domenica 29 dicembre 2024

IL PADRE DI FAMIGLIA: IL SOLO AVVENTURIERO AL MONDO

 




Charles Péguy


C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. Non corrono assolutamente alcun pericolo, al suo confronto. Tutto nel mondo moderno, e soprattutto il disprezzo, è organizzato contro lo stolto, contro l’imprudente, contro il temerario,

Chi sarà tanto prode, o tanto temerario? Contro lo sregolato, contro l’audace, contro l’uomo che ha tale audacia, avere moglie e bambini, contro l’uomo che osa fondare una famiglia. Tutto è contro di lui. Tutto è sapientemente organizzato contro di lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti; l’accadere, la società; tutto il congegno automatico delle leggi economiche. E infine il resto. Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia; e di conseguenza contro la famiglia stessa, contro la vita di famiglia. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. Perché gli altri, al maximum, vi sono coinvolti solo con la testa, che non è niente. Lui invece ci è coinvolto con tutte le sue membra. Gli altri, al maximum, si giocano solo la loro testa, il che non è niente. Lui invece mette in gioco tutte le membra. Gli altri soffrono solo per se stessi. Ipsi. Al primo grado. Lui solo soffre per altri. Alii patitur. Al secondo, al ventesimo grado. Fa soffrire altri, ne è responsabile. Lui solo ha degli ostaggi, la moglie, il bambino, e la malattia e la morte possono colpirlo in tutte le sue membra. Gli altri navigano a secco di vele. Lui solo, qualunque sia la forza del vento, è obbligato a navigare a piene vele. Tutti hanno vantaggio su di lui e lui non ha vantaggio su nessuno. Si muove continuamente con i suoi ostaggi, in lungo e in largo tra quei terribili fortunali. Le cose che accadono, i guai, la malattia, la morte, tutto ciò che accade, tutti i guai hanno vantaggio su di lui, sempre; è sempre esposto a tutto, in pieno, di fronte, perché naviga su una larghezza immensa. Gli altri scantonano. Sono corsari. Sono a secco di vele.

Ma lui, che naviga, che è obbligato a governare la nave su questa rotta immensamente larga, lui solo non può assolutamente passare senza che la fatalità si accorga di lui. E allora è lui che è coinvolto nel mondo, e lui solo. Tutti gli altri possono infischiarsene. Lui solo paga per tutti. Capo e padre di ostaggi, anche lui stesso è sempre ostaggio. Che importa agli altri di guerre e rivoluzioni, guerre civili e guerre straniere, l’avvenire di una società, ciò che accade alla città, la decadenza di tutto un popolo. Non rischiano mai altro che la testa. Niente, meno di niente. Lui invece non solo è coinvolto dappertutto nella città presente. Dalla famiglia, dalla sua razza, dalla sua discendenza da quei bambini è coinvolto dappertutto nella città futura, nello sviluppo ulteriore, in tutto il temporale accadere della città. Si gioca la razza, si gioca il popolo, si gioca la società, mette come posta la società. Si gioca (tutta) la città, presente, passata, a venire. Tale è la sua posta in gioco. Gli altri scantonano sempre. Sono carene leggere, sottili come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico. È il luogo d’appuntamento di tutte le tempeste. Tutti i venti del cielo congiurano e si mettono d’accordo, si abbattono da tutti gli angoli del cielo, accorrono e si intersecano da tutti i punti dell’orizzonte per assalirlo. Lui scopre alla sorte, alla fortuna, alla sfortuna che vigila, alla fatalità una larghezza (di spalle) (su cui abbattersi), una superficie, un volume incredibile. Non è coinvolto solo nella città presente. È coinvolto dappertutto nell’avvenire del mondo. E anche in tutto il passato, nella memoria, in tutta la storia. È assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori, (di sapere) in che città di domani, in quale ulteriore società, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale decadenza, in quale decadenza di tutto un popolo lasceranno, consegneranno, domani, stanno per lasciare, entro qualche anno, il giorno della morte, quei bambini di cui i padri  si sentono così pienamente, così assolutamente responsabili, di cui sono temporalmente i pieni autori. Quindi per loro nulla è indifferente. Niente di quello che succede, niente di storico è per loro indifferente. Soffrono di tutto. Soffrono dappertutto. Solo loro hanno esaurito la sofferenza temporale, tutto il dolore di chi vive nel tempo. Chi non ha mai avuto un bambino malato non sa cosa sia la malattia. Chi non ha perso un bambino, chi non ha visto morto il suo bambino non sa cosa sia il dolore. E non sa cosa sia la morte. E, coinvolti da ogni parte nelle sofferenze, nelle miserie, in tutte le responsabilità, sono tutti  ingolfati nell’esistenza, sono pesanti e impacciati, sono goffi, impediti nelle manovre; sembrano deboli e vili; non solo lo sembrano; sono deboli, sono vili, sono codardi. Nella manovra. Capi responsabili e appesantiti, carichi e responsabili di una banda di prigionieri, prigionieri essi stessi, carichi, responsabili di una banda di ostaggi, ostaggi essi stessi, non fanno un passo che non sia vigliacco, sembrano, sono circospetti, sono prudenti, non fanno una mossa che non sia sconcertante. E tutti li disprezzano e, quel che è peggio, hanno ragione a disprezzarli. Gli altri scantonano sempre. Non hanno bagagli. Vili, scantonano con districamenti politici. Coraggiosi scantonano con districamenti eroici, con districamenti d’audacia. Temporali, scantonano verso la carriera e le dominazioni temporali. Spirituali, scantonano, si defilano verso le osservanze della regola. Storici, scantonano verso le carriere della gloria. Riescono sempre, sia nella regola, sia nel secolo.

