In ascolto del mistero dell’Incarnazione
Paolo Cugini
La discesa
del Verbo nel cuore dell’uomo e della donna per riscattare ciò che sembrava per
sempre perduto, è avvenuto sul piano dell’identità e della differenza.
Sul piano
dell’identità innanzi tutto. Infatti, che “Il
Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi “, ha voluto
dire per l’umanità il desiderio di Dio di salvare l’uomo non con un atto
esterno, ma creando un rapporto di strettissima vicinanza. In altre parole Dio,
in Gesù Cristo, si è spinto vicino all’uomo sin dove poteva. Sono tante le
espressioni che nel Nuovo Testamento descrivano questo cammino di Dio verso
l’uomo. Innanzi tutto, san Paolo nella lettera ai Filippesi ricorda che Gesù
Cristo è “diventato simile agli uomini
“. Per salvare l’uomo dal peccato il Verbo ha assunto la carne del peccato
stesso facendosi simile in tutte le cose “ai
fratelli “eccetto chiaramente il peccato. Per rendere autentica questa
partecipazione alla somiglianza della carne e del sangue dell’umanità da
salvare, il Verbo ha dovuto attendere. In primo luogo ha atteso la pienezza del
tempo, la fine dei tempi.
C’è stata
una lunga, secolare preparazione prima che si compisse l’evento
dell’incarnazione. Un evento preparato e annunciato nei secoli. Si pensi ad
esempio alle profezie che incontriamo al capitolo 24 del libro dei numeri in
cui Balaam figlio di Beor, a dispetto delle maledizioni che Balac re di Moab
chiedeva sul popolo di Israele accampato ai piedi del monte Baal, disse:”Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma
non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe… “. Anche la profezia di Natan
nel secondo libro di Samuele in cui Dio promette per bocca del profeta al re
Davide una alleanza eterna con la sua casa. Profezie millenarie che fanno
riflettere sui tempi calmi del Signore, così diversi dai tempi frettolosi degli
uomini e delle donne. C’è poi una seconda attesa che avviene nella vita stessa
di Gesù. San Paolo la descrive così: “quando
giunse la pienezza del tempo, Dio invitò suo Figlio nato da donna, nato sotto
la legge”.
Il Verbo si è sottomesso alla legge della natura umana e degli
uomini. La partecipazione alla somiglianza della carne e del sangue dell’uomo
non è stato qualcosa di fittizio, esterno, formale: è stata una sottomissione
autentica, un cammino di apprendimento dentro le mura della famiglia di Nazareth
e nella scuola dei saggi di Israele. Infine, c’è l’attesa di Gesù nel deserto
prima di iniziare il ministero. Si rimane a lungo con il fiato sospeso prima di
ascoltare una parola di Gesù e di vederlo all’opera. È una lentezza non solo
imbarazzante, ma, al tempo stesso, impressionante che richiede di essere
ascoltata e meditata con attenzione. In effetti, è una lentezza che ha tutti i tratti
della delicatezza di Dio. Se è vero, infatti, che Dio interviene nella storia
per salvare l’uomo dal peccato e dalla morte eterna, sembra che intenda farlo
col modo più delicato possibile, senza ferire troppo una umanità già malata. L’incarnazione
del Verbo operata da Dio nella storia vede, quindi, questo primo aspetto
fondamentale: il Verbo è disceso lentamente e delicatamente. È stato un
incontro talmente lento e delicato che in pochissimi se ne sono accorti: dice
infatti Giovanni che “il mondo non lo
riconobbe”. Lo stesso vale per il cammino di discesa. Difatti, la
somiglianza di Gesù con l’umanità incontrata era talmente grande che non si
riusciva a percepire la differenza divina. E la gente si chiedeva “non è questo il figlio di Giuseppe?”.
