martedì 12 luglio 2016

LA LENTEZZA DELLA DISCESA




In ascolto del mistero dell’Incarnazione
Paolo Cugini

La discesa del Verbo nel cuore dell’uomo e della donna per riscattare ciò che sembrava per sempre perduto, è avvenuto sul piano dell’identità e della differenza.

Sul piano dell’identità innanzi tutto. Infatti, che “Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi “, ha voluto dire per l’umanità il desiderio di Dio di salvare l’uomo non con un atto esterno, ma creando un rapporto di strettissima vicinanza. In altre parole Dio, in Gesù Cristo, si è spinto vicino all’uomo sin dove poteva. Sono tante le espressioni che nel Nuovo Testamento descrivano questo cammino di Dio verso l’uomo. Innanzi tutto, san Paolo nella lettera ai Filippesi ricorda che Gesù Cristo è “diventato simile agli uomini “. Per salvare l’uomo dal peccato il Verbo ha assunto la carne del peccato stesso facendosi simile in tutte le cose “ai fratelli “eccetto chiaramente il peccato. Per rendere autentica questa partecipazione alla somiglianza della carne e del sangue dell’umanità da salvare, il Verbo ha dovuto attendere. In primo luogo ha atteso la pienezza del tempo, la fine dei tempi.
C’è stata una lunga, secolare preparazione prima che si compisse l’evento dell’incarnazione. Un evento preparato e annunciato nei secoli. Si pensi ad esempio alle profezie che incontriamo al capitolo 24 del libro dei numeri in cui Balaam figlio di Beor, a dispetto delle maledizioni che Balac re di Moab chiedeva sul popolo di Israele accampato ai piedi del monte Baal, disse:”Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe… “. Anche la profezia di Natan nel secondo libro di Samuele in cui Dio promette per bocca del profeta al re Davide una alleanza eterna con la sua casa. Profezie millenarie che fanno riflettere sui tempi calmi del Signore, così diversi dai tempi frettolosi degli uomini e delle donne. C’è poi una seconda attesa che avviene nella vita stessa di Gesù. San Paolo la descrive così: “quando giunse la pienezza del tempo, Dio invitò suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge”.
Il Verbo si è sottomesso alla legge della natura umana e degli uomini. La partecipazione alla somiglianza della carne e del sangue dell’uomo non è stato qualcosa di fittizio, esterno, formale: è stata una sottomissione autentica, un cammino di apprendimento dentro le mura della famiglia di Nazareth e nella scuola dei saggi di Israele. Infine, c’è l’attesa di Gesù nel deserto prima di iniziare il ministero. Si rimane a lungo con il fiato sospeso prima di ascoltare una parola di Gesù e di vederlo all’opera. È una lentezza non solo imbarazzante, ma, al tempo stesso, impressionante che richiede di essere ascoltata e meditata con attenzione. In effetti, è una lentezza che ha tutti i tratti della delicatezza di Dio. Se è vero, infatti, che Dio interviene nella storia per salvare l’uomo dal peccato e dalla morte eterna, sembra che intenda farlo col modo più delicato possibile, senza ferire troppo una umanità già malata. L’incarnazione del Verbo operata da Dio nella storia vede, quindi, questo primo aspetto fondamentale: il Verbo è disceso lentamente e delicatamente. È stato un incontro talmente lento e delicato che in pochissimi se ne sono accorti: dice infatti Giovanni che “il mondo non lo riconobbe”. Lo stesso vale per il cammino di discesa. Difatti, la somiglianza di Gesù con l’umanità incontrata era talmente grande che non si riusciva a percepire la differenza divina. E la gente si chiedeva “non è questo il figlio di Giuseppe?”.


Disceso sulla terra il Verbo di Dio si è messo subito in movimento. E così, sfogliando il vangelo di Marco, troviamo Gesù che cammina “lungo il mare di Galilea”, che entra in una sinagoga, dirigendosi alla casa di Simone e Andrea, andando nelle città vicine, salendo una montagna, entra in una casa, salendo in una barca, percorrendo la Galilea, dirigendosi al territorio della Giudea e, infine, arrivando a Gerusalemme. Osservando questo momento, si può proprio dire che Gesù ha fatto della storia il luogo dell’incontro con l’umanità. Dopo la triplice attesa, sopradescritta, Gesù ha manifestato il desiderio incontenibile di Dio di parlare faccia a faccia con l’uomo. E lo ha cercato in ogni luogo percorrendo le strade della Palestina. 
Ci si può chiedere allora: che cosa ha significato questo movimento di Gesù verso l’esterno? Che cosa comunica all’umanità? In primo luogo, è segno di una libertà interiore impressionante. Gesù camminando per le strade della Palestina, entra nelle case di tutti, di chi lo invita, sedendosi nel piazzale del tempio per dialogare con il popolo o con i dottori della legge, ha manifestato la sua libertà nei confronti di quelle paure umane che spesso pregiudicano l’incontro con l’altro: la paura di essere giudicato e la paura di non essere accolto. In questo modo, ha rivelato che il contenuto che doveva comunicare – l’annuncio del regno di Dio – era ben più importante di quello che la gente poteva pensare di Lui. In secondo luogo, il movimento di Gesù all’esterno è segno di gratuità. In Gesù tutto era grazia: lo ripete continuamente san Paolo nella lettera ai Romani. Inviando Gesù, Dio non ha atteso che l’uomo meritasse la salvezza. C’è stato un altro tempo di attesa e lo abbiamo visto sopra. Lo zelo, la determinazione, la donazione totale di Gesù, il suo correre incontro all’uomo, alle donne per annunciare la Buona Notizia, sono il segno di una salvezza che è azione misericordiosa di Dio o, come direbbe san Paolo, giustizia di Dio. Dio è giusto non perché l’umanità meritasse questo, ma perché fedele a sé stesso, alle promesse fatte ai Padri, ad Abramo, Isacco, Giacobbe e, in seguito, ai profeti.

