giovedì 25 dicembre 2014

LOGOS




Paolo Cugini


Bisogna pur apprendere ad ascoltare, per non correre il rischio d’inventare sempre, di distorcere le parole e, si sa, le parole pesano, soprattutto quando sono rivelate, quando vengono da un’altra parte. E allora a Natale, il giorno del presepio, il giorno della pace dell’anima, della pace dei cuori, della pace degli uomini, dove tutti siamo più buoni, più felici, dove i bambini sono al centro dell’attenzione, Lui, il grande sconosciuto, entra nella storia, nella nostra storia felice, piena di sentimenti buoni, ricolma di quei sentimenti che ti fanno pensare che la religione in fin dei conti s’identifichi con un sentimento, il grande sentimento universale di bontà. E allora entri TU e ci dici che sei il Logos, il pensiero e non il sentimento, la ragione e non la devozione, l’argomentazione e non la magia. Che sorpresa! Che spaventosa e grande sorpresa! Perché se sono abituato ad aspettarmi quello che da secoli mi hanno insegnato, ci hanno insegnato e cioè che tu sei sentimento, che tu sei miracolo, che tu sei la soluzione di tutti i mali, non riesco ad ascoltare la tua Parola, non riesco a cogliere la grande differenza di come ti poni nella storia, non riesco a capire che cosa stai dicendo. E allora proprio oggi che è Natale, che siamo tutti così felici, che ci aspetteremmo delle parole come sempre, delle parole uguali, delle parole soprattutto che non ci disturbino, che non c’inquietino, che non ci facciano pensare, Tu arrivi con questa del Logos, tu ci fai la sorpresa del Logos, che nessuno capisce non solo perché è greco, ma perché non è quello che avremmo voluto sentire, quello che il popolo avrebbe voluto sentire.

Avremmo voluto sentire che tu eri Pathos, e invece ci dici che sei il Logos e così ci spiazzi, ci confondi le idee. Anzi diciamo subito che le confondi solo a chi pone attenzione a questo scherzetto, perché per poter essere turbati bisogna essere attenti, bisogna porre attenzione alle parole. E allora tutti si aspettavano Pathos, perché la religione è da sempre identificata con il sentimento, perché l’uomo religioso, perché la donna religiosa sin da secoli memorabili sono persone dai forti sentimenti religiosi. Mai si era sentito parlare che per avvicinarsi a Dio ci voleva la ragione, il Logos, il pensiero, l’argomentazione. E invece vieni Tu e ti riveli come il Logos e ci parli, e ci mostri che in questo Logos c’è la vita. E allora ti dobbiamo ascoltare, ti dobbiamo seguire. Per questo tutti quelli che si sono fermati allo stadio puramente mentale – anche se sono stati bravi, dobbiamo ammetterlo, perché hanno avuto l’umiltà di ascoltarti, hanno avuto il coraggio di spostarsi dal lato sentimentale a quello razionale – si sono persi nel labirinto dei pensieri astratti che, in questo modo sono diventati vani, svuotando la forza del Logos. Perché il Logos si manifesta nella vita e, senza la vita, rimane lettera morta, vuota. Di che vita si tratta? Che vita ispira il pensiero di Dio? E’ la sete di giustizia, il desiderio di amare tutti, di non escludere nessuno. E’ la vita condivisa soprattutto con chi non ha nulla, è la ricerca costante di cammini di pace e di comunione, il desiderio di vedere il mondo riconciliato.


E’ questa vita che diventa luce nel mondo e che attrae, anche se allo stesso tempo provoca tensioni, contrasti chiusure. E’ normale. Ce lo ricorda anche Isaia. Chi siamo, infatti? Siamo un popolo che cammina nelle tenebre e che una volta visitati dalla luce resistiamo, chiudiamo gli occhi. 

mercoledì 24 dicembre 2014

PRESEPIO



Paolo Cugini

Dipende sempre da dove vediamo le cose, con che occhiali le guardiamo, che punto di vista scegliamo. Così è anche per il presepio. Se infatti, lo guardiamo da dove siamo adesso, dal nostro presente, e scegliamo come punto di osservazione il nostro oggi, allora il presepio ci sembra una cosa del passato, anzi peggio, una fiaba per bambini che non ha nessunissima incidenza sulla vita reale e, spesso e volentieri, non dice più nulla alla vita concreta che viviamo tutti i giorni. E, infatti, i presepi che costruiamo e che visitiamo nelle chiese, sono esattamente la rappresentazione religiosa di come stiamo guardando il mondo, di come stiamo guardando quel mondo, quell’evento che è la nascita di Gesù: come un evento del passato, come una fiaba per bambini, come la narrazione di una storia che non ha più nulla da dire a noi.

Se invece cambiamo di prospettiva, se un giorno decidiamo di guardare quello stesso presepio, se decidiamo di osservare quell’evento da un’altra prospettiva, da quella giusta, e cioè dalla prospettiva di come è venuto fuori, di come è apparso nella storia, di come è stato pensato da Dio, di come è stato annunciato dai profeti sin dal quattordicesimo secolo, ci accorgeremo che c’è qualcosa che non va, che il presepio è tutto sbagliato, un vero e proprio obbrobrio. E infatti, ci possiamo tranquillamente chiedere: se Dio ha preparato l’ingresso del messia nella storia con tantissimo tempo d’anticipo, se lo ha profetizzato con secoli di anticipo, perché allora è entrato nella storia così male, in questo modo così brutto, come se nessuno lo aspettasse, come se fosse un intruso, come se nessuno lo sapesse? E’ davvero molto strano il presepio visto dalla parte della storia. Se Dio aveva iniziato a parlarne sin dai tempi della Genesi, sin dalla benedizione di Giacobbe e aveva continuato a parlarne al tempo di Davide e poi aveva mandato diversi profeti che avevano annunciato la venuta del messia, perché una volta che decise di venire, venne in quel modo veramente disastroso? Avrebbe avuto tutto il tempo a disposizione, anche perché se l’era preso per fare nascere il messia in una casa decente, in una città decente e potremmo aggiungere, da una famiglia decente. E invece no. Nasce a Betlemme, a 11 Km da Gerusalemme e una volta arrivato a Betlemme non c’è nemmeno una casa per accoglierlo al punto da dover nascere in una mangiatoia. Il messia sembra nato in fretta, di sorpresa, senza nessuna preparazione, mentre noi sappiamo benissimo che era stato preparato, che era stato annunziato per tempo, anzi, per molto tempo. Forse riusciamo a capirci qualcosa se poniamo attenzione ad un dettaglio, che è molto più che un dettaglio, ma una vera e propria sorpresa. E infatti, in tutte le profezie non era mai stato detto che a nascere, che a venire al mondo, che ad entrare nella storia non sarebbe stato semplicemente il messia, ma Lui stesso! Questa è la cosa sbalorditiva: Dio stesso si è fatto presente, e cioè quel bambino nato nella mangiatoia è Dio stesso. E’ sbalorditivo perché non l’aveva mai detto nessuno, non l'aveva mai profetizzato nessuno. Nelle tante profezie che leggiamo e abbiamo ascoltato nel tempo di avvento dove si annuncia la nascita di un messia, un salvatore, mai era stato detto e annunciato che questo messia sarebbe stato Lui stesso, Dio.

