martedì 20 settembre 2016

PRETI NUOVI PER IL MONDO NUOVO





RIFLESSIONI SUL MINISTERO PRESBITERALE NELL'EPOCA DELLE UNITA’ PASTORALI

Paolo Cugini

Siamo abituati a vivere il ministero come eroi. Ci mettiamo davanti alla comunità per guidarla con le nostre capacità. Del resto siamo stati formati così. C’è tutta una teologia dell’ordine sacro che ci diceva della potenza del sacramento, della diversità ontologica che provocava in coloro che la ricevevano e ci abbiamo sempre creduto. C’era tutta una spiritualità che faceva leva su questa diversità spingendo il sacerdote giorno dopo giorno in una zona separata, distante dal popolo. Era la spiritualità del prete mangiato, del rapporto verticale con Dio, della vita totalmente immersa nel mistero, come esseri separati dal mondo. La talare nera voleva significare proprio questo e cioè uno stato di permanente morte al mondo, di esclusione e ripudio dei piaceri della vita come segno di una ricerca esclusiva di Dio.  Siamo stati abituati a porci dinnanzi al popolo per guidarlo verso il Regno, con la consapevolezza che era nostro compito farlo in virtù dei poteri ricevuti, delle scelte fatte, della spiritualità ascetica che ci contraddistingueva.  Per questo, la pastorale è sempre stata compito nostro, del prete. I laici dovevano stare al loro posto, vale a dire, non potevano impicciarsi di cose che non li riguardavano. Come facevano, infatti, a capire le cose di Dio se erano per natura e costituzione immersi fino al collo negli affari del mondo? La parrocchia ha vissuto per secoli su questo separazione precisa tra clero e laici. Del resto c’era un’ecclesiologia che sosteneva questa impostazione. Non solo un’ecclesiologia, ma anche un clima culturale che permetteva alla chiesa di controllare il territorio in modo capillare con il sistema parrocchiale. La vocazione sacerdotale rispondeva all’esigenza culturale ed ecclesiologica. Erano così tanti i ragazzi desiderosi di diventare sacerdoti sino a qualche decennio fa che, un giorno, il Vescovo di una diocesi, visitando il seminario disse con i suoi collaboratori: “Dove li metteremo tutti questi giovani preti?”.  

In pochissimi decenni i tempi sono cambiati. I preti sono sempre meno e, molti di questi, sono anziani. Il nuovo contesto culturale sempre più secolarizzato, ha influito nel processo di progressiva scristianizzazione dell’Occidente. I seminari sono sempre più vuoti e molte parrocchie non hanno più un sacerdote fisso. S’iniziano a pensare nuove strategie pastorali per supplire alla scarsità dei sacerdoti. Ci sono vescovi che per mantenere lo schema del prete in ogni parrocchia importa sacerdoti dai paesi dove questi sono in abbondanza. Altri, più coraggiosi, tentano di proporre cammini nuovi, tra i quali le unità pastorali. Il problema che si pone è sempre lo stesso: come controllare il territorio? Come essere presenti sul territorio? La scarsità numerica del clero provoca nuove riflessioni. Si comincia a rivolgere l’attenzione ai laici, a riflettere che il territorio può essere controllato solamente con un loro diretto coinvolgimento. Il nuovo contesto culturale provoca una nuova ecclesiologia, un nuovo modo d’intendere il rapporto tra clero e laici. La nuova ecclesiologia esige anche un nuovo modo d’intendere il ruolo del presbitero. Se, infatti, nell’epoca della cristianità la competenza specifica del presbitero derivava dalla sua coscienza di diversità dal mondo, dalla forza derivata dal sacramento che lo rendeva un essere tutto speciale e, quindi, isolato dal resto del mondo, ora c’è bisogno di qualcosa di nuovo. Dovendo collaborare con i laici per garantire l’evangelizzazione su territori sempre più vasti, la competenza maggiore che un presbitero può avere in un simile contesto è la capacità di lavorare in gruppo, di valorizzare le persone che ha attorno. Dalla dimensione verticale, che tuttavia rimane ancora presente anche se attenuata, si passa a valorizzare la dimensione orizzontale, la capacità empatica, dialogica, collaborativa. Nel nuovo contesto che si apre il presbitero non potrà più permettersi il lusso di essere un uomo separato dal mondo, una sorta di monaco, ma ben inserito nel mondo: uomo tra gli uomini e le donne.

È molto probabile che in questo contesto lo stesso celibato non sarà più il segno caratteristico del presbitero. Le capacità relazionali richieste dal nuovo contesto culturale, maturano molto di più all’interno di una relazione di coppia e famigliare, che nel chiuso di una canonica. La stessa spiritualità che dovrà contraddistinguere la vita nel presbitero nel nuovo contesto pastorale e culturale dovrà per forza cambiare. Non potrà più essere quella dell’uomo mangiato, divorato dai suoi parrocchiani, ma quella dell’uomo che collabora con loro in un progetto unico. Pensare e agire insieme verso un unico obiettivo esige spiritualità e competenze molto differenti di colui che si sente investito da un potere unico e da una missione da portare avanti da solo. Più che di preti eroi con poteri paranormali, nel nuovo contesto culturale ci sarà bisogno di presbiteri che hanno chiara la coscienza che la chiesa non è loro e che non sono stati chiamati a salvare nessuno: ci ha già pensato Cristo una volta per tutte. Certamente nelle comunità bisognerà con calma e pazienza spiegare a certi laici amanti dei preti eroi che i tempi sono cambiati e che, di conseguenza, anche la chiesa sta cambiando. Ce la possiamo fare. 

Nessun commento:

Posta un commento