Il movimento che Gesù realizza nel mondo è, infine, segno di una progettualità. Non si tratta, infatti di un’azione scomposta. Al contrario, se Gesù entra in una casa non è per mangiare e basta e parlare del più e del meno. In ogni incontro di Gesù, in ogni dialogo, c’è una finalità ben precisa: l’annuncio salvifico del Regno. E allora se incontriamo Gesù sulle rive del lago della Galilea, o su una montagna o a parlare nella piazza del tempio con un gruppo di persone, non dobbiamo immaginare che stia perdendo tempo, anzi, lo sta riempiendo di significato. Il fatto che Gesù sia la pienezza del tempo è manifestato nei vangeli anche attraverso questi piccoli dettagli, nel suo modo di muoversi, di parlare, di essere. Niente di Gesù è fatto o detto a caso, ma le sue parole e i suoi gesti, oltre a essere intimamente connessi, sono segni rilevatori del piano salvifico del Padre.

Il fatto, poi, di mettersi sulle strade della Palestina alla ricerca dell’umanità perduta e disorientata, ha provocato un altro tipo di movimento: non era solamente tutto il popolo a correre da Lui o, come è detto più avanti “molta gente si riunì vicino a Lui”, ma quelli che poi diventeranno suoi nemici come i farisei, i sadducei lo cercano. Che dire poi dell’umanità isolata come i lebbrosi, gli indemoniati, gli ammalati, i cechi, i sordi, tutti camminano verso Gesù. Anche a questo proposito rivolgiamo la stessa domanda: che significato questo andare verso Gesù dell’umanità? Immediatamente viene da rispondere che, se c’è stato un incontro tra Dio e l’umanità attraverso Gesù, questo incontro, non solo è stato preparato, ma voluto. È nell’incontro, nella relazione, che il messaggio è comunicato e questo incontro, per essere significativo, deve mantenere le caratteristiche tipiche dell’universo personale.

 Quali sono queste caratteristiche? Innanzi tutto, lo sguardo. Nell’incontro di Gesù con il giovane ricco ad un certo punto del dialogo instaurato tra i due, l’evangelista Marco annota che Gesù “fissatolo, lo amò”. Al contrario, nella scena della Passione, Pietro riceve uno sguardo di Gesù che lo porta alle lacrime. In una relazione il contenuto non passa solo attraverso la Parola. Gli occhi rivelano i nostri sentimenti e così si rafforzano, cioè danno incisività a ciò che si intende comunicare. Per comunicare la Buona Nuova non possiamo sottrarci allo sguardo dell’altro e, allo stesso tempo, di guardare l’altro. E poi le mani. Con le mani Gesù ha curato gli ammalati, “la prese per mano”, “poi le tocco gli occhi”, ha benedetto i bambini :“allora gli condussero alcuni bambini perché imponesse loro le mani e pregasse”; ha sfamato le folle “prese sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò, li dava ai discepoli e i discepoli li distribuivano alle folla” e, finalmente, si è donato ai discepoli all’ultima cena  “mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli”.
Le mani sono fondamentali nelle relazioni interpersonale. Con esse manifestiamo i nostri sentimenti, positivi o negativi, rafforziamo il significato di ciò che stiamo dicendo, con i gesti. Con le mani abbracciamo, salutiamo, accarezziamo.
C’è poi un altro aspetto in quella che potremmo chiamare la fenomenologia della relazione, che è significativa per Gesù: lasciarsi avvicinare, toccare. Spesso nel vangelo il verbo avvicinarsi è utilizzato per esprimere il cammino dell’umanità verso Gesù. Non è comunque un avvicinamento freddo e distante. Al contrario. Chi si avvicina a Gesù lo fa per toccarlo. Sono le folle e gli ammalati che lo toccano. Tra questi troviamo nei vangeli il caso di una donna afflitta da una emorragia da molti anni, che di proposito studia il momento opportuno per toccare Gesù, perché sapeva – o immaginava – che il suo corpo emanasse un’energia che sanava. Memorabile è poi quell’avvicinamento silenzioso e pieno di amore della “donna peccatrice pubblicana”, così come l’evangelista Luca la chiama, che incontra Gesù in casa di un fariseo. La donna sapendo che si trovava a casa di un fariseo, “si mise dietro ai piedi di Gesù, e piangendo si mise a bagnare i piedi con le lacrime e asciugarli con i capelli”: gli baciava i piedi e li ungeva con l’olio. Gli occhi, le mani, il corpo.
Nella vita di Gesù l’annuncio del Vangelo è stato mediato da tutto ciò che appartiene all’universo personale. È il suo corpo lo spazio in cui è avvenuto storicamente l’incontro tra Dio e l’umanità. In Gesù sembra che la relazione preceda, accompagni e segua il contenuto.

Nelle liturgie che celebriamo questi aspetti dovrebbero essere presenti per rendere sempre più visibile la presenza del Signore nella comunità. Per questo motivo, sarebbe positivo che la liturgia Occidentale si lasciasse contaminare dallo stile liturgico dei paesi latinoamericani o africani, nei quali l’aspetto corporale e relazionale è molto significativo. L’occasione ci viene offerta su di un piatto d’argento con il fenomeno immigratorio. Accogliere le persone povere che provengo da queste regioni nelle nostre comunità, significa non solo offrire un pezzo di pane, ma anche coinvolgerle nelle nostre celebrazioni domenicali. In questa prospettiva, costituiscono un grande dono che il Signore sta facendo alla nostra chiesa, per recuperare quegli aspetti che l’eccessiva impostazione concettuale ha smarrito durante i secoli.

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