Si capisce allora, che se è Dio ad essere in quella culla, tutto ciò che lo circonda, il modo nel quale è venuto al mondo, non è casuale. E’ strano per come sono state preparate le cose e cioè in modo minuzioso, non è più strano il perché sia entrato in quel modo. E’ una vera e propria rivelazione. Se Lui è Dio, se Lui è la Vita, se Lui è il Significato di tutto allora il suo ingresso nella storia diventa, si trasforma in un giudizio implicito e impietoso di quella vita costruita indipendentemente da lui nella quale viviamo; la Sua presenza nella storia manifesta il vuoto nel quale l’umanità vive. E allora, il bambino Gesù con la sua presenza discreta si trasforma in un processo di smascheramento delle menzogne nella quale il mono è avvolto. La sua presenza inquieta tutti coloro che fanno della loro vita uno spazio di tranquillità, che hanno fatto della loro vita una terra di riposo, un anestetico contro ogni forma di dolore, di sofferenza, di tragedia. 

Se il bambino nella culla è Dio allora tutto ciò che realizza è il senso della storia. Se appena pone i suoi piedini nel mondo la sua vita è costellata di drammi, ciò significa che il dramma, la tragedia, sono elemento costitutivo della vita umana. E’ questa, forse, una delle primissime rivelazioni del Natale, anzi la più grande e profonda rivelazione della nascita dal salvatore. Gesù ci salva dalla vita artefatta e ci apre gli occhi sul senso autentico della vita che è tragica, drammatica, piena di problemi. Gesù rivela all’umanità che il senso della vita non è fuggire dalle tragedie, schivarle, nasconderle, mascherarle, ma assumerle, viverle, berle fino in fondo. Gesù è nato per bere il calice amarissimo della croce. Ha iniziato a prepararsi a questo dal primo vagito. Gesù a Natale c’insegna che l’uomo, la donna è colui, colei che apprende ad abitare il dramma, ad abitare la tragedia e non a fuggire.

C’è anche un insegnamento spirituale nel presepio, ed è questo. Sin dal primo passettino sulla terra, sin dalle prime mosse il bambino Gesù, il Dio fatto uomo, o meglio, bambino distrugge la religione degli uomini, la destruttura dal di dentro. Se, infatti, valgono le considerazioni fatti poco sopra, e cioè che Dio venendo al mondo mostra che il dramma, la tragedia fanno parte della condizione umana, allora Gesù, il Figlio di Dio, abitando la tragedia umana c’insegna che la vera religione, non insegna a fuggire ai problemi, ma a viverli, a portare il peso delle tragedie. Tutta quella religione, quelle preghiere, quelle devozioni, quelle candele, processioni e roba simile, fatte con l’esclusivo scopo di togliere i problemi, di risolvere i problemi, sono la negazione del Natale, vanno per la strada opposta di quella che Dio ha scelto e mostrato venendo al mondo. L’uomo e la donna religiosi, la vita religiosa che apprendiamo dal presepio è quella che c'insegna a vivere nel dramma, ad abitare la tragedia: è questo il vero miracolo. Solitamente si spaccia per miracolo quando avviene qualcosa che ci toglie il dolore, che ci toglie un peso, che ci risolve un problema. Il presepio c’insegna che il vero miracolo si trova esattamente dall’altra parte, dalla parte opposta, e cioè che il vero miracolo che Dio compie per l’uomo, il vero miracolo che Di fa alla donna, non è quello di risolvergli i problemi, di togliergli dei pesi, ma di aiutarlo a portarli con dignità, di portarli senza cercare fughe, sotterfugi, senza nascondersi. Questo è il Natale,il senso profondo del Natale, il messaggio autentico del Natale. Provarlo a vivere è il nostro compito.

sabato 20 dicembre 2014

L'AMORE CHE SI FA PAROLA (PENSIERO)


Paolo Cugini

C’è un nome che troviamo in tutte le letture di oggi: Davide. Lo troviamo nella profezia della prima lettura, dove il profeta Natan profetizza al re Davide la volontà di Dio di costruire sulla sua discendenza un’eredità eterna. E poi ci viene detto che Giuseppe, il padre di Gesù, è della dinastia di Davide. Tra le due narrazioni passano mille anni. E’ chiaramente il tema della fedeltà della Parola di Dio, che si mantiene fedele e la fedeltà, come sappiamo, è un tema cara alla riflessione biblica. Il problema è capire di che fedeltà si tratta, e cioè che cosa intende la Bibbia quando accenna a ciò.