II padre di famiglia è solo, e condannato a non riuscire affatto. Non può mai scantonare. Deve sempre passare in tutta la sua larghezza. Ed è molto semplice, non ci passa. Non ci passa mai. Non passa da nessuna parte. Non riesce né nella regola né nel secolo. Non riesce nella regola, la regola si oppone. Prima di cominciare. Non riesce nel secolo. Il secolo si oppone prima, durante, dopo. Non riesce nella politica e non riesce nell’audacia… È troppo grosso. Ha tutta la famiglia attorno al corpo. È come la donnola di La Fontaine, ma dopo che è ingrassata. Ha socialmente un grasso, un tessuto adiposo sociale, che lo rende inadatto alla corsa. Ora, temporalmente tutto non è altro che corsa, non è altro che concorso e concorrenza. Gli altri corrono, intanto, gli altri arrivano, quelli magri, fini, sottili, socialmente scarichi, sgombri di bagagli. Così tutti lo disprezzano; in sua presenza, tra di loro, lo schermiscono; sordamente, involontariamente congiurano contro di lui.

 Più di tutti gli altri, lo disprezzano i preti. Perché hanno questo (di bello), quando si accaniscono su qualcuno, ci si riaccaniscono di preferenza. Preferenzialmente. E quello che chiamano la carità. Bisogna sottolineare attentamente che la vita di famiglia è la vita più impegnata nel secolo, la vita meno conforme, la meno simpatica, la meno affine alla regola. Vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi abbindolare dalle apparenze più grossolane, commettere l’errore più smaccato, e anche naturalmente il più comune, l’errore più frequente, quello di dire che la vita pubblica è vivace, e la vita di famiglia è silenziosa, e la regola, la vita regolare è anche lei silenziosa; e quindi la vita pubblica è non ritirata, e la vita di famiglia è ritirata, e la regola, la vita regolare è anche lei ritirata; e concluderne, credere, che sia la vita di famiglia che è vicina alla vita di regola, apparentata alla vita di regola, e che sia la vita pubblica che se ne è allontanata. Questo è lasciarsi prendere dalle più grossolane apparenze. È diametralmente il contrario. La vita di famiglia è agli antipodi della vita della regola. Nessun uomo al mondo è coinvolto nel mondo, nella storia e nel destino del mondo quanto l’uomo di famiglia, tanto quanto il padre di famiglia, così pienamente, così carnalmente. L’uomo pubblico invece, il vir politicus, non è affatto coinvolto nel mondo, non è affatto coinvolto nella storia e nel destino del mondo. Cosa importa all’uomo politico, al demagogo, al tribuno, all’oratore, al legislatore, all’eloquente, anche all’uomo politico serio, all’uomo pubblico, all’uomo di Stato, all’uomo di governo, (e a maggior ragione) al capo di partito (come tali), cosa importa al militare e al giudice, al generale e al presidente di corte e al presidente di camera, (come tali, come tali), che importa come tali al funzionario e al magistrato, al generale, al deputato, al senatore, al giornalista, al pubblicista, all’esattore, e all’usciere del ministero, cosa importa al signor sindaco; cosa importa come tale a ogni uomo pubblico delle sorti della città presente, le sorti ulteriori, la destinazione e il destino; cosa gli importa di cosa sarà di questo popolo, cosa faremo di questo popolo; vi sono coinvolti solo con la testa e qualcuno con la gloria; al massimo con l’onore, quando ne hanno: niente, meno di niente. Non ci rischiano che la testa, al più, al maximum; al meno, di solito l’avanzamento, la carriera, al più del meno l’apice; miserie. Gloria temporale, onore temporale; niente, meno di niente. Avanzamento temporale, carriera temporale, apice temporale, testa temporale; miserie. E le gioie e le miserie del dominio. E le gioie e le miserie del denaro. Ecco tutto quello che si giocano. Come tali. Se intanto, se insieme sono padri di famiglia, cosa estremamente rara, l’operazione è tutta diversa, il comportamento e l’azione pubblica è tutta diversa, tutta diversa la situazione anche per così dire topografica, geografica, demografica. Cosa importa loro, come tali, una rivoluzione, una guerra civile o straniera, un sabotaggio di tutto un popolo. Una diminuzione, una decrescita; una perdita, forse irrimediabile; una decadenza, forse irreparabile, irrevocabile. Tutt’al più si giocano, nel temporale, una gloria del loro nome, la gloria, ulteriore, l’onore o il discredito sul loro nome. Di solito questo tipo di considerazione li lascia abbastanza freddi. Sono abbastanza poco sensibili a considerazioni di questo tipo. Di solito. Solo il padre di famiglia mette in gioco, rischia, impegna infinitamente di più nella destinazione del mondo, nel secolo, nella destinazione di tutto un popolo; nel futuro di una razza. Nel destino di tutto questo popolo, nell’avvenire di questa razza impegna tutto, mette tutto, la sua carne e di più; si gioca la razza, si gioca davvero il popolo, si gioca la sua discendenza. II solo padre di famiglia, il padre di famiglia da solo. Ed è un pover’uomo. Tormentato da scrupoli, assalito, invaso, tormentato da rimorsi, per crimini che non ha affatto commesso, che non commetterà mai, che altri mille, che tutti gli altri commetteranno, sente oscuramente, molto profondamente, che è lui, in effetti, che è lui davvero il responsabile. Perché è padre di famiglia. È uno dei casi più significativi che ci siano di responsabilità senza colpa, di colpevolezza senza colpa. Eppure di responsabilità reale, di colpevolezza reale; comune; misteriosa; di fatalità, anche; infinitamente più profonda; segreta; in comunità, in comunione; con la creazione con (tutto) il mondo; infinitamente più grave delle nostre proprie responsabilità, personali, particolari, limitate, note, individuali e collettive; infinitamente più profonda; infinitamente più vicina alla creazione stessa; e quasi (oscuramente ce ne accorgiamo), quasi infinitamente più giusta, attinente alla creazione stessa, al mistero, al segreto della creazione; una colpevolezza, allora, infinitamente più seria delle nostre colpevolezze propriamente criminali.

