Paolo Cugini
Una
delle scelte che diverse diocesi stanno attuando per far fronte alla scarsità
dei preti è quella di accorpare alcune parrocchie con uno o due preti alla
guida. In questo modo si ritiene di garantire un minimo di organizzazione e,
soprattutto, la messa domenicale. Per agevolare il lavoro pastorale queste
nuove realtà pastorali stanno centralizzando alcuni momenti formativi e
aggregativi. Incontri di giovani, catechesi, formazione per adulti vengono
realizzati nella parrocchia più grande, lasciando le piccole parrocchie
sguarnite di attività pastorali e garantite, al massimo, della messa
domenicale. Questo modo di procedere è la conferma di quanto dicevamo poco
sopra: il mondo, il contesto culturale cambia, ma il modello pastorale
assolutamente no, viene riproposto su scala maggiore. La strategia pastorale
delle unità pastorali, che poi si trasformano nei “parrocchioni”, rivela il
modello ecclesiologico di fondo che identifica la parrocchia con il prete: dove
c’è il prete, c’è la comunità. In questo modo, quello che sta avvenendo da
varie parti, è la lenta scomparsa delle comunità parrocchiali più piccole, che
vengono, per così dire, sacrificate in favore di quelle più grosse. Parrocchie
con secoli di tradizione ecclesiale stanno seriamente rischiando di scomparire,
anzi, alcune sono già scomparse. Eppure, basterebbe guardarsi intorno e
confrontarsi con modelli ecclesiali messi in atto in zone del mondo in cui il
cammino pastorale è sorto in un contesto segnato dalla scarsità del clero
locale. America Latina, Asia e Africa sono già passati per questa situazione.
Parlando di ciò che conosco, in Brasile le parrocchie sono organizzate come
reti di comunità, in cui il parroco, oltre a visitare periodicamente le
comunità per i sacramenti, anima i percorsi formativi per mettere i laici in
grado di servire la comunità. Riportare questo modello nella nostra realtà,
significherebbe dare più spazio ai laici e laiche, dare loro fiducia, affidando
la celebrazione della Parola domenicale quando è necessario, la celebrazione di
esequie, oltre ad altri servizi. È nella comunità e dai membri della comunità
che dovrebbe avvenire la trasmissione della fede. Qui si giunge a toccare il
cuore del problema. Se è vero, come la Chiesa sostiene sin dal primo secolo,
che è l’eucarestia che fa la Chiesa, occorre una proposta che metta in
condizione i fedeli di cibarsi dell’eucarestia. Se ci sono sempre meno preti,
si potrebbe proporre, come del resto è già stato proposto durante il Sinodo per
l’Amazzonia[1],
di ordinare viri probati, persone stimate della comunità per poter
garantire l’alimento eucaristico. Sappiamo com’è andata finire. In ogni modo,
mentre aspettiamo che la Chiesa maturi questa proposta, si può prendere spunto
dal cammino delle Comunità Ecclesiali di Base per garantire alla domenica una
celebrazione della Parola con la distribuzione dell’eucarestia. In diversi
luoghi questo modello è già attuato anche in Italia, anche se trova ancora
notevoli resistenze.
[1]
Questo è il passaggio del
testo del Documento Finale in cui viene fatta la proposta: Considerando
che la legittima diversità non nuoce alla comunione e all'unità della Chiesa,
ma la manifesta e ne è al servizio (cfr. LG 13; OE 6), come
testimonia la pluralità dei riti e delle discipline esistenti, proponiamo che,
nel quadro di Lumen Gentium 26, l’autorità competente
stabilisca criteri e disposizioni per ordinare sacerdoti uomini idonei e
riconosciuti dalla comunità, i quali, pur avendo una famiglia legittimamente
costituita e stabile, abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una
formazione adeguata per il presbiterato al fine di sostenere la vita della
comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione
dei Sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica. A questo
proposito, alcuni si sono espressi a favore di un approccio universale
all'argomento (Documento Finale del Sinodo per l’Amazzonia, 111).
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