Disceso
sulla terra il Verbo di Dio si è messo subito in movimento. E così, sfogliando
il vangelo di Marco, troviamo Gesù che cammina “lungo il mare di Galilea”, che entra in una sinagoga, dirigendosi
alla casa di Simone e Andrea, andando nelle città vicine, salendo una montagna,
entra in una casa, salendo in una barca, percorrendo la Galilea , dirigendosi al
territorio della Giudea e, infine, arrivando a Gerusalemme. Osservando questo
momento, si può proprio dire che Gesù ha fatto della storia il luogo
dell’incontro con l’umanità. Dopo la triplice attesa, sopradescritta, Gesù ha
manifestato il desiderio incontenibile di Dio di parlare faccia a faccia con
l’uomo. E lo ha cercato in ogni luogo percorrendo le strade della Palestina.
Ci
si può chiedere allora: che cosa ha significato questo movimento di Gesù verso
l’esterno? Che cosa comunica all’umanità? In primo luogo, è segno di una
libertà interiore impressionante. Gesù camminando per le strade della
Palestina, entra nelle case di tutti, di chi lo invita, sedendosi nel piazzale
del tempio per dialogare con il popolo o con i dottori della legge, ha
manifestato la sua libertà nei confronti di quelle paure umane che spesso
pregiudicano l’incontro con l’altro: la paura di essere giudicato e la paura di
non essere accolto. In questo modo, ha rivelato che il contenuto che doveva
comunicare – l’annuncio del regno di Dio – era ben più importante di quello che
la gente poteva pensare di Lui. In secondo luogo, il movimento di Gesù all’esterno
è segno di gratuità. In Gesù tutto era grazia: lo ripete continuamente san
Paolo nella lettera ai Romani. Inviando Gesù, Dio non ha atteso che l’uomo
meritasse la salvezza. C’è stato un altro tempo di attesa e lo abbiamo visto
sopra. Lo zelo, la determinazione, la donazione totale di Gesù, il suo correre
incontro all’uomo, alle donne per annunciare la Buona Notizia , sono il segno di
una salvezza che è azione misericordiosa di Dio o, come direbbe san Paolo,
giustizia di Dio. Dio è giusto non perché l’umanità meritasse questo, ma perché
fedele a sé stesso, alle promesse fatte ai Padri, ad Abramo, Isacco, Giacobbe
e, in seguito, ai profeti.
Il movimento
che Gesù realizza nel mondo è, infine, segno di una progettualità. Non si
tratta, infatti di un’azione scomposta. Al contrario, se Gesù entra in una casa
non è per mangiare e basta e parlare del più e del meno. In ogni incontro di
Gesù, in ogni dialogo, c’è una finalità ben precisa: l’annuncio salvifico del
Regno. E allora se incontriamo Gesù sulle rive del lago della Galilea, o su una
montagna o a parlare nella piazza del tempio con un gruppo di persone, non
dobbiamo immaginare che stia perdendo tempo, anzi, lo sta riempiendo di
significato. Il fatto che Gesù sia la pienezza del tempo è manifestato nei
vangeli anche attraverso questi piccoli dettagli, nel suo modo di muoversi, di
parlare, di essere. Niente di Gesù è fatto o detto a caso, ma le sue parole e i
suoi gesti, oltre a essere intimamente connessi, sono segni rilevatori del
piano salvifico del Padre.
Il fatto,
poi, di mettersi sulle strade della Palestina alla ricerca dell’umanità perduta
e disorientata, ha provocato un altro tipo di movimento: non era solamente
tutto il popolo a correre da Lui o, come è detto più avanti “molta gente si riunì vicino a Lui”, ma
quelli che poi diventeranno suoi nemici come i farisei, i sadducei lo cercano.
Che dire poi dell’umanità isolata come i lebbrosi, gli indemoniati, gli
ammalati, i cechi, i sordi, tutti camminano verso Gesù. Anche a questo
proposito rivolgiamo la stessa domanda: che significato questo andare verso
Gesù dell’umanità? Immediatamente viene da rispondere che, se c’è stato un
incontro tra Dio e l’umanità attraverso Gesù, questo incontro, non solo è stato
preparato, ma voluto. È nell’incontro, nella relazione, che il messaggio è
comunicato e questo incontro, per essere significativo, deve mantenere le caratteristiche
tipiche dell’universo personale.
Quali sono queste caratteristiche? Innanzi
tutto, lo sguardo. Nell’incontro di Gesù con il giovane ricco ad un certo punto
del dialogo instaurato tra i due, l’evangelista Marco annota che Gesù “fissatolo, lo amò”. Al contrario, nella
scena della Passione, Pietro riceve uno sguardo di Gesù che lo porta alle
lacrime. In una relazione il contenuto non passa solo attraverso la Parola. Gli occhi rivelano i
nostri sentimenti e così si rafforzano, cioè danno incisività a ciò che si
intende comunicare. Per comunicare la Buona
Nuova non possiamo sottrarci allo sguardo dell’altro e, allo
stesso tempo, di guardare l’altro. E poi le mani. Con le mani Gesù ha curato
gli ammalati, “la prese per mano”, “poi le tocco gli occhi”, ha benedetto i
bambini :“allora gli condussero alcuni
bambini perché imponesse loro le mani e pregasse”; ha sfamato le folle “prese sette pani e i pesci, rese grazie, li
spezzò, li dava ai discepoli e i discepoli li distribuivano alle folla” e,
finalmente, si è donato ai discepoli all’ultima cena “mentre
essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e
lo diede ai discepoli”.
Le mani sono
fondamentali nelle relazioni interpersonale. Con esse manifestiamo i nostri
sentimenti, positivi o negativi, rafforziamo il significato di ciò che stiamo
dicendo, con i gesti. Con le mani abbracciamo, salutiamo, accarezziamo.
C’è poi un
altro aspetto in quella che potremmo chiamare la fenomenologia della relazione,
che è significativa per Gesù: lasciarsi avvicinare, toccare. Spesso nel vangelo
il verbo avvicinarsi è utilizzato per esprimere il cammino dell’umanità verso
Gesù. Non è comunque un avvicinamento freddo e distante. Al contrario. Chi si
avvicina a Gesù lo fa per toccarlo. Sono le folle e gli ammalati che lo
toccano. Tra questi troviamo nei vangeli il caso di una donna afflitta da una
emorragia da molti anni, che di proposito studia il momento opportuno per
toccare Gesù, perché sapeva – o immaginava – che il suo corpo emanasse
un’energia che sanava. Memorabile è poi quell’avvicinamento silenzioso e pieno
di amore della “donna peccatrice
pubblicana”, così come l’evangelista Luca la chiama, che incontra Gesù in
casa di un fariseo. La donna sapendo che si trovava a casa di un fariseo, “si mise dietro ai piedi di Gesù, e piangendo
si mise a bagnare i piedi con le lacrime e asciugarli con i capelli”: gli
baciava i piedi e li ungeva con l’olio. Gli occhi, le mani, il corpo.
Nella vita
di Gesù l’annuncio del Vangelo è stato mediato da tutto ciò che appartiene all’universo
personale. È il suo corpo lo spazio in cui è avvenuto storicamente l’incontro
tra Dio e l’umanità. In Gesù sembra che la relazione preceda, accompagni e
segua il contenuto.
Nelle
liturgie che celebriamo questi aspetti dovrebbero essere presenti per rendere
sempre più visibile la presenza del Signore nella comunità. Per questo motivo,
sarebbe positivo che la liturgia Occidentale si lasciasse contaminare dallo
stile liturgico dei paesi latinoamericani o africani, nei quali l’aspetto
corporale e relazionale è molto significativo. L’occasione ci viene offerta su
di un piatto d’argento con il fenomeno immigratorio. Accogliere le persone
povere che provengo da queste regioni nelle nostre comunità, significa non solo
offrire un pezzo di pane, ma anche coinvolgerle nelle nostre celebrazioni
domenicali. In questa prospettiva, costituiscono un grande dono che il Signore
sta facendo alla nostra chiesa, per recuperare quegli aspetti che l’eccessiva
impostazione concettuale ha smarrito durante i secoli.
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