Per il padre di famiglia (questo è lo stato, costante, uno stato situazionale; è la sua stessa patente, la sua condizione ab urbe condita, una volta fondata la famiglia. È la sua stessa definizione, il pane di tutti i (suoi) giorni, il cruccio delle sue notti. È il midollo, stesso, della sua vita, il segreto della sua esistenza, la sua regola interiore, la sua regola esteriore, la regola del suo secolo, la sua regola di secolo. Ed è un pover’uomo; innocente criminale; innocente responsabile; innocente colpevole; innocente assalito da scrupoli; innocente tormentato dai rimorsi; legato, incatenato da ogni parte, mani, piedi, da tutti i lacci, da tutte le catene, è lui, amico mio, è lui, e lui solo, che ha le relazioni pericolose; confuso, prigioniero, ostaggio, manette alle mani, ganasce ai piedi, capo, responsabile dei prigionieri, capo, responsabile degli ostaggi, fa pena, è esposto a tutto, ai quodlibet, alle ingiurie, al peggio di tutto: a una sorta di riprovazione, di malevolenza universale, di presa in giro, di tacita ingiuria, (peggiore, infinitamente più grave di quella formale), perché se è così tacita, se può essere così sottintesa, come se andasse da sé, per così dire; non vale la pena di parlarne, perché tutti lo sanno bene; è una cosa intesa, senza che ci si pensi, una cosa alla quale tutti consentono, a cui tutti danno la mano. È infinitamente peggio di una cosa infinitamente concertata, che una cosa universalmente concertata. È una cosa universalmente non concertata. Così è infinitamente meno demolibile. Una cosa che va da sé. Che si sappia. Allora tutti ci calpestano sopra. 

Allora, ringalluzzito, anche il prete ci calpesta sopra. Clericus. Il sacerdote se ne accorge bene, un istinto di casta lo avverte, uno degli avvertimenti, uno degli istinti più sicuri, uno degli istinti più infallibili, un segreto orgoglio infallibile lo avverte che è lui il nemico, il più lontano, il più straniero, che l’uomo di famiglia, che il padre di famiglia è l’uomo più lontano dalla regola e dalla clericatura, l’uomo del mondo più coinvolto nel mondo, un istinto segreto lo avverte che lui è infinitamente più vicino al pubblico peccatore; e reciprocamente; che il tribuno, l’oratore, l’eloquente, l’uomo della tribuna è infinitamente più vicino all’uomo del pulpito, infinitamente più imparentato all’uomo del pulpito, che l’uomo del meeting, della pubblica riunione è infinitamente più vicino all’uomo della predica e all’uomo del sermone; più pronto, per l’uno e per l’altro, sia per diventarlo, sia per subirne l’effetto, sia insieme l’uno e l’altro, che sono dello stesso genere, che si passa comodamente e quasi continuamente dall’uno all’altro, che c’è tra loro un’intesa, interna, un accordo segreto, una somiglianza, almeno di modo, e in più che appartengono allo stesso mondo; e per la regola che il celibe, l’uomo libero, il non prigioniero, il non ostaggio, lo slegato, il non legato, l’inlegato, il mai legato, lo scantonatore, il pié leggero, il corridore, il bombarolo, il festaiolo, l’uomo all’erta è infinitamente più vicino; e più pronto, più disponibile; che lui piace di più; che con lui ci si capirà meglio, ci si intenderà sempre. E poi è lui che è un personaggio gradevole. Il padre di famiglia è un povero essere. Tirar su solo tre bambini, pensa un po’. Che grottesco, che ridicolo. Tutte le forze della società sono congiurate, si congiurano contro una cosa del genere. Ora, il sacerdote è una forza della società, fa parte delle forze della società. Allora tutti calpestano il padre di famiglia. Allora il sacerdote, ardito, lo calpesta. Non ha che indulgenza, e che indulgenze, per tutti gli altri. Si crede di solito che il celibe, l’uomo senza famiglia è un uomo di fortuna(e), un avven¬turiero, che vive di avventure.

Invece è l’uomo di famiglia che è un avventuriero, che vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una totale avventura; l’avventura più terribile, la più costantemente tragica; la cui vita stessa è un’avventura, il tessuto stesso della vita, la trama e l’ordito, il pane quoti¬diano. Ecco l’avventuriero, il vero, il reale avventuriero.


CHARLES TAYLOR, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna

 





 [1989], Feltrinelli, Milano 1993.

Identità e bene – o, se si preferisce, identità e moralità – sono due termini inestricabilmente legati (15).

L’idea che abbiamo il dovere di ridurre al minimo le sofferenze fa parte integrante della nostra idea attuale di rispetto per le persone (27).

L’affermazione della vita comune è diventata una delle idee più potenti della civiltà moderna. Essa sta alla base della politica “borghese” contemporanea, così attenta al problema del benessere, nonché della più influente ideologia rivoluzionaria del nostro secolo, il marxismo, e della sua esaltazione dell’uomo produttore (27-28).

C’è la percezione del fatto che un quadro di riferimento condiviso da tutti non esiste più (31).

Un quadro di riferimento è ciò che ci consente di dare un senso alla nostra vita spirituale. Non possedere un quadro di riferimento vuole dire cadere in una vita spiritualmente senza senso. La ricerca, quindi, è sempre ricerca di senso […] Trovare il senso della vita vuole dire esplicitarlo. Una vita ha un significato se ha uno scopo; non ce l’ha se non ha uno scopo (32).

Il punto chiave è che la dimensione superiore va cercata non già al di fuori dell’esistenza quotidiana, ma all’interno di essa come modo di vivere questa stessa esistenza (39).

La mia tesi è che il fatto di vivere all’interno di questi orizzonti fortemente qualificati è essenziale all’azione umana e che sottrarsi a questi limiti vorrebbe dire cessare di apparire persone umane integrali, cioè complete (43).

Sapere chi sono vuole dire in un certo senso capire dove sono. La mia identità è definita dagli impegni e dalle identificazioni che costruiscono il quadro e l’orizzonte entro il quale posso cercare di stabilire, caso per caso, che cosa è buono e apprezzabile, che cosa devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere (43).

C’è un legame essenziale che esiste tra identità ed un certo tipo di orientamento. Puoi dire di sapere chi sei se sai orientarti nello spazio morale (44). 

Noi non siamo io nello stesso modo in cui siamo organismi […] Siamo io solo in quanto, quando cerchiamo e troviamo un orientamento al bene, ci muoviamo in un certo spazio problematico (52).

La definizione completa dell’identità di una persona di solito comprende non solo la sua posizione sulle questioni morali o spirituali, ma anche un riferimento a una comunità (54).

La mia tesi è he i beni che definiscono il nostro orientamento spirituale sono quelli in riferimento ai quali noi misureremo il valore della nostra vita (61).