 C’è sotteso, però, nelle letture di oggi, anche un altro tema e cioè quello del progetto di Dio. Che la nascita di Gesù corrisponda esattamente a quello che i profeti avevano annunciato mille anni prima vuole pure significare qualcosa. Una delle caratteristiche di Dio, oltre all’amore e alla misericordia, è il pensiero, è il fatto che Dio pensa, progetta. Un pensiero la cui forza non sta nel violare gli eventi storici per indirizzarli al suo volere, ma al contrario, nel saper recuperare, ricucire, rigenerare dal di dentro. Questa è la forza della Parola di Dio, che è una semente di eternità, che è capace di far fiorire il deserto, di trasformare armi di guerra in strumenti di lavoro e di pace, di risanare ciò che sembra irrimediabilmente perduto. E’ il pensiero di Dio che c’insegna a non avere fretta, ad attendere i tempi del Signore, a lasciare che le cose maturino, a non disperarci, quindi, se il presente non è carico di ciò che noi aspettiamo. Non a caso il Vangelo di Giovanni chiamerà Gesù il Logos, il pensiero, il Verbo, la Parola. Il pensiero che si esprime con la Parola e che si manifesta nella storia e parla con noi a tu per tu. Pensiero, Parola, significano che la vita non s’improvvisa, che non possiamo permetterci il rischio di lasciare ai sentimenti, alle passioni il diritto di guidarci. Accogliere il Pensiero che viene da Dio e che si manifesta nella sua Parola significa apprendere a lasciar plasmare le nostre passioni, le nostre tensioni dentro un disegno più grande, che va al di là dell’immediato.
L’altro tema presente nelle letture di oggi è quello della fedeltà.  Il problema sorge quando applichiamo alla Bibbia i nostri schemi di riferimento tipici della cultura Occidentale, che provengono da un percorso culturale molto differente da quello semitico. Per noi fedeltà s’identifica con un percorso progressivo e lineare, come la realizzazione di ciò che è stato progettato all’inizio. Fedele, nella prospettiva della nostra cultura, è colui o colei che vive fino in fondo ciò che ha scelto, senza incrinature. Fedeltà, in questa prospettiva, è sinonimo di durezza, capacità di rinuncia, fermezza. Tutto sembra essere determinato dalle capacità del singolo, dalla sua forza e chiarezza di obiettivi. Senza dubbio per essere fedeli a dei principi, a dei valori occorre anche questo, ma non solo.

Il problema è che guardando attentamente la Scrittura la fedeltà non appare mai come qualcosa di lineare, di progressivo. Sfogliando, infatti, la Bibbia, poche pagine dopo questa bellissima profezia, troviamo il re Davide coinvolto in un adulterio e in un omicidio. Andando ancora più avanti suo figlio Salomone, stimato da tutti per la sua grande saggezza, finisce gli anni della sua vita immerso nell’idolatria. Lo stesso Geroboamo, figlio di Salomone, non fa meglio del padre, anzi. In pochi anni riesce a fare ciò che nessun altro era riuscito e cioè a dividere il regno in due. Il percorso storico d’Israele è contrassegnato da una costante tendenza alla caduta, all’infedeltà, alla facilità di seduzione per i cammini diversi da quelli proposti dal Signore. La storia d’Israele è maestra di vita perché rivela il cuore dell’uomo e della donna, un cuore che ha difficoltà a rimanere fermo su ciò che gli viene proposto da Dio. C’è allora una debolezza nella struttura umana che la Bibbia conosce e che ci mostra senza pudori anche perché è a partire da questa presa di coscienza che è possibile cogliere la presenza di Dio nella storia e come si manifesta. Un autentico cammino spirituale illuminato dalla Parola di Dio, non ci rende duri, severi, giudici implacabili, ma misericordiosi, teneri, ricolmi da quella compassione che proviene dalla coscienza della nostra debolezza e, dall’altra, dall’esperienza della misericordia di Dio.  Dio è amore, perdono e misericordia perché è solo così che può essere risanata l’umanità ferita nel profondo dell’anima. Non esiste, allora, possibilità di fedeltà, come relazione autentica d’amore, se non dentro a questo mistero di misericordia di Dio. La spiritualità tipica dell’avvento c’introduce in questo cammino di passività spirituale che esige una grande forza d’animo: fare spazio, abbassare le pretese, affidarsi meno alle nostre forze e più alla misericordia del Signore.


Vivere l’avvento in questa prospettiva significa essere meno attenti e preoccupati all’effimero e più pronti a fare spazio al Signore che viene, per accoglierlo così com’è e non come vorremmo che fosse. 

