RIFLESSIONI SUL MINISTERO PRESBITERALE NELL'EPOCA DELLE UNITA’ PASTORALI
Paolo
Cugini
Siamo abituati a
vivere il ministero come eroi. Ci mettiamo davanti alla comunità per guidarla
con le nostre capacità. Del resto siamo stati formati così. C’è tutta una
teologia dell’ordine sacro che ci diceva della potenza del sacramento, della
diversità ontologica che provocava in coloro che la ricevevano e ci abbiamo
sempre creduto. C’era tutta una spiritualità che faceva leva su questa
diversità spingendo il sacerdote giorno dopo giorno in una zona separata,
distante dal popolo. Era la spiritualità del prete mangiato, del rapporto
verticale con Dio, della vita totalmente immersa nel mistero, come esseri
separati dal mondo. La talare nera voleva significare proprio questo e cioè uno
stato di permanente morte al mondo, di esclusione e ripudio dei piaceri della
vita come segno di una ricerca esclusiva di Dio. Siamo stati abituati a porci dinnanzi al
popolo per guidarlo verso il Regno, con la consapevolezza che era nostro
compito farlo in virtù dei poteri ricevuti, delle scelte fatte, della
spiritualità ascetica che ci contraddistingueva. Per questo, la pastorale è sempre stata
compito nostro, del prete. I laici dovevano stare al loro posto, vale a dire,
non potevano impicciarsi di cose che non li riguardavano. Come facevano,
infatti, a capire le cose di Dio se erano per natura e costituzione immersi
fino al collo negli affari del mondo? La parrocchia ha vissuto per secoli su
questo separazione precisa tra clero e laici. Del resto c’era un’ecclesiologia
che sosteneva questa impostazione. Non solo un’ecclesiologia, ma anche un clima
culturale che permetteva alla chiesa di controllare il territorio in modo
capillare con il sistema parrocchiale. La vocazione sacerdotale rispondeva
all’esigenza culturale ed ecclesiologica. Erano così tanti i ragazzi desiderosi
di diventare sacerdoti sino a qualche decennio fa che, un giorno, il Vescovo di
una diocesi, visitando il seminario disse con i suoi collaboratori: “Dove li metteremo tutti questi giovani
preti?”.
In pochissimi
decenni i tempi sono cambiati. I preti sono sempre meno e, molti di questi,
sono anziani. Il nuovo contesto culturale sempre più secolarizzato, ha influito
nel processo di progressiva scristianizzazione dell’Occidente. I seminari sono
sempre più vuoti e molte parrocchie non hanno più un sacerdote fisso.
S’iniziano a pensare nuove strategie pastorali per supplire alla scarsità dei
sacerdoti. Ci sono vescovi che per mantenere lo schema del prete in ogni
parrocchia importa sacerdoti dai paesi dove questi sono in abbondanza. Altri,
più coraggiosi, tentano di proporre cammini nuovi, tra i quali le unità
pastorali. Il problema che si pone è sempre lo stesso: come controllare il
territorio? Come essere presenti sul territorio? La scarsità numerica del clero
provoca nuove riflessioni. Si comincia a rivolgere l’attenzione ai laici, a
riflettere che il territorio può essere controllato solamente con un loro
diretto coinvolgimento. Il nuovo contesto culturale provoca una nuova ecclesiologia,
un nuovo modo d’intendere il rapporto tra clero e laici. La nuova ecclesiologia
esige anche un nuovo modo d’intendere il ruolo del presbitero. Se, infatti,
nell’epoca della cristianità la competenza specifica del presbitero derivava
dalla sua coscienza di diversità dal mondo, dalla forza derivata dal sacramento
che lo rendeva un essere tutto speciale e, quindi, isolato dal resto del mondo,
ora c’è bisogno di qualcosa di nuovo. Dovendo collaborare con i laici per
garantire l’evangelizzazione su territori sempre più vasti, la competenza
maggiore che un presbitero può avere in un simile contesto è la capacità di
lavorare in gruppo, di valorizzare le persone che ha attorno. Dalla dimensione
verticale, che tuttavia rimane ancora presente anche se attenuata, si passa a
valorizzare la dimensione orizzontale, la capacità empatica, dialogica,
collaborativa. Nel nuovo contesto che si apre il presbitero non potrà più
permettersi il lusso di essere un uomo separato dal mondo, una sorta di monaco,
ma ben inserito nel mondo: uomo tra gli uomini e le donne.
È molto
probabile che in questo contesto lo stesso celibato non sarà più il segno
caratteristico del presbitero. Le capacità relazionali richieste dal nuovo
contesto culturale, maturano molto di più all’interno di una relazione di
coppia e famigliare, che nel chiuso di una canonica. La stessa spiritualità che
dovrà contraddistinguere la vita nel presbitero nel nuovo contesto pastorale e
culturale dovrà per forza cambiare. Non potrà più essere quella dell’uomo
mangiato, divorato dai suoi parrocchiani, ma quella dell’uomo che collabora con
loro in un progetto unico. Pensare e agire insieme verso un unico obiettivo
esige spiritualità e competenze molto differenti di colui che si sente
investito da un potere unico e da una missione da portare avanti da solo. Più
che di preti eroi con poteri paranormali, nel nuovo contesto culturale ci sarà
bisogno di presbiteri che hanno chiara la coscienza che la chiesa non è loro e
che non sono stati chiamati a salvare nessuno: ci ha già pensato Cristo una
volta per tutte. Certamente nelle comunità bisognerà con calma e pazienza
spiegare a certi laici amanti dei preti eroi che i tempi sono cambiati e che,
di conseguenza, anche la chiesa sta cambiando. Ce la possiamo fare.
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