Chi voglia soddisfare il proprio desiderio di pienezza potrà farlo legando la propria vita alla realizzazione di un progetto, a qualche azione eccezionale o cercando di darle un significato straordinario (62).

Noi progettiamo il nostro futuro a partire dalla percezione di quello che siamo diventati, scegliendo all’interno della gamma delle nostre possibilità attuali (67).

Quello che sono è quello che sono diventato (70).

I processi lenti, che si preparano nell’Età moderna, approdano ad una configurazione definitiva nella modernità attraverso le forme di vita materiali e spirituali delle società borghesi e individualiste apparse tra le Rivoluzioni americana e francese di fine Settecento e il nuovo universo delle metropoli ottocentesche.

Tra le fonti dell’identità moderna, Taylor assegna un ruolo particolare alla letteratura.

Il libro di Taylor ci mostra in modo rigoroso come, nel mondo attuale, una discussione approfondita sulla natura e le forme della moralità non può svolgersi senza un riferimento costante alla letteratura.

La valutazione forte è ciò che articola, attraverso le emozioni e il linguaggio che le esprime, l’esperienza del mondo in una molteplicità di livelli non omogenei tra loro e organizzati gerarchicamente. Contro quello che Taylor definisce “l’assunto naturalistico”, queste distinzioni qualitative forti non sono mere proiezioni sul mondo dei nostri impulsi e desideri; esse fungono, invece, da criteri preesistenti al nostro vissuto e, di conseguenza, ci permettono di fissare dei beni e dei fini indipendenti da esso. È la percezione di un bene superiore, realizzabile attraverso le mie azioni, che mi fa ritenere fuorviante il perseguimento di certi desideri ed impulsi.

Come sottolinea Taylor, oggi “un quadro di riferimento condiviso da tutti non esiste più” (11).

“Realizzando la mia natura, io devo definirla, ossia darle una formulazione – e definirla anche in un senso più forte: ossia nel senso che, realizzando questa formulazione, io conferisco alla mia vita una forma definitiva. La vita umana – lungi dal copiare un modello esterno o dall’attuare una formulazione già determinata – rende manifesto un materiale che la manifestazione contribuisce a plasmare.”(15)

La natura non si comporta come una legge universale che l’individuo deve rispecchiare nei suoi atteggiamenti intellettuali e nella sua condotta, bensì come una forza profonda che l’individuo, attraverso un processo interpretativo, traduce in una visione del mondo e in un progetto di vita. In ogni individuo la natura umana si presenta secondo una configurazione unica ed incomparabile, e il nuovo compito etico consiste nella compiuta espressione di tale configurazione. Qui si rende evidente il nesso che il Romanticismo crea tra un’inedita ontologia dell’umano – le differenze individuali sono aspetti essenziali nella determinazione della nostra umanità – e una conseguente prospettiva etica – tali aspetti devono manifestarsi nel progetto di vita personale.

            Il nodo concettuale più affascinante e per certi versi più oscuro della tesi espressivista si presenta nell’articolazione tra concezione della natura umana e compito etico. Non è più l’ideale esterno, prodotto dalla ragione distaccata, ad intervenire sulla mia natura, plasmandola e uniformandola a un modello morale condiviso. L’ideale nasce ora dal libero sviluppo di questa mia natura particolare, anche se ciò comporterà il rigetto di tutti i modelli che mi sono offerti dalla tradizione. Per chiarire questo punto Taylor fa ricorso al concetto di “autoarticolazione”. Esso indica che la mia natura non è qualcosa di dato una volta per tutte, né un programma che agisca in me in modo lineare e necessario.

La valorizzazione della svolta espressivista nella modernità ha un ruolo fondamentale nell’argomentazione filosofica di Taylor. Per lui, l’unica possibilità di dare senso al sistema di valori promosso dal liberalismo occidentale, basato sulla difesa di diritti umani universali e sulla giustizia procedurale, consiste nell’esplicitare le premesse antropologiche su cui quel sistema si basa. Queste premesse implicano il riconoscimento di “fonti morali”, ossia di beni nel senso aristotelico del termine, che vanno perseguiti per se stessi. Il rispetto della vita umana e dei diritti fondamentali delle persone non può basarsi su una generica benevolenza verso i miei simili, ma deve fare leva su una concezione dell’integrità della vita umana e dei beni che rappresentano per essa esperienze quali l’autonomia, il possesso, l’espressione di sé.


Alla base del presente lavoro vi è dunque la distinzione tra dimensioni ontologiche e dimensioni storiche nella trattazione tayloriana dell'essere dell'uomo: l'immutabile natura umana, da una parte, e la natura del sé o dell'identità moderna, dall'altra, sono i due poli attorno ai quali ci si muove costantemente in questa ricostruzione del pensiero tayloriano

tutti i capitoli presentano, nel proprio contesto, la polemica che l'autore perpetuamente svolge contro quello che viene denominato, lungo tutto l'arco della sua produzione filosofica, "il naturalismo".

Più nello specifico, il primo capitolo della tesi è inevitabilmente dedicato all'impostazione globale delle riflessioni di Taylor: in esso viene indicata, in linea generale, la dialettica di identità e differenza della natura umana all'opera nella sua antropologia e viene presentato il genere di strategia argomentativa che l'autore ritiene possa sorreggere tale dialettica; in particolare, il problema del rapporto che intercorre nelle riflessioni tayloriane tra verità perenni e caratteristiche contingenti e storiche dell'essere dell'uomo viene dilucidato in riferimento a Sources of the Self, opera che, per la sua stessa configurazione, richiama continuamente l'attenzione del lettore su questo punto, evidenziando sin dall'inizio il vincolo profondo che unisce l'antropologia filosofica di Taylor al suo progetto di interpretazione dell'identità moderna.

rapporto corpo-linguaggio-società che si costituisce non soltanto come il tema capitale della filosofia contemporanea, ma anche come il fulcro attorno al quale ruota l'antropologia di questo autore.

