giovedì 21 aprile 2022

Le intuizioni del Concilio Vaticano II sulla liturgia





Paolo Cugini

Il punto di partenza per una riflessione sulla liturgia è il CV II, la cui riforma liturgica è stata una vera e propria rivoluzione nei confronti dell’impostazione tridentina. Con buna pace dei sostenitori dell’ermeneutica della continuità, la riforma liturgica del CVII ha rappresentato una discontinuità radicale nei confronti della tradizione in vigore. Si è, infatti, passati da un’impostazione sacrale che vedeva il sacerdote come unico protagonista della relazione con il sacro, ad una visione comunitaria della liturgia. L’impostazione tridentina riportava al centro quella struttura sacerdotale così osteggiata da Gesù al punto da essere la causa della sua morte. La perdita di contatto con la narrazione originale aveva prodotto il paradosso di capovolgere l’impostazione iniziale. L’impostazione tridentina aveva ridotto la liturgia ad un’esecuzione minuziosa e meticolosa di norme e di rubriche al punto da identificare la validità del rito con l’esecuzione fedele delle stesse. E così, il rito diventa valido quando tutto viene eseguito alla perfezione secondo le norme e quando il sacerdote proferisce fedelmente le parole scritte sulle rubriche, senza alcuno spazio all’interpretazione soggettiva, pena l’annullamento della validità del rito stesso. Proprio nel rito tridentino della liturgia eucaristica è visibile l’influsso nefasto dell’impostazione giuridica e canonistica sulla teologia.  In questo contesto liturgico, il popolo rimane ai margini, senza alcun tipo di coinvolgimento. La passività liturgica del popolo è così forte che non importa nemmeno se i fedeli capiscano o meno quello che il sacerdote dice, in una lingua che è divenuta esclusivamente patrimonio della classe sacerdotale. L’importante non è la partecipazione attiva del popolo, ma fattiva. Santificare il giorno del Signore significa essere presenti al rito. Oltre a ciò, per i fedeli non è importante capire le parole della liturgia, ma vedere l’ostia consacrata. La liturgia tridentina manifesta la netta separazione tra gerarchia e laici, frutto di una interpretazione teista del fenomeno sacrale.

Il CVII ribalta radicalmente l’impostazione tridentina prendendo come ispirazione le fonti dei primi secoli della Chiesa. È osservando la prassi liturgica alla luce dei dati del Vangelo e della prima elaborazione dei Padri della Chiesa che ci si rende conto di aver imboccato una strada che nei secoli ha portato molto lontano la Chiesa rispetto alle indicazioni del Maestro. La preoccupazione del CVII diventa quella di riportare la liturgia nel cuore della comunità, togliendola dalle mani della classe sacerdotale. Per fare questo propone la possibilità di celebrare i riti nelle lingue moderne, permettendo in questo modo la comprensione da parte dei fedeli di quello che si celebra. L’esigenza della partecipazione attiva dei fedeli è in stretta connessione con la scelta di togliere l’obbligo della lingua latina per le celebrazioni liturgiche. È attiva la partecipazione dei fedeli quando riesce a comprendere i riti ai quali partecipa, le preghiere che è invitato a recitare. Per questo, il passaggio centrale in questa prospettiva del documento Sacrosanctum Concilium è il seguente: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio” (SC, 48). È un passaggio che mostra il cambiamento radicale dell’impostazione liturgica del CV II rispetto a quella tridentina. Ora la chiesa è preoccupata che i “fedeli non assistano come estranei o muti spettatori”, ma partecipino attivamente alla vita liturgica, sforzandosi di comprendere i riti pronunciati in una lingua comprensibile al popolo di Dio. Per questo motivo, viene ripristinata la preghiera dei fedeli, come riposta alla Parola di Dio: “Dopo il Vangelo e l'omelia, specialmente la domenica e le feste di precetto, sia ripristinata la «orazione comune» detta anche «dei fedeli», in modo che, con la partecipazione del popolo, si facciano speciali preghiere (SC, 53). La partecipazione attiva costituisce lo scopo primo e immediato della riforma liturgica: “La madre Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto», ha diritto e dovere in forza del battesimo” (SC 14). La partecipazione attiva è, dunque, la modalità umana per attingere alla fonte della grazia. Per questo la riforma dell’ordo missae, come di tutti gli altri sacramenti, mira a che “sia resa più facile la pia e attiva partecipazione dei fedeli” (SC 50). Per evitare il rischio di ogni interpretazione di tipo semplicemente cerimoniale, lo stesso concilio precisa: “La fecondità dell’apostolato dei laici dipende dalla loro vitale unione con Cristo... Questa vita di intimità con Cristo si alimenta nella Chiesa con gli aiuti spirituali comuni a tutti i fedeli, soprattutto con la partecipazione attiva alla sacra liturgia” (AA 4). Inoltre l’istruzione Inter Oecumenici (1964) ribadisce: “Attraverso una perfetta partecipazione alle sacre celebrazioni, i fedeli attingeranno abbondantemente la vita divina e, divenuti lievito di Cristo e sale della terra, la proclameranno e trasfonderanno anche negli altri” (n.8).