venerdì 19 dicembre 2014

EVANGELIZZARE UN MONDO CORROTTO: PROVIAMOCI




Paolo Cugini

La notizia è recente: Italia prima in Europa per corruzione, sorpassando anche Bulgaria e Grecia. Un bel traguardo. Siamo al 69 posto, al pari del Brasile nella nuova graduatoria stilata da Transparency International, che indica il livello di corruzione dei Paesi nel mondo. La corruzione in diritto indica, in senso generico la condotta propria del pubblico ufficiale che riceve denaro (detta tangente) o altre utilità che non gli sono dovute, creando spesso un danno economico (cfr. Wikipedia). Anno dopo anno l’Italia sta scalando questo non invidiabile classifica raggiungendo dati allarmanti. Il problema, però, è che sembra non aver la minima intenzione di fermarsi. La settimana successiva, infatti, all’apparizione sui giornali di tutto il mondo di queste classifiche, è esploso il caso del comune di Roma, dell’infiltrazione della mafia nel potere politico della capitale. Certamente non c’era bisogno di scomodare Roma su questi temi. I casi dell’Expo di Milano, e di altri casi simili emersi nei mesi scorsi rivelano un percorso comune, una mentalità, che ormai è insinuata nel tessuto politico italiano da parecchi decenni.
E’ proprio di questa mentalità che mi pare necessario parlare, perché sembra ormai infiltrata dappertutto nel tessuto sociale italiano. Non possiamo più, infatti, identificare come facevamo un tempo, la corruzione con la politica o la mafia con il meridione. Troviamo casi di corruzione, di favori personali, di ricerca del proprio interesse e di uso del bene pubblico per avvantaggiarsi in molti settori. Allo stesso modo, di mafia se ne parla a Palermo come a Milano, al sud come al nord. Mentalità di corruzione che porta a cercare il proprio interesse a scapito del bene comune, a creare sotterfugi e menzogne pur di riuscire ad accaparrarsi un favore. Mentalità che troviamo nelle relazioni quotidiane, nel modo di pensare al bene comune, non più come patrimonio da gestire assieme, ma di depredare, usare, manipolare a proprio piacimento, sfruttare il più possibile e gli altri che si arrangino. Si capisce molto bene come questa mentalità sia antitetica al Vangelo, che invita invece a prendersi cura dell’altro, a donarsi gratuitamente. Viene da chiedersi: come può essersi formata una mentalità di questo genere in una nazione cattolica come l’Italia, che ha alle sue spalle secoli di evangelizzazione, che tutte le settimane vede sul campo eserciti di catechisti di quella chiesa che è presente sul territorio in modo capillare con le parrocchie. E’ veramente strano. Il sistema di corruzione che pervada tutti i settori della società e la mentalità mafiosa che è penetrata sino al nord deve porre dei forti interrogativi alle comunità cristiane. Se infatti, non si può parlate di connivenza – è quello che ci auguriamo – certamente il cammino della chiesa italiana di questi ultimi decenni è stato caratterizzato da troppi silenzi sul mondo politico ed economico. E’ vero che c’è chiesa e chiesa. C’è la chiesa che sta in prima linea, nelle parrocchie a contatto con la gente, camminando con loro: su questa chiesa possiamo stare tranquilli. C’è poi l’altra chiesa, quella dei palazzi, fatta di persone che troppo spesso non hanno contatto con la vita quotidiana, che prendono decisioni senza mai sporcarsi le mani. Di questa chiesa possiamo stare meno tranquilli. Questa chiesa dei palazzi è avvolta da troppi silenzi, da troppi misteri. In questa chiesa dei palazzi girano troppi soldi. E’ triste per tutti i cristiani che vivono un quotidiano sempre più caratterizzato dalla povertà, dalla disoccupazione e dalle difficoltà che nascono da simili contesti, leggere nei giornali la notizia di un noto cardinale che si è comprato un attico milionario nel centro di Roma. Che senso ha? Come si fa poi a motivare i fedeli alla condivisione, all’essenzialità della vita? Che cosa c’entra con il Vangelo? Perché è cardinale un tizio così?
Anche la chiesa, purtroppo, non è esente dalla mentalità mafiosa e corrotta. Non è necessario riferirsi al Vaticano, allo scandalo dello Ior che ogni tanto torna sulla scena. Non è nemmeno necessario scomodare gli inchini della madonna davanti alla casa del mafioso locale in alcune processioni del sud. Basta guardare al modo di gestire il denaro dei fedeli che avviene nelle nostre diocesi o nelle nostre parrocchie. Quante volte in un passato troppo recente i conti della parrocchia si sono identificati con quelli del parroco creando confusione dopo il suo decesso ( i soliti famelici parenti!). Quante volte tra i fedeli serpeggia il malcontento per i costi milionari della costruzione di edifici o la restaurazione di altri, voluti dall’alto, con una volontà pochissimo condivisa a non essere per la richiesta di finanziamenti. Viene da chiedersi se l’otto per mille sia davvero un bene per la chiesa o se, invece, sarebbero più evangeliche quelle forme di raccolta fondi più legati alla comunità locale, al coinvolgimento diretto dei fedeli, come avviene in altri paesi. Ci stiamo facendo ridere dietro, esattamente il contrario di quello che accadeva con le prime comunità cristiane. Vogliamo essere chiesa con la mentalità e con i soldi del mondo: non funziona.
Basterebbero alcuni piccoli accorgimenti per fare in modo che il Vangelo predicato dall’altare contagiasse le scelte economiche delle nostre parrocchie e delle nostre diocesi. In primo luogo un modo più dialogico (non ho scritto democratico, perché è una termine che in ambito ecclesiale suscita molte perplessità e antipatie: anche questo è già tutto un programma!) di prendere le decisioni, soprattutto quando si tratta di decidere su edifici sia di uso dei fedeli che di raccolte di denaro che li coinvolge. Perché i vescovi e anche molti preti fanno così fatica ad ascoltare i fedeli? Perché è così difficile creare degli spazi di ascolto su quei problemi che i laici sanno gestire molto meglio dei chierici? Quanti pasticci economici abbiamo dovuto accompagnare a causa di quell’incompetenza che poteva essere risolta fidandosi di quei tanti generosi e competenti laici che abbiamo nelle diocesi e nelle parrocchie! E si sa in mezzo ai pasticci i furbi (corrotti) gongolano.  In secondo luogo, basterebbe mettere in fondo alla chiesa tutti i mesi un foglietto con scritto quello che è entrato e quello che è uscito. Piccoli accorgimenti che, però, possono costituire passi enormi nel segno di quella trasparenza che invochiamo nella società e che ci permetterebbe di testimoniare con più vigore quel Vangelo che a volte, anche a causa delle nostre incoerenze, sembra un libro di fiabe per bambini.


giovedì 18 dicembre 2014

LA DEBOLEZZA DELLA FEDELTÀ'