Da una parte, quindi, il capitolo contiene una discussione dei tre aspetti essenziali della natura più propria dell'uomo che confluiscono nell'antropologia filosofica di Taylor: tra questi, è il concetto di persona che determina la propria identità orientandosi in uno spazio morale a configurarsi come il contributo teorico più significativo dell'autore, accanto agli altri due aspetti enunciati, ossia il carattere dialogico dell'identità personale e il suo carattere narrativo. In primo luogo, dunque, avere un'identità o essere un sé significa esistere in uno spazio di questioni che hanno a che fare con come si dovrebbe essere, o che ci rapportano a ciò che è buono, a ciò che è giusto, a ciò che si dovrebbe fare. In secondo luogo, la definizione completa dell'identità di una persona comprende, non soltanto la sua posizione sulle questioni morali e spirituali, bensì anche un riferimento a una comunità, e ciò in un duplice senso: affinché l'elaborazione della propria identità possa aver luogo, si rende infatti necessario sia che gli individui siano originariamente inseriti in quelle che Taylor chiama "reti di interlocuzione", sia che venga riconosciuta l'importanza dell'incessante negoziazione con gli altri, nel corso di una vita, della propria identità. Infine, incontriamo il requisito "narrativo" dell'identità, in virtù del quale vi deve essere una sorta di unità a






mercoledì 25 dicembre 2024

OIVD: ESPLORANDO IL DIVINO POSSIBILE

 


LUCIANA PERCOVICH


sul tema

Le società matriarcali prima della Storia, società e visione del sacro



Con questo incontro si conclude, per il momento, il ciclo Esplorando  un divino possibile, iniziato nel gennaio di un anno fa. In questo tempo abbiamo esplorato insieme il difficile rapporto tra religione e parità  di genere, il rischio e le opportunità  dello sciamanesimo femminile, guardato al passato cercando il futuro con le grandi madri e la dea. Quest' ultimo incontro con Luciana Percovich, esperta del settore, consentirà di approfondire le conoscenze sulle società matriarcali della preistoria, seguendo la linea delle ricerche  di Maria Gimbutas. Vorremmo   successivamente riflettere insieme sui temi trattati, sulle esperienze   narrate, su quanto e come ci interrogano nel nostro vivere oggi.


sabato 21 dicembre 2024

ASSOCIAZIONE CULTURALE MORINGA DI TAPIRAMUTA’: UNA STORIA ESEMPLARE

 





Paolo Cugini


Sono trascorsi quasi vent’anni da quando l’Associazione Moringa, fondata a Miguel Calmon per sostenere la biblioteca, si era insediata anche a Tapiramutà. 

Moringa è il nome di una pianta che purifica le acque oltre ad avere proprietà antiossidanti che possono aiutare a regolare lo stress ossidativo, riducendo i livelli di zucchero nel sangue e a proteggere le cellule del corpo. Quando con Gianluca, all’inizio della nostra avventura brasiliana, eravamo alla ricerca di un nome da dare all’associazione culturale che stavamo formando, scoprendo la pianta moringa non abbiamo avuto più dubbi: l’associazione si chiamerà moringa. 

L’idea che stava alla base del progetto moringa era quello di fornire strumenti, soprattutto ai giovani che incontravamo provenienti dai ceti più poveri, per poter costruire il proprio futuro. Il primo progetto è stato quello di una biblioteca, nata s richiesta dei giovani che incontravamo. Attorno allo spazio della biblioteca, costruito sistemando un edificio della parrocchia di Miguel Calmon, sorsero molti progetti di tipo culturale, come il corso in preparazione all’accesso all’università, assieme ad altri corsi, alcuni fatti in collaborazione con l’università della vicina città di Jacobina. 

Prof Luzia, coordenadora del progetto Moringa a Tapiramutà


È attraverso l’associazione Moringa che è stato possibile attivare una seria significativa di corsi di formazione politica e di coscientizzazione che ha inciso profondamente in tutta la regione. Da queste esperienze sono sorti i movimenti fede e politica a Miguel Calmo e Tapiramutà e il movimento Moringa a pintadas. 

Questa idea culturale ha portato frutti diversi nelle città in cui è stata piantata. A Pintadas e Ruy Barbosa, per esempio, non è andata molto bene e si è estinta. Il luogo in cui l’associazione Moringa ha sino ad ora, portato più frutti è stata Tapiramutà. Attorno al progetto biblioteca, infatti, a Tapiramutà si sono sviluppato alcuni progetti direzionati ai minori di strada, in collaborazione con la parrocchia e, in modo speciale, alla pastorale degli adolescenti. 

Un'azione del Movimento fede e politica di tapiramutà nella città di Miguel Calmon


Una chiave di svolta della Moringa è stata la scoperta dell’organismo che elargisce fondi dello Stato della Bahia alle entità che elaborano progetti sociali per i ceti più poveri della società. Questo contatto ha prodotto nel tempo la possibilità di realizzare corsi professionalizzanti di varia natura: muratori, elettricisti, parrucchieri, ecc. Il contatto con lo Stato è stato cercato. Questo è un punto importante. Troppo spesso, infatti, i progetti messi in piedi in terra di missione, da missionari italiani, sono finiti quando il missionario è tornato nella propria patria, anche perché i progetti attivati solitamente dipendono dai soldi provenienti dall’Italia. Con Gianluca, sin dall’inizi, avevamo le idee chiare, anche grazie ad alcune letture che ci avevano chiarite le idee. 

Elenildes, prima a sinistra e Rosana, terza da sinistra: due protagoniste di questa stupenda storia
La ragazza tra le due è l'attuale bibliotecaria (non so il nome)


Il primo l’ho letto durante il primo viaggio Milano Salvador: Il banchiere dei poveri di Yunus, premio per la pace nl 2006. L’ho letto perché in una recensione lo indicava come un libro fondamentale per i missionari. Yunus insegna come attivare il microcredito in zone di povertà. I soldi non si regalano, ma devono essere investiti per produrre. Si tratta di mettere le persone povere in condizioni di uscire dalla povertà imparando a lavorare, produrre e uscire da una mentalità di elemosina.

In questa direzione va anche il secondo libro che ci aveva aperto gli occhi: La carità che uccide, dell’economista zambiana Dambisa Moyo. Dambisa sostiene che chi ha distrutto l’Africa, riducendo gli africani alla povertà sono stati gli aiuti umanitari. Può sembrare un paradosso, ma non è. Infatti, la Moyo, con dati alla mano, sostiene che i miliardi di dollari elargiti dalle grandi potenze e da entità beneficenti, sono finiti nelle tasche dei politici corrotti dei paesi africani. Questi aiuti, nel tempo, hanno dunque contribuito a mantenere al potere da politici corrotti e dittatori senza scrupoli, impedendo agli africani di zelare del proprio territorio. 