Il percorso della Chiesa nei secoli era passato da una visione comunitaria della liturgia ad una visione intimista. Questo passaggio è visibile soprattutto nel modo d’intendere l’eucarestia, che lentamente smette di essere il sacramento dell’unità della Chiesa, come insegnava san Paolo (1 Cor 10), per divenire sempre più relegato nell’ambito intimista dell’unione del fedele con Cristo. Gli storici della liturgia affermano che protagonisti di questo passaggio che approda definitivamente nel XII secolo, sono Pascasio e Radberto. Pascasio identifica l’eucarestia con il corpo storico di Gesù, allontanandosi, in questo modo, dalla riflessione dei Padri. Questo spostamento, che potremmo definire materialista, lo si nota nell’utilizzo differente che Pascasio fa dei termini significativi utilizzati dai Padri in ambito liturgico come: figura, verità, sacramento e mistero. Questo spostamento di accento provoca l’incomprensione dei testi della Tradizione. Tanto Pascasio quanto Radberto affermano l’identità dell’eucarestia con il corpo di Cristo che è nato da Maria, ha patito, è morto ed è risorto. Con Ivo di Chartres – siamo nel XII secolo - si passa dalla concezione dell’eucarestia come sacramento dell’unità della Chiesa, alla concezione dell’eucarestia come unione del fedele con Cristo. Il passaggio da Guillaume de Saint- Thierry alla Summa sententiarum – siamo sempre nel XII secolo d. C. - ci fa vedere il passaggio definitivo al tema dell’eucarestia come sacramento dell’unione con Cristo. Tramite Pietro Lombardo il cambiamento arriverà anche a Tommaso d’Acquino. Il Concilio di Trento non ha fatto altro che ratificare e consolidare un processo storico già in atto da diversi secoli ed elaborato da una cospicua produzione teologica. Grazie al Movimento Liturgico sviluppatosi nel XX secolo, assieme alla Nouvelle Teologie, che ha promosso lo studio delle fonti bibliche e patristiche della Chiesa, si è giunti a comprendere la necessità di un ritorno alle origini per tentare di rimettere ordine in una tradizione che aveva perso nei secoli il contatto con i dati originari divenendo, in questo modo, una realtà differente dall’idea del fondatore.

Sappiamo, a distanza di sessant’anni, che il prezzo che la Chiesa sta pagando per aver trascurato i fedeli per secoli, è molto alto. Costretto per tantissimi anni a partecipare a riti incomprensibili, lasciato sui banchi della chiesa in uno stato totalmente passivo, il popolo di Dio fa fatica a scrollarsi di dosso questa passività. Oltre a ciò, soprattutto in questi ultimi anni, sono emersi all’interno della Chiesa, diversi movimenti d’ispirazione tradizionalista, che rivendicano la necessità di tornare a quella che chiamano la vera messa, vale a dire, la messa tridentina. Siamo dunque in una fase estremante delicata dal punto di vista liturgico, quasi di stallo, perché se da una parte non sono ancora stati assimilate le indicazioni principali del Vaticano II, dall’altra c’è quell’onda nostalgica del passato che in tanti modi manifesta l’esigenza di cancellare il Vaticano II, definendolo eretico, arrivando persino a negare la validità delle proposizioni conciliari.

 

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