Paolo Cugini


Si pensa che la fedeltà sia qualcosa di duro, di fisso, di stabile e irremovibile, ma in realtà non è proprio così. Abbiamo imparato a scuola a dividere la realtà per opposti, da una parte il bianco e dall’altra il nero, da un lato il forte e dall’altra il debole, in un canto il bello e dall’altro canto il brutto. Per stare bene noi, per rispondere a quel mostruoso bisogno di sicurezza che abbiamo dentro abbiamo sigillato la realtà, abbiamo deciso che essa sia dialettica, che sia dicotomica, che avvenga e si sviluppi per forze contrarie. Solo che la realtà non è così, perché ci sono i grigi e non solo il bianco e il nero, cioè la realtà si manifesta nella sa varietà, nella sua pluralità e se ne infischia dei nostri problemi, delle nostre insicurezze, dei nostri bisogni di sopravvivenza. Così è anche per la fedeltà, che è tutto fuorché una durezza, una resistenza, un sacrificio. In realtà sboccia da una fortissima esperienza d’amore, da una relazione d’amore. E non può essere che così perché solo l’amore è in grado di produrre la forza che ci fa proseguire il cammino nonostante tutto, nonostante le improvvise e numerose infiltrazioni negative della vita, che ci fanno dubitare, che s’insinuano nella mente invisibilmente ma insidiosamente e ci fanno dubitare, ci mettono in discussione ciò che sino a qualche tempo addietro era assolutamente indiscutibile. E andiamo avanti, nonostante tutto. E andiamo avanti perché dietro di noi, ragazzo mio, c’è il ricordo di quello che è stato l’origine di tutto, di quello che ad un certo punto ci è venuto incontro come una forza nuova, una forza creatrice, quella stessa forza che ha creato il mondo e che ha fatto si che tutto fosse, compresi noi. E allora, in questa prospettiva e per questa direzione la fedeltà diventa un continuo sforzo di memoria, di fare spazio all’amore originario affinché sappia trasformare il nostro presente, soprattutto quella materia ostica che incontriamo, quella materia resistente, quei frammenti di egoismo e di odio che incontriamo nella nostra vita, fare in modo che non siano loro a farci arretrare, ma avere la pazienza affinché l’amore che c’è in noi e che un giorno ci ha rigenerato, possa trasformare tutto. Si capisce, allora, come la fedeltà passi per periodi di grande timore, si capisce come l’esperienza d’amore nel tempo possa logorarsi, perdere di spessore, d’intensità. Si comprende allora che proprio questo rimanere nell’amore originario nonostante il deserto, si comprende che proprio questo stare, questo rimanere, questo essere spazio dell’amore in mezzo al deserto della vita che ci disorienta, ci lascia senza ragioni, questo rimanere lì in attesa di giorni migliori, sia sotto tutti i punti di vista la vera esperienza dell’amore Perché è troppo facile, ragazzi miei, amare da giovani; è troppo facile amare quando si è sconvolti dalla passione. E’ un gioco da ragazzi dire che si ama e che si è disposti a tutto quando si è nel bel mezzo della gioventù, quando si è nel bel mezzo dell’uragano delle passioni. Prova a dirlo quando non ci capisci più nulla. Prova parlare d’amore quando la vita ti asfalta con le malattie, quando la vita ti prova sovrapponendo delle altre passioni, quando la vita ti annebbia gli occhi con la sabbia delle incomprensioni. Rimanere lì sul proprio posto in questi momenti è il vero amore, è il segno che ciò che c’era all’origine di tutto era autentico, non era una fantasia. La fedeltà nella prova è affidamento e l’affidamento è amore puro perché non si attacca a nulla, perché non ha più dei punti di appoggio, perché in un certo senso non ci sono nemmeno i sentimenti, le passioni, anzi spesso e volentieri c’è il contrario, c’è il non senso, ci sono delle domande che nascono dentro che ci spezzano in due, che ci mettono in ginocchio. Rimanere in queste circostanze è l’amore allo stato puro, è pura gratuità, perché va oltre la ragione, anzi la sconfigge, perché tutta quella ragione che forma delle logiche razionali per farti fuggire dai lunghi anni di deserto della vita, viene letteralmente sconfitta dalla pazienza imperterrita e cosante del rimanere. L’amore è paziente dice san Paolo: è proprio così. Si riescono a cogliere queste autentiche verità solamente nel tempo, solamente dandosi tempo, solamente lungo l’esistenza. Perché all’inizio non si pensa così, all’inizio si pensa tutto sull’amore, ma non che sia così. Anche perché ci sono tutte le fiabe dell’infanzia e poi le favole dell’adolescenza, gli amore violenti della giovinezza quando si pensa che l’amore sia una forza. Nessuno all’inizio si aspetterebbe che l’amore in realtà sia una grande debolezza. Nessuno oserebbe pensare in gioventù che nell’amore puro non ci sia il sentimento. Nessuno oserebbe escludere il sentimento dall’amore puro. Eppure la vita c’insegna questo. Amare è l’essenza della vita: per questo siamo fedeli. Incontrare nel nostro cammino esistenziale qualcuno che c’insegni ad amare è il grande dono che la vita ci può fare: auguri!

mercoledì 17 dicembre 2014

MAFIA, CORRUZIONE E CHIESA


Paolo Cugini
La notizia è recente: Italia prima in Europa per corruzione, sorpassando anche Bulgaria e Grecia. Un bel traguardo. Siamo al 69 posto, al pari del Brasile nella nuova graduatoria stilata da Transparency International, che indica il livello di corruzione dei Paesi nel mondo. La corruzione in diritto indica, in senso generico la condotta propria del pubblico ufficiale che riceve denaro (detta tangente) o altre utilità che non gli sono dovute, creando spesso un danno economico (cfr. Wikipedia). Anno dopo anno l’Italia sta scalando questo non invidiabile classifica raggiungendo dati allarmanti. Il problema, però, è che sembra non aver la minima intenzione di fermarsi. La settimana successiva, infatti, all’apparizione sui giornali di tutto il mondo di queste classifiche, è esploso il caso del comune di Roma, dell’infiltrazione della mafia nel potere politico della capitale. Certamente non c’era bisogno di scomodare Roma su questi temi. I casi dell’Expo di Milano o delle nostre cooperative reggiane esplosi nei mesi scorsi rivelano un percorso comune, una mentalità, che ormai è insinuata nel tessuto politico italiano da parecchi decenni.
E’ proprio di questa mentalità che mi pare necessario parlare, perché sembra ormai infiltrata dappertutto nel tessuto sociale italiano. Non possiamo più, infatti, identificare come facevamo un tempo la corruzione con la politica o la mafia con il meridione. Troviamo casi di corruzione, di favori personali, di ricerca del proprio interesse e di uso del bene pubblico per avvantaggiarsi in molti settori. Allo stesso modo, di mafia se ne parla a Palermo come a Milano, al sud come al nord. Mentalità di corruzione che porta a cercare il proprio interesse a scapito del bene comune, a creare sotterfugi e menzogne pur di riuscire ad accaparrarsi un favore. Mentalità che troviamo nelle relazioni quotidiane, nel modo di pensare al bene comune, non più come patrimonio da gestire assieme, ma di depredare, usare, manipolare a proprio piacimento, sfruttare il più possibile e gli altri che si arrangino.

