Paolo Cugini
Il punto di partenza per una
riflessione sulla liturgia è il CV II, la cui riforma liturgica è stata una
vera e propria rivoluzione nei confronti dell’impostazione tridentina. Con buna
pace dei sostenitori dell’ermeneutica della continuità, la riforma liturgica
del CVII ha rappresentato una discontinuità radicale nei confronti della
tradizione in vigore. Si è, infatti, passati da un’impostazione sacrale che
vedeva il sacerdote come unico protagonista della relazione con il sacro, ad
una visione comunitaria della liturgia. L’impostazione tridentina riportava al
centro quella struttura sacerdotale così osteggiata da Gesù al punto da essere
la causa della sua morte. La perdita di contatto con la narrazione originale
aveva prodotto il paradosso di capovolgere l’impostazione iniziale.
L’impostazione tridentina aveva ridotto la liturgia ad un’esecuzione minuziosa
e meticolosa di norme e di rubriche al punto da identificare la validità del
rito con l’esecuzione fedele delle stesse. E così, il rito diventa valido
quando tutto viene eseguito alla perfezione secondo le norme e quando il
sacerdote proferisce fedelmente le parole scritte sulle rubriche, senza alcuno
spazio all’interpretazione soggettiva, pena l’annullamento della validità del
rito stesso. Proprio nel rito tridentino della liturgia eucaristica è visibile
l’influsso nefasto dell’impostazione giuridica e canonistica sulla teologia. In questo contesto liturgico, il popolo rimane
ai margini, senza alcun tipo di coinvolgimento. La passività liturgica del
popolo è così forte che non importa nemmeno se i fedeli capiscano o meno quello
che il sacerdote dice, in una lingua che è divenuta esclusivamente patrimonio
della classe sacerdotale. L’importante non è la partecipazione attiva del
popolo, ma fattiva. Santificare il giorno del Signore significa essere presenti
al rito. Oltre a ciò, per i fedeli non è importante capire le parole della
liturgia, ma vedere l’ostia consacrata. La liturgia tridentina manifesta la
netta separazione tra gerarchia e laici, frutto di una interpretazione teista
del fenomeno sacrale.
Il CVII ribalta radicalmente
l’impostazione tridentina prendendo come ispirazione le fonti dei primi secoli
della Chiesa. È osservando la prassi liturgica alla luce dei dati del Vangelo e
della prima elaborazione dei Padri della Chiesa che ci si rende conto di aver
imboccato una strada che nei secoli ha portato molto lontano la Chiesa rispetto
alle indicazioni del Maestro. La preoccupazione del CVII diventa quella di
riportare la liturgia nel cuore della comunità, togliendola dalle mani della
classe sacerdotale. Per fare questo propone la possibilità di celebrare i riti
nelle lingue moderne, permettendo in questo modo la comprensione da parte dei
fedeli di quello che si celebra. L’esigenza della partecipazione attiva dei
fedeli è in stretta connessione con la scelta di togliere l’obbligo della
lingua latina per le celebrazioni liturgiche. È attiva la partecipazione dei
fedeli quando riesce a comprendere i riti ai quali partecipa, le preghiere che
è invitato a recitare. Per questo, il passaggio centrale in questa prospettiva
del documento Sacrosanctum Concilium è il seguente: “Perciò la Chiesa si
preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori
a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue
preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e
attivamente; siano formati dalla parola di Dio” (SC, 48). È un passaggio che
mostra il cambiamento radicale dell’impostazione liturgica del CV II rispetto a
quella tridentina. Ora la chiesa è preoccupata che i “fedeli non assistano
come estranei o muti spettatori”, ma partecipino attivamente alla vita
liturgica, sforzandosi di comprendere i riti pronunciati in una lingua
comprensibile al popolo di Dio. Per questo motivo, viene ripristinata la
preghiera dei fedeli, come riposta alla Parola di Dio: “Dopo il Vangelo e
l'omelia, specialmente la domenica e le feste di precetto, sia ripristinata la
«orazione comune» detta anche «dei fedeli», in modo che, con la partecipazione
del popolo, si facciano speciali preghiere (SC, 53). La partecipazione attiva
costituisce lo scopo primo e immediato della riforma liturgica: “La madre
Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena,
consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è
richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano
«stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto», ha
diritto e dovere in forza del battesimo” (SC 14). La partecipazione attiva è,
dunque, la modalità umana per attingere alla fonte della grazia. Per questo la
riforma dell’ordo missae, come di tutti gli altri sacramenti, mira a che “sia
resa più facile la pia e attiva partecipazione dei fedeli” (SC 50). Per evitare
il rischio di ogni interpretazione di tipo semplicemente cerimoniale, lo stesso
concilio precisa: “La fecondità dell’apostolato dei laici dipende dalla loro
vitale unione con Cristo... Questa vita di intimità con Cristo si alimenta
nella Chiesa con gli aiuti spirituali comuni a tutti i fedeli, soprattutto con
la partecipazione attiva alla sacra liturgia” (AA 4). Inoltre l’istruzione
Inter Oecumenici (1964) ribadisce: “Attraverso una perfetta partecipazione alle
sacre celebrazioni, i fedeli attingeranno abbondantemente la vita divina e,
divenuti lievito di Cristo e sale della terra, la proclameranno e
trasfonderanno anche negli altri” (n.8).