Un momento della confraternizzazione


Dopo solo tre anni dalla fondazione dell’Associazione Moringa Gianluca aveva lasciato non solo la direzione, ma la stessa associazione. Io l’ho seguito poco dopo. L’idea alla base di questa scelta era nell’ordine di ciò che avevamo letto e meditato: lasciare che il popolo brasiliano gestisca i progetti creati da loro indicazioni specifiche e, soprattutto, non creare nuove forme di dipendenza coloniale. 

A Ruy Barbosa e Pintadas l’esperienza è durata poco. Nonostante le apparenze e i tanti progetti realizzati, non interessava più di tanto. A Miguel Calmon l’esperienza è ancora attiva, soprattutto legata alla biblioteca. Attualmente si trova in una fase di stallo e avrebbe bisogno di una rinnovata, soprattutto nel personale che gestisce l’esperienza.

Differente è il discorso di Tapiramutà. In questa città chi ha tenuto le redini sono un gruppo di persone, quasi esclusivamente donne, che hanno sposato la causa, ritenendo non solo importante il progetto, ma necessario per la propria città. Tra queste donne ce ne sono alcune di condizioni economiche significative e con un atteggiamento critico con la classe politica. Come diceva il domenicano Frei Betto, uno dei protagonisti del cammino delle Comunità ecclesiali brasiliane: l’opzione preferenziale per poveri la fa la classe media e, senza di lei, è difficile provocare cambiamenti radicali. E così è stato a Tapiramutà.

Oltre ad attivare un contatto con il comune per pagare gli stipendi dei funzionari dei progetti, queste donne hanno saputo coinvolgere molte persone – circa ottanta – per sostenere il progetto, anche economicamente. Sono ormai vent’anni che questo gruppo di persone accompagna i progetti, ne chiude alcuni, ne attiva altri e Sin dall’inizio abbiamo sempre cercato d’inserire i vari progetti in collaborazione con le pastorali sociali delle parrocchie e, di conseguenza, utilizzando i suoi spazi. L’associazione, col il contributo dei suoi membri, si impegna a mantenere in ordine e a ristrutturare gli spazi che utilizza. 



In questi giorni ho ricevuto le foto della festa di confraternizzazione Natalina dell’associazione Moringa presente a Tapiramutà. Molte persone in festa, felici di contribuire nella realizzazione di un sogno: aiutare i poveri a mettersi in piedi e a camminare con le proprie gambe, senza sperare tutta la vita di ricevere l’elemosina. Tra coloro che in questi anni sono passati dall’avventura ACMOR (Associazione Culturale Moringa) ci sono muratori, elettricisti, parrucchieri, ma anche ingegneri, architetti, farmacisti e addirittura due medici. La soddisfazione più grande per me è che in questo progetto c’ero solo all’inizio: il resto ci hanno pensato loro. 


lunedì 9 dicembre 2024

UNA BELLA INIZIATIVA DEGLI AMICI E AMICHE BOLOGNESI

 


E' stato l'amico don Marco Ceccarelli, parroco di nove parrocchie nella bassa bolognese, tra le quali ci sono anche le quattro che ho accompagnato per tre anni prima di partire per Manaus, vale dire: Dodici Morelli, Bevilacqua, Galeazza e Palata Pepoli, a lanciare questa iniziativa a sostegno dei progetti sociali che stiamo realizzando nella parrocchia san Vincenzo de Paoli, che accompagno da un anno. 

Ringrazio già ora tutti coloro che vorranno aderire all'iniziativa caritativa. 




INCONTRO EGLI SPOSI CON CRISTO - Un'esperienza tipicamente brasiliana

 
Un momento dell'incontro


Paolo Cugini

Si è svolto in questo fine settimana – da venerdì 6 a domenica 8 dicembre – nella parrocchia di san Vincenzo de Paolo che accompagno da un anno, il primo ECC, incontro degli sposi con Cristo. Sono tre giorni intensi fatti di preghiera, conferenze, testimonianze, liturgie tutto sul tema della vita matrimoniale, del valore della famiglia e del sacramento del matrimonio.

Della parrocchia hanno aderito alla ‘iniziativa dodici coppie. Prima della messa di chiusura dell’incontro, le coppie partecipanti, hanno avuto modo di conoscere le otre cinquanta coppie della parrocchia vicina di san Giorgio, che è venuta a montare questo incontro, aiutandoci, anche perché san Giorgio di ECC ne ha già fatti 35. 

L’obiettivo di questa esperienza consiste nell’offrire alle coppie partecipanti una possibilità di fermarsi tre giorni con il proprio partner per riflettere sul proprio cammino di coppia, non solo ascoltando e pregando, ma anche guardandosi in faccia parlando tra di loro. Spesso la vita di coppia è così intensa che non lascia spazio a momenti di confronto, o di spiritualità tipica della coppia e, a causa di questo, spesso ci si perde di vista e si diventa come estranei dentro la propria casa. 



Ho conosciuto questa esperienza, inventata in Brasile negli anni ’80 del secolo scorso, nella prima parrocchia che ho accompagnato nello Stato della Bahia, vale a dire Miguel Calmon. Lì incontrai più di cento coppie di sposi che avevano partecipato alla tre giorni di incontri e che, diversi di loro, si erano inseriti nei vari servizi pastorali della parrocchia. Il percorso che inizia con i tre giorni di incontro continua, poi, con un incontro settimanale in gruppetti di coppie di sposi. Dal punto divista formativo si tratta di un percorso molto intenso e profondo, che ha un grande valore non solo per le famiglie degli sposi che vi partecipano, ma anche per la comunità parrocchiale. 




domenica 8 dicembre 2024

IL PROGETTO SANT' IGNAZIO NEL QUARTIERE COMPENSA DI MANAUS

 

La cappella della comunità Santo Ignazio
La gente del posto deposita lì i rifiuti
ho provato a dire qualcosa, ma...