Anche la chiesa non è esente da questa infiltrazione. Non è necessario riferirsi al Vaticano, allo scandalo dello Ior che ogni tanto torna sulla scena. Non è nemmeno necessario scomodare gli inchini della madonna davanti alla casa del mafioso locale in alcune processioni del sud. Basta guardare al modo di gestire il denaro dei fedeli che avviene nelle nostre diocesi o nelle nostre parrocchie. Quante volte in un passato troppo recente i conti della parrocchia si sono identificati con quelli del parroco creando confusione dopo il suo decesso ( i soliti famelici parenti!). Quante volte tra i fedeli serpeggia il malcontento per i costi milionari della costruzione di edifici o la restaurazione di altri, voluti dall’alto, con una volontà pochissimo condivisa a non essere per la richiesta di finanziamenti.  

Basterebbero alcuni piccoli accorgimenti per fare in modo che il Vangelo predicato dall’altare contagiasse le scelte economiche delle nostre parrocchie e delle nostre diocesi. In primo luogo un modo più dialogico (non ho scritto democratico, perché è una termine che in ambito ecclesiale suscita molte perplessità e antipatie: anche questo è già tutto un programma!) di prendere le decisioni, soprattutto quando si tratta di decidere su edifici sia di uso dei fedeli che di raccolte di denaro che li coinvolge. In secondo luogo, basterebbe mettere in fondo alla chiesa tutti i mesi un foglietto con scritto quello che è entrato e quello che è uscito. Piccoli accorgimenti che, però, possono costituire passi enormi nel segno di quella trasparenza che invochiamo nella società e che ci permetterebbe di testimoniare con più vigore quel Vangelo che a volte, anche a causa delle nostre incoerenze, sembra un libro di fiabe per bambini.


IDENTITA' E AUTENTICITA'





IDENTITA’ E AUTENTICITA’ NELL’EPOCA DELLA POSTMODERNITA’

 Paolo Cugini
Diceva Zygmunt Bauman che nel mondo postmoderno non è bene assumere una identità, identificarsi con un ruolo, una situazione. Nella velocità dei cambiamenti postmoderni, che esigono una costante agilità di movimento per non correre il rischio di rimanere esclusi dalle nuove proposte, fissarsi su di una identità, come accadeva nell'epoca moderna, sarebbe una specie di suicidio esistenziale. La sfida che la cultura postmoderna sta ponendo alla dimensione esistenziale dell’individuo è sul significato dell’identità personale così com'è stata intesa e pensata sino ad ora. Oltre a ciò, in gioco c’è anche il tema dell’autenticità, considerata nell'epoca moderna come un riflesso dell’identità personale. Nella modernità, grazie all'influenza di autori come Cartesio e Rousseau, si è fatta strada l’dea che c’è un certo modo di essere uomo che è il mio modo. Fedeltà a se stessi, a ciò che si è colto come fondante nel cammino della propria esistenza, diviene un elemento fondamentale nell'idea di identità personale. C’è una sorta di voce interna con la quale non posso assolutamente perdere il contatto, se non voglio correre il rischio di perdermi e, così, di non essere più fedele a me stesso. E’ chiaro che questo discorso fa riferimento a valori morali percepiti o nella natura o nell'ambito religioso, che vengono sempre colti nell'ambito della dimensione interiore della persona.

 Charles Taylor, il pensatore canadese che più di ogni altro ha studiato di recente questo problema, ha mostrato la forza che l’idea di una voce interiore come riferimento valoriale del soggetto, ha preso piede nell'epoca moderna. “Essere fedele a me stesso – così scrive Taylor -  significa essere fedele alla mia propria originalità, la quale è qualcosa che io solo posso articolare e scoprire”. Trasferire questo discorso sul piano sociale conduce all'idea che l’identità personale, che fa riferimenti a valori morali colti nell'interiorità della persona, non deve farsi influenzare dall'esterno, non deve adattarsi alle richieste della conformità esteriore. L’uomo autentico, in questa prospettiva tipicamente idealista e moderna, è l’uomo che non cambia mai, è l’uomo fedele a se stesso, che obbedisce solamente alla voce della propria coscienza e ai valori colti nell'interiorità. La realizzazione personale sarà, allora, nell'ordine della fedeltà a se stesso e cioè ai valori colti nella propria interiorità e percepiti come assoluti.

Se il percorso che il cammino della ricerca dell’identità personale moderna compie è guidato dall'interiorità intesa come dimensione originale dell’universo personale, ben diverso è il percorso che la cultura postmoderna sta proponendo alle nuove generazioni. La velocità con la quale vengono immesse sul mercato le proposte, esige la mobilità della persona per potervi accedere. Per questo, come diceva Bauman, colui che è appesantito da identità fisse viene automaticamente tagliato fuori.  I criteri di formazione dell’identità personale nella postmodernità sono esattamente agli antipodi di quello che si riteneva valido nell’epoca moderna. Come, infatti, abbiamo visto, mentre l’identità dell’uomo moderno si costruisce nella dimensione interiore della persona, in costante difesa delle conformità ai modelli provenienti dall'esterno, l’identità personale nella post modernità vive e si alimenta delle continue provocazioni provenienti dall'esterno. Per questo nella post modernità non si può parlare di valori assoluti colti nell'interiorità e percepiti come obbligatorietà, ma di proposte relative che durano il tempo della loro validità sociale e che richiedono una capacità di assimilazione rapida. Ci si può chiedere se è possibile essere autentici all'interno di una simile cultura nella quale l’essere fedeli a se stessi non è più colto come un valore, ma un limite. E’ possibile, poi, essere felici, raggiungere la felicità che è lo scopo di ogni esistenza, in un quadro esistenziale nel quale non esiste alcun tipo di valore assoluto sul quale fondare le proprie scelte e orientare il proprio futuro?
Nella prospettiva postmoderna il futuro non esiste, perché ciò che esiste è unicamente il presente. E se l’unico spazio di realizzazione personale è il presente vale solamente ciò che può essere utile qui ed ora.  Diviene sempre più chiaro come la prospettiva postmoderna stia, giorno dopo giorno, cambiando il significato di ciò che è valore o disvalore per la vita. Valore è ciò di cui il soggetto ha bisogno, ciò che gli torna utile nella vita presente.