Il percorso della Chiesa nei
secoli era passato da una visione comunitaria della liturgia ad una visione
intimista. Questo passaggio è visibile soprattutto nel modo d’intendere
l’eucarestia, che lentamente smette di essere il sacramento dell’unità della
Chiesa, come insegnava san Paolo (1 Cor 10), per divenire sempre più relegato
nell’ambito intimista dell’unione del fedele con Cristo. Gli storici della
liturgia affermano che protagonisti di questo passaggio che approda definitivamente
nel XII secolo, sono Pascasio e Radberto. Pascasio identifica l’eucarestia con
il corpo storico di Gesù, allontanandosi, in questo modo, dalla riflessione dei
Padri. Questo spostamento, che potremmo definire materialista, lo si nota
nell’utilizzo differente che Pascasio fa dei termini significativi utilizzati
dai Padri in ambito liturgico come: figura, verità, sacramento e mistero. Questo
spostamento di accento provoca l’incomprensione dei testi della Tradizione.
Tanto Pascasio quanto Radberto affermano l’identità dell’eucarestia con il
corpo di Cristo che è nato da Maria, ha patito, è morto ed è risorto. Con Ivo
di Chartres – siamo nel XII secolo - si passa dalla concezione dell’eucarestia
come sacramento dell’unità della Chiesa, alla concezione dell’eucarestia come
unione del fedele con Cristo. Il passaggio da Guillaume de Saint- Thierry alla Summa
sententiarum – siamo sempre nel XII secolo d. C. - ci fa vedere il
passaggio definitivo al tema dell’eucarestia come sacramento dell’unione con
Cristo. Tramite Pietro Lombardo il cambiamento arriverà anche a Tommaso
d’Acquino. Il Concilio di Trento non ha fatto altro che ratificare e
consolidare un processo storico già in atto da diversi secoli ed elaborato da
una cospicua produzione teologica. Grazie al Movimento Liturgico
sviluppatosi nel XX secolo, assieme alla Nouvelle Teologie, che ha
promosso lo studio delle fonti bibliche e patristiche della Chiesa, si è giunti
a comprendere la necessità di un ritorno alle origini per tentare di rimettere
ordine in una tradizione che aveva perso nei secoli il contatto con i dati
originari divenendo, in questo modo, una realtà differente dall’idea del
fondatore.
Sappiamo, a distanza di
sessant’anni, che il prezzo che la Chiesa sta pagando per aver trascurato i
fedeli per secoli, è molto alto. Costretto per tantissimi anni a partecipare a
riti incomprensibili, lasciato sui banchi della chiesa in uno stato totalmente
passivo, il popolo di Dio fa fatica a scrollarsi di dosso questa passività.
Oltre a ciò, soprattutto in questi ultimi anni, sono emersi all’interno della
Chiesa, diversi movimenti d’ispirazione tradizionalista, che rivendicano la
necessità di tornare a quella che chiamano la vera messa, vale a dire, la messa
tridentina. Siamo dunque in una fase estremante delicata dal punto di vista
liturgico, quasi di stallo, perché se da una parte non sono ancora stati assimilate
le indicazioni principali del Vaticano II, dall’altra c’è quell’onda nostalgica
del passato che in tanti modi manifesta l’esigenza di cancellare il Vaticano
II, definendolo eretico, arrivando persino a negare la validità delle
proposizioni conciliari.
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