Paolo Cugini

Parlare del quartiere Compensa a Manaus è sinonimo di traffico, di aree dominate dai trafficanti con i fucili e i mitra spianati. Non è un’esagerazione. Proprio due domeniche fa, verso le 8,30 del mattino, quando dalla comunità di Rosario mi trasferisco alla comunità di san Sebastiano per celebrare un’altra messa, passando per la comunità di sant’Ignazio di Loyola, davanti ad uno dei due bar situati ai lati della chiesetta, c’era un tizio che faceva il fenomeno con n mitra in mano. Chiaramente passando la notte a bere e a strafarsi di droga si arriva all’alba un po' sfatti e si cominciano a fare delle cose strane. Mentre arrivavo sul posto è giunta la polizia, quella dei corpi speciali, che in poco tempo ha sistemato le cose, alla loro maniera e cioè, botte da orbi. 

Le viuzze della comunità santo Ignazio sono sempre piene di gente. Anche durante la settimana, a qualsiasi ora, si trova gente sulla strada. Il top dei top è il fine settimana con i bar affollati, gente che davanti a casa si organizza con casse musicali a tutto volume, tavolini per mangiare, bere e stare in compagnia. È una scena già vista in Bahia. Il fine settimana è sacro: ci si ferma per stare con i famigliari, gli amici, mangiare un po' di carne, bere un bicchierino (a dire il vero più di uno) ascoltare musica, fare due risate e contarsela. Se poi alla domenica c’è il Flamengo che gioca, la festa diventa una vera follia. Un mese fa ero in macchina per celebrare la messa nella comunità di Cristo Re, in una zona ancora più calda dal punto di vista del dominio dei trafficanti e, quando sono entrato nella stradina per arrivare alla capellina, ho trovato lo spazio intasato da sedie e tavolini con la gente che stava assistendo alla partita del Flamengo contro il Vasco, vale a dire un classico. Mi sono fermato e, quando mi sono affacciato al finestrino per chiedere informazioni, è arrivato un tizio che, con calma, mi ha indicato un’altra strada per arrivare alla capellina. Di spostare le sedie e i tavolini neanche pensarci. E allora, anche se mancavano 15 metri per arrivare alla capellina,  ho obbedito prontamente per evitare conseguenze negative. 

Una strada del quartiere


La comunità cattolica di sant’Ignazio è piccola numericamente. A messa si contano una cinquantina di persone che arrivano a settanta, ottanta nei giorni di feste particolari. È piccola, ma molto attiva su molti fronti. C’è un bel gruppo di leader che si occupano dei vari settori della pastorale. C’è anche un bel gruppo di giovani che in realtà sono adolescenti. Come tutte le sette comunità della parrocchia, anche questa è stata fondata dai gesuiti e, anche santo Ignazio vive lo stesso problema: chiesetta piccola, stretta, senza possibilità di ampliarla perché circondata da altre case, che sono una attaccata all’altra. Il consiglio pastorale della comunità ha deciso di organizzare eventi per raccogliere fondi e costruire un soffitto di cemento nella cappella per costruire un piano dove poter sistemare alcune stanze (è questo il progetto). La comunità è molto attiva sul piano della carità. Organizza momenti in cui offre pizza (uno dei componenti, che è anche il chitarrista, è pizzaiolo) e altri cibi per le famiglie più povere. Ogni tanto organizza una serata in cui si vende a basso prezzo il pesce. C’è poi una piccola equipe che, ogni settimana, visita le famiglie più bisognose e, su ciò che vede nella visita, avverte la comunità. Circa due mesi fa la comunità ha organizzato un lavoro di gruppo per sistemare la casa (si fa per dire) di una famiglia molto numerosa che stava cadendo a pezzi.

Una delle stradine interne del quartiere
Di notte è sconsigliato passarci (in queste stradine)

 

Quando dall’Italia arrivano offerte, con una piccola equipe della Caritas decidiamo a quale comunità dare un contributo. Sarà il consiglio pastorale della comunità a decidere come utilizzare la donazione. Loro sono abituati a vivere con ciò che hanno. Se non arriva niente, pazienza. Se arriva qualcosa, ringraziano felici. 

mercoledì 4 dicembre 2024

E ORA CHE FARE?

 






Paolo Cugini


È molto bello vedere giovani e adulti attorno ad un tavolo discutere sui problemi sociali del proprio quartiere. 

È successo la sera di sabato 30 di novembre. L’obiettivo è quello di capire come dare continuità al lavoro di coscientizzazione realizzato quest’anno, quando siamo passati di casa in casa in uno dei quartieri più pesanti di Manaus per distribuire il testo della legge 9840, che spiega il crimine della corruzione elettorale. Sono stati mesi intensi culminati nel quartiere più nobile di Manaus – Ponta Negra – dove, oltre a distribuire i volantini della legge, abbiamo coinvolto i passanti con il teatro di strada realizzato da un gruppo di adolescenti.



Come, dunque, dare continuità a questo lavoro di sensibilizzazione politico e sociale, come non abbassare la guardia e mantenere alta la tensione emotiva su questi temi?

L’assemblea del Movimento Fede e Cittadinanza ha avuto proprio questo obiettivo: pensare a forme concrete di azione sociale, ad azioni che possano fiscalizzare il lavoro dei politici eletti nelle ultime elezioni municipali.

La prima idea condivisa nei gruppi consiste nel presidiare settimanalmente in piccoli gruppi, la Camera degli assessori comunali. È un modo per manifestare la presenza dei cittadini quando si tratta di prendere decisioni che li riguardano. Abbiamo deciso che inizieremo questa azione il primo di gennaio 2025, giorno in cui gli assessori eletti nelle ultime elezioni Municipali, entreranno nella Camera per la prima volta. 

Altra idea importante emersa è quella di essere presenti alla Camera nei mesi in cui si dibatterà il bilancio per gli anni 2006-2008, vale a dire da luglio a novembre del 2025. Per questo motivo abbiamo raccolto una serie di proposte concrete da presentare ad alcuni assessori che si sono dimostrati interessati ad aiutarci in questo lavoro di coscientizzazione. 





martedì 3 dicembre 2024

ESPANSIONE





 Paolo Cugini


Ce lo hanno spiegato gli astrofisici che l’universo, è molto lontano da poter essere definito e compreso con sistemi rigidi e fissi, perché è in continuo movimento: si espande. Dopo l’esplosione iniziale, secondo la teoria del big ben, l’universo non ha mia smesso di espandersi. Questa è la natura della realtà: un costante movimento di espansione che. tradotto in filosofia significa che, chi prende il cammino dell’elaborazione di sistemi rigidi, percorre una strada destinata a fallire. Ciò che è rigido, in un universo in espansione, si rompe. Questa è la triste conclusione della storia della narrazione Occidentale della realtà. Il suo fallimento è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. Le reiterate crisi del sistema economico sono il sintomo di un’interpretazione sbagliata, che si è imposta solamente con la forza, ma la forza non determina l’autenticità di una verità. Lo stesso vale per il cambiamento climatico in atto, frutto dell’antropoceno, di quel mondo creato ad immagine e somiglianza dell’uomo occidentale che per fortuna non è Dio. Ciò che è rigido in un universo in movimento si spezza. Questo discorso ci porta a comprendere che la realtà, così come si manifesta e come la scienza ci descrive, non esige un pensiero che si lascia guidare dall’istinto di sopravvivenza umano, che tende a sistemare le cose, ad irrigidirle per poterle dominare, ma dovrebbe andare esattamente nella direzione contraria. È il cammino dell’ascolto che l’energia dell’universo ci suggerisce. 

Cammini di ascolto, che diventano cammini di scoperta dell’ignoto, di ciò che possiamo solo apprendere. In questo cammino scopriamo i popoli indigeni con una visione del mondo all’opposto di quella occidentale. Mentre, infatti, sin dai primordi dell’elaborazione del pensiero logico filosofico l’uomo si è sempre considerato al centro del mondo chiuso, separato dal resto, che considera come a sua disposizione, ben diversa è la prospettiva della cultura indigena in cui l’uomo e la donna si sentono parte del cosmo. Visioni del mondo diverse che producono cammini diversi, modi altri di stare al mondo. Quando ci sentiamo parte di qualcosa la proteggiamo, ci prendiamo cura, ci interessiamo. Al contrario, quando la realtà è percepita esterna a noi, ci interessa nella misura in cui ci può essere utile. Concezioni del mondo che aprono orizzonti e prospettive diverse, che lasciano un segno profondo nella storia, nel bene e nel male. Basterebbe rileggersi le pagine dell’astronomia aristotelica nel De Coelo o nella Fisica, per capire in che modo si è mosso Aristotele, uno dei protagonisti della formazione del pensiero Occidentale. Un mondo ordinato e finito, strutturato su 55 sfere, con al centro la terra. Il movimento non poteva essere che sferico, perché la sfera, nella mentalità dei primi filosofi è la forma più perfetta. L’universo è poi finito, perché ha un centro, vale a dire il centro della terra e, nella logica aristotelica, un copro con un centro non può essere che finito. Un universo così fatto può essere gestito dalla mente umana, può essere controllato e, soprattutto, non genera sorprese. L’uomo occidentale si è pensato come il centro di un universo finito con movimenti circolari, perfetti. Dal caos disordinato si è passati all’ordine del cosmo. Come sappiamo, la Chiesa adottò questo modello, che fu assimilato nel sistema teologico di San Tommaso, che utilizzò il sistema filosofico aristotelico per sistematizzare in modo chiaro e ordinato, i principali misteri della rivelazione biblica. C’è un bisogno di ordine che si è impresso nel cammino della cultura Occidentale, bisogno che ha modellato nel tempo tutte le forme del sapere, compresa quella religiosa. In questo cammino di passaggio dal caos all’ordine, la realtà è stata compresa e ordinata a partire da principi apriori. Il mondo circostante all’uomo è entrato nel sistema pensato dall’uomo e ha risposto alle finalità indicate dalla cultura. C’è, dunque, una relazione di forza che guida il percorso della cultura Occidentale nel suo rapporto con un mondo, che non è compreso se non nella misura in cui è interpretato a partire da schemi precompressivi. Ancora una volta, è possibile leggere in questa prospettiva la sofferenza del pianeta terra, violentato per scoli da una cultura che, prima di mettersi in ascolto della realtà, l’ha incasellata e forzata ad entrare in schemi predefiniti. 

Non tutte le culture hanno percorso lo stesso cammino. Rimanendo sul terreno dei popoli indigeni citati poco sopra, la loro visione del mondo, che non è mossa da esigenze di ordine e di controllo, ma dalla percezione di essere parte del Tutto, ha prodotto un modo diverso di abitare la terra. Una recente ricerca di un gruppo di antropologi, archeologi e ricercatori brasiliani ha individuato, con i nuovi strumenti offerti dalla tecnologia, che nel sottosuolo della così detta regione panamazzonica, che coinvolge nove Paesi, esistono circa diecimila siti archeologici, segno di una regione altamente abitata, a differenza delle stime fatte dalle precedenti ricerche, dettate spesso da motivi ideologici e politici. La caratteristica che ha permesso agli archeologi d’identificare questi siti è la biodiversità. Il dato sorprendente, infatti, è che la presenza dei popoli indigeni nei secoli ha prodotto la protezione e lo sviluppo della biodiversità nel territorio abitato, esattamente il contrario di ciò che è avvenuto in Occidente in cui, dove sono arrivati gli uomini, hanno prodotto non solo morte e distruzione di culture altre, ma anche il deterioramento delle biodiversità locali. Ancora una volta diviene chiaro che, il nostro modo di pensare il mondo e la realtà circostante, determina uno stile di vita, un modo di abitare la realtà. Non si tratta di contrapporre culture o di fare l’elogio di alcune e disprezzare altre, ma semplicemente porre in evidenza la diversità di cammini culturali e l’approccio differente al mondo circostante da essi provocato. C’è chi si è divertito ad inventare sistemi, a scarabocchiare dottrine, a forzare la realtà per farla stare dentro alle proprie elucubrazioni da tavolino, e chi, invece, ha passato il tempo a contatto con la natura, cercando di vivere in armonia, percependone una certa sacralità, proteggendola e rispettandola. Cammini diversi che hanno prodotto mentalità e società diverse.