Quello che ho scritto sino ad ora può sembrare un gioco di parole, ma in realtà non lo è. Si tratta di capire dove viviamo e dove stiamo andando. C’è in atto uno scontro di generazioni. Da una parte ci sono i padri e le madri che sono nati in un contesto moderno, che ritiene autentica l’identità personale fondata su valori eterni trovati nella propria interiorità. Dall’altra ci sono le nuove generazioni, imbevute di cultura postmoderna, che dai valori passati non sono per niente attratti e che hanno appreso a vivere sfruttando al massimo le possibilità che il presente offre. E’ un dialogo tra sordi, che spesso e volentieri sfocia in incomprensioni; dialogo che potrà avvenire a patto di trovare una piattaforma comune nella quale si stabiliscano, come voleva Habermas, i codici di un discorso nel quale nessuno può trincerarsi dietro a pareri parziali e/o confessionali, e che ci sia lo sforzo e il desiderio di risolvere i problemi messi sul piatto della discussione. Il problema a questo punto è: chi potrà mediare un tale dialogo?

PER SEMPRE?





La relativizzazione dei valori assoluti e la perdita di significanza del fine

Paolo Cugini
E’ questo che oggi più che mai fa paura: il per sempre. Non solo fa paura, ma, ed è questo a mio avviso l’aspetto più inquietante e sul quale vale la pena fermarsi per riflettere, non è più sentito come qualcosa di necessario. Se infatti, un tempo non molto lontano l’identità personale, come ha spiegato il filosofo canadese Charles Taylor, si costituiva su delle scelte definitive e tutta la giovinezza era impostata per giungere a questi traguardi, oggi questo modello esistenziale non sembra più reggere. I diversi aspetti di quella che è chiamata la cultura postmoderna, che plasma giorno dopo giorno il tessuto del vivere quotidiano, sembra che vadano tutti nella stessa direzione, vale a dire la frammentazione dell’esistenza e un costante schiacciamento sul presente. La crisi delle ideologie moderne, la loro perdita di significato sul piano sociale va di pari passo con l’edonismo materiale prodotto dal consumismo dilagante su scala planetaria. Non si riesce più a capire, allora, a che cosa serva lo spirito e, di conseguenza, i significati profondi che da lui derivano, anche perché lo spirito e i suoi valori spingono l’uomo e la donna su quel piano che oggi sembra più che mai messo in discussione: l’eterno.
 La storia quotidiana delle giornate postmoderne si alimenta e si accontenta dell’immediato, non sente il bisogno di guardare avanti, di sacrificare quel presente del quale vuole usufruire il più possibile. Forse è questo uno degli aspetti nei quali è possibile verificare il passaggio epocale, vale a dire il modo di considerare il presente, di viverlo. Che cosa è avvenuto da modificare in modo così radicale la percezione del tempo? La caduta delle ideologie forti che avevano dominato la modernità da un lato e, dall’altro, la perdita di orizzonti ha progressivamente ripiegato gli sguardi sul tempo presente. Non è un caso se agli inizi degli anni novanta, immediatamente dopo il crollo del muro di Berlino, considerato come il simbolo del di tutta un’epoca, sono uscite varie opere che parlavano di fine della storia (tra gli altri posso segnalare i testi di J.  Fest, F. Fukuyama, G. Morra). Se non ci sono obiettivi per cui valga la pena investire la vita, se non rimane nient’altro che l’orizzonte delle nostre azioni quotidiane, allora la storia è svuotata di senso. Si avverano in questa prospettiva le parole di Nietzsche, il quale sosteneva che il senso della storia fosse la più machiavellica invenzione del cristianesimo che, riempendo di significato la storia, riusciva non solo ad ingannare gli uomini, ma anche e soprattutto a distoglierli dalla terra e dalle loro responsabilità.
Che cosa significa e quali conseguenze comporta lo schiacciamento esistenziale sul tempo presente, soprattutto in un tempo presente che non riesce a vedere all’orizzonte nessun futuro? Le nuove generazioni che sono nate in questo nuovo contesto culturale, assorbono ogni giorno gli stimoli del mondo consumista, che attrae anche nei paesi poveri. Se non ci sono più ideali, rimane la materia e quello che lei può stimolare, vale a direi sensi. L’anima riempita di materia lentamente, ma progressivamente, si svuota. Di questo processo di materializzazione culturale ne risentono tutti i livelli di una società. Prima fra tutte le relazioni interpersonali, non più basate sulla gratuità e il disinteresse, ma dalla quantità e dall'interesse. Ce lo ha ricordato in questi ultimi anni il sociologo polacco Bauman, il quale sostiene che, se è vero che i nuovi mezzi di comunicazione hanno aumentato esponenzialmente il numero di conoscenze, allo stesso tempo, però, ne hanno drasticamente minacciato la qualità. Non è vero, quindi, che la quantità non dice nulla; rivela invece un certo tipo di qualità. Nel mondo consumista, che trova sempre più spazio a causa dello svuotamento dei valori forti della cultura moderna, la quantità sostituisce giorno dopo giorno la qualità, e la pesantezza della vita si fa sentire nel vuoto che la materia crea lentamente dentro l’anima che l’accoglie. Per questo, forse, cerchiamo cose sempre più sofisticate, costruiamo cose sempre più grandi, cerchiamo la qualità della vita nella quantità della materia identificando in questo modo, qualità con quantità, l’essere con l’avere.
Come essere segno di valori eterni in un contesto in cui l’eterno non trova più spazio? Come annunciare la vita eterna, in un mondo nel quale esiste solamente la vita presente? Come essere segno di qualcosa di altro, quando il trascendente non trova posto nel quotidiano postmoderno? Soprattutto: come decidersi “per sempre” quando nel mondo postmoderno esiste solamente l’oggi? Come camminare verso scelte definitive quando non si riesce a vedere al di là del sensibile contingente?

Non possiamo più permetterci il lusso di ascoltare risposte sommarie e sbrigative, solo per toglierci di dosso il peso dell’angoscia dovuta all'insicurezza che l’attuale cultura porta con sé. E’ necessario cercare, percorrere nuove cammini, battere nuove strade per riuscire a cogliere quella novità che lo Spirito suggerisce nell'oggi della storia.  E, per questo cammino, occorre il coraggio di guardare avanti. 

GESÙ E LA SAMARITANA



Paolo Cugini
Introduzione. Le domeniche del tempo di quaresima del ciclo A ci offrono un cammino battesimale per aiutarci a riscoprire il senso del nostro essere cristiani. Ogni domenica la liturgia ci offre una tappa di un cammino che dovrebbe portarci a scoprire a che punto siamo nella nostra adesione al Signore e alla sua proposta di vita.
La terza domenica ci presenta il dialogo di Gesù con la Samaritana, che possiamo considerare una potentissima metafora esistenziale e spirituale sul senso della vita. Per poter cogliere il messaggio di questa pagina di vangelo è importante tentare di interpretare i personaggi messi in scena da Giovanni.
Samaritana. Chi è la Samaritana e, soprattutto, chi rappresenta? La Samaritana è il simbolo dell’umanità e cioè, in un certo senso ognuno di noi è quella Samaritana. Affinché il discorso fluisca nello svelamento dei suoi significati, dovremmo poter arrivare ad affermare: “quella Samaritana sono io”.
Il pozzo. La Samaritana va al pozzo perché ha sete. Che cosa significa questa sete? Indica la struttura carente della nostra esistenza. Per vivere abbiamo bisogno di qualcosa, di qualcuno. Durante tutta la nostra vita cerchiamo dei pozzi d’acqua che ci possano dissetare. Ne troviamo uno e poi, quando si esaurisce, andiamo alla ricerca di un altro. Tutta la nostra esistenza si può misurare nella dialettica tra sete e acqua, tra ricerca di senso e ideali che riempiano il significato cercato. La sete indica quindi un bisogno a più livelli di complessità: istintuale, spirituale, intellettuale. Siamo assetati: è questa la nostra caratteristica esistenziale e quindi siamo continuamente alla ricerca. Questa ricerca significa anche insoddisfazione, che spesso si sposa con frustrazione, perché l’acqua che troviamo non ci disseta. L’insoddisfazione genera poi un’inquietudine, che non ci lascia in pace sino a quando troviamo quello che andiamo cercando.
Gesù seduto al pozzo. Che cosa significa questa presenza di Gesù seduto al pozzo? Significa che Gesù conosce il nostro problema, conosce la nostra sete, sa delle nostre inquietudini e frustrazioni. E allora per poterci dire qualcosa sull’acqua che andiamo cercando, si mette a nostro livello, si fa assetato, si siede al pozzo e ci aspetta. Per fare cosa? Per ascoltarci e, nel dialogo, rivelare il senso del nostro smarrimento, il motivo della nostra sete. Questa immagine di Gesù al pozzo è una significativa metafora del rapporto educativo: ogni volta che vogliamo dire e insegnare qualcosa a qualcuno, dobbiamo scendere dal piedistallo e metterci al suo livello. La relazione precede il contenuto. L’incarnazione è il metodo da Dio scelto per comunicare il vangelo.
Cinque mariti. Chi sono questi cinque mariti della Samaritana? Che cosa significano? Sono il simbolo di una sequenza, di una ripetizione. Abbiamo sete e abbiamo fretta di dissetarci e, una volta trovato un pozzo, qualcosa che ci disseti, nonostante percepiamo che non ci disseta pienamente, che non risolve la nostra carenza, che non dà un significato alle nostre frustrazioni, abbiamo la tendenza ad andare sempre nello stesso pozzo. Ci accontentiamo dell’acqua marcia o sporca: l’importante è che ci tolga la sete del momento. C’è un’acqua che non disseta. E’ Gesù stesso che lo dice: “chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete”. La paura di soffrire, di sentire il dolore delle nostre carenze ci conduce ad accontentarci di quello che troviamo. Per non stare male adesso, ci riempiamo la pancia di qualcosa che progressivamente ci svuota e ci sfinisce. I cinque mariti sono il simbolo delle nostre esperienze affettive, o delle soddisfazioni che buttiamo sul lavoro, oppure dello sfogo nei vizi, nel gioco, ecc. Non si tratta di soluzioni, ma di ripetizioni. Sembriamo condannati a ripetere delle situazioni senza senso, inutili. C’è un’uscita a questa condanna?
Gesù è l’acqua che disseta. Possiamo comprendere l’identità di Gesù solamente se abbiamo sete, se siamo consapevoli della nostra sete, del fatto che per vivere abbiamo bisogno di acqua. Possiamo scoprire la profondità e allo stesso tempo, l’unicità della Parola di Gesù, solamente se siamo alla ricerca di qualcosa, di un senso della vita. Le persone sazie non si alzano in piedi per cercare quello che pensano di avere. Chi ha la pancia piena non si mette in cammino.
Durante questo tempo di quaresima dovremmo chiederci: di che cosa abbiamo sete? Che cosa stiamo cercando? Oppure dovemmo chiederci come mai non abