stile, un modo di stare al mondo, un modo di rapportarsi con gli altri. Gesù
continuamente sollecita i suoi discepoli e le sue discepole ad essere
differenti, a non utilizzare le stesse logiche del mondo: “tra di voi non sia così, ma chi vuole essere il primo sia l’ultimo”.
Se nella vita quotidiana siamo continuamente immersi e sollecitati da logiche
di potere, da relazioni di arroganza in cui ci viene sempre ricordato in modo
implicito od esplicito che siamo inferiori rispetto a qualcuno che ha più
potere di noi, con Gesù tutto questo non accadeva. Infatti, Il Signore metteva
a proprio agio chiunque, lo faceva sentire bene, un fratello, una sorella.
Molti poveri lo seguivano non solo perché faceva miracoli, ma per le parole che
uscivano dalla sua bocca, per il modo inclusivo ed accogliente di manifestarsi
al mondo. In Gesù nessuno si sentiva giudicato o condannato. Lo diceva
continuamente lui stesso: non giudicate, non condannate, siate misericordiosi.
Anche nella relazione con i peccatori Gesù ha sempre mostrato molta
delicatezza. Non li ha mai accolti, infatti, buttandogli addosso il peso delle
loro colpe, ma si dirigeva loro con amore e misericordia e, solo alla fine
della relazione, ricordava loro di non tornare a peccare.
Non sono dettagli da poco e non è una
questione di virgole e di punteggiatura. Si tratta di capire che cos’è più
importante per noi, se salvare una persona o la difesa dei valori non
negoziabili. Lo diceva lo tesso Papa Francesco in questi giorni che, dinanzi ad
un figlio, non ci sono valori non negoziabili da difendere. Dinanzi ad un
figlio, ad una figlia non si può rimanere chiusi in un atteggiamento di
durezza. Gesù è venuto al mondo e ci ha presi così come siamo, non ci ha fatto
la morale, è morto per noi e ci ha indicato una via: la sua vita. Ha
considerato ogni persona nella sua dignità, l’ha valorizzata per quello che
era: ha dato a ciascuno di noi la possibilità di rialzarsi e riprendere il
cammino. Non ha creato delle differenze di grado, non si è mai fatto servire,
ma lui steso si è abbassato per servire i suoi discepoli e le sue discepole sino
al punto da lavargli i piedi. Il problema viene da coloro che pensano di stare
in piedi da soli, pensano di non essere mai caduti, credono di non avere
bisogno di nessuno e, per questo, disprezzano la fragilità altrui, le cadute,
non tollerano che si possa cadere. Contro questi perfetti ha sbattuto il muso
anche Gesù. Chi nasce e cresce nella bambagia, protetto all’estremo dalle
temperie del modo, non conoscendo le difficoltà reali della vita, ritiene
inconcepibile la possibilità di sbagliare. Chi è stato formato dalle classi
alte, quando sarà adulto riprodurrà lo stesso schema di società diviso in due:
chi comanda e chi obbedisce. È brutto vedere anche questo schema nella chiesa.
È poco evangelico vedere coloro che si fanno chiamare pastori, amare la distanza
dal popolo, amare di essere considerati superiori, difendere a denti stretti il
diritto di dire sempre l’ultima parola.
La
sinodalità dice di uno stile di relazione che considera tutte le persone
uguali, che non fa distinzione tra uomini e donne, bianche e neri, ricchi e
poveri. Fino a quando la gerarchia della chiesa è solo maschile sarà
impossibile una forma sinodale, che si regge sul principio di uguaglianza tra
uomini e donne. Gesù ha dimostrato con l’esempio che è possibile costruire un
cammino di sinodalità abbassandosi, mettendosi a livello dell’interlocutore,
camminando con loro, condividendo le gioie e le sofferenze. Molto spesso nei
dialoghi con gli scribi e i farisei Gesù raccontava delle parabole per
coinvolgere i loro interlocutori affinché fossero loro stessi a trarre le
conseguenze delle loro scelte. Una chiesa sinodale è possibile quando
assomiglia allo stile di Gesù, che si è abbassato, si è fatto uno di noi, non
aveva titoli o paramenti che lo differenziavano. Una chiesa è sinodale quando,
sull’esempio di Gesù, non si mette in cattedra, ma con umiltà si mette in
cammino con le persone, coinvolgendole nei processi formativi. Sembrano dettagli da poco, invece sono
importanti, perché dicono di una differenza e indicano un cammino.
In questo
percorso i poveri, gli esclusi, coloro che vivono ai margini della società sono
i nostri maestri, sono coloro che ci possono annunciare il Vangelo della
sinodalità, sono gli unici che ci possono salvare dall’idolatria del potere,
che snatura le relazioni e produce l’arroganza di chi pretende di dominare
sugli altri. Ascoltare ed accogliere con tenerezza coloro che portano i segni
del disprezzo sociale, può insegnarci molto. In questa prospettiva le persone
omosessuali, che possiamo considerare i nuovi lebbrosi della nostra società
Occidentale, hanno molto da insegnarci. Come dev’essere pesante per un
cristiano LGBT pregare il Dio di una chiesa che lo tratta come malato da
guarire. Eppure si riuniscono per meditare la Parola, per alimentare la speranza,
per trovare conforto nel Signore della misericordia infinita, nonostante il
disprezzo che ricevono anche da membri o da gruppi della chiesa. Metterci alla
scuola di Gesù che scendeva dalla cattedra di Mosè, per mettersi a livello
della gente, ascoltarli, accoglierli, valorizzarli e, soprattutto, per
condividerne le sofferenze: è questo il percorso da compiere. La chiesa
sinodale è quella che sa mettersi in ascolto del grido dei disperati, dei
maltrattati dalla storia, che sa considerare ogni persona LGBT come fratello e
sorella.
Oppure
come dev’essere difficile per gli africani dalla pelle nera abitare in un paese
di bianchi. Come dev’essere difficile per gli africani sopportare tutti i
giorni l’arroganza di coloro che si sentono superiori per il fatto di avere la
pelle bianca. Come dev’essere pesante per un giovane africano venire a cercare
fortuna nella terra di coloro che da secoli stanno devastando i loro paesi,
sfruttando vergognosamente le loro risorse, ammazzando i loro bambini,
stuprando le loro donne. Come dev’essere gravoso guardare negli occhi gli
uomini bianchi che per il fatto di essere nati con la pelle bianca si sentono
in diritto di guardare tutti dall’alto in basso, animati da un complesso di
superiorità che non lascia spazio alle differenze di manifestarsi alla
pari. Ascoltare queste sofferenze, che
provengono dal profondo dell’anima, ascoltare il male che da secoli subiscono
per il semplice fatto che sono nati così, ci può aiutare ad uscire dalla
schiavitù del complesso di superiorità e capire finalmente, che siamo tutti fratelli
e sorelle e che la dignità più grande che abbiamo è quella di essere figli e
figlie di Dio, amati da un unico Padre.
Sinodalità
significa abitare la pluralità e questo è possibile solamente se accettiamo la
differenza come elemento costitutivo del progetto di Dio. È lui, infatti, il
colpevole! È Lui che ci ha fatti diversi e ci ha chiamati all’unità. Nella
comunità cristiana, specchio della Trinità, l’unità non s’identifica con
l’uniformità, ma esige la diversità. Il Vangelo, in questa prospettiva, è il
miglior collirio che cura le nostre rigidità, che lenisce le nostre durezze,
che ci porta ad accogliere l’altro per quello che è, liberandoci dalle nostre
precomprensioni culturali. Evangelizzare le culture significa fare in modo che
la novità del Vangelo contamini positivamente ogni aspetto della realtà che ci
circonda e la trasformi in amore. Lasciarci contaminare dall’amore di Dio che
si è manifestato nella persona di Gesù Cristo significa seguire il suo cammino
di abbassamento, di svuotamento per fare spazio a tutti.
Riflessione molto bella, grazie! Abbiamo bisogno come l'ossigeno di fare entrare il Vangelo nei nostri tessuti, nel nostro modo di pensare, che è tendenzialmente egoistico...
RispondiEliminaGRAZIE Paolo per questa splendida riflessione. Mi sono commosso..... E' tutto vero: siamo esattamente come ci hai descritto. Quindi DOBBIAMO cambiare dentro per poterci definire cristiani (seguaci di Cristo) ma dobbiamo farlo anche per poterci chiamare uomini e per cambiare la Chiesa della quale siamo parte. Con MOOLTA pazienza. Mi sono vergognato rivedendomi in tutti i peccati e in tutte le prevaricazioni che hai evidenziato.
RispondiEliminaGRAZIE Paolo
Lo stile della vita sinodale per la Chiesa è come lo stile della vita famigliare per la famiglia : con pari dignità ci si siede attorno alla stessa tavola; tutti hanno diritto di parlare; tutti hanno il dovere di ascoltare; tutti mangiano lo stesso cibo; la famiglia prende il passo degli ultimi; la benevolenza reciproca è la modalità della relazione; il perdono reciproco la strada per crescere insieme e sperimentare la pace; la tenerezza il modo di esprimere l'amore e di sentirsi amati.
RispondiEliminaCorrado Contini
gruppo Davide Parma
Grazie per questa riflessione, davvero ispirata. Alla prossima... Elisabetta
RispondiEliminaGrande Pe. Paolo.
RispondiEliminaBela reflexão. Perceber a miúde nossos defeitos e super_egos requer disciplina, sensibilidade e paz. Tendo em vista nosso modelo Jesus, perceber no evangelho seus gestos e pensamentos. O problema é que as vezes distorcemos o que lemos lá no evangelho e super-ego fala mais alto.
Apreciados com seu texto, nos resta reflexão e sabedoria para que nosso diálogo com o evangelho não tenha distorções para que coloquemos em prática só a verdade.
Grande abraço!
Grande Mury! Que bom saber que voce em algun lugar do mundo està me escutando, aliàs, lendo. Um grande abraço e uma feliz Pascoa!
EliminaUna splendida sintesi di cosa voglia dire amare. Ci fa capire ancora una volta, quanta strada dobbiamo fare per diventare come bambini e diventare finalmente chiesa. Emanuele
RispondiEliminaGrazie don Paolo una riflessione profonda e semplice nello stile del Vangelo
RispondiEliminaUna vera fortuna avere un Parroco e un Papa che portano la Chiesa avanti nella stessa direzione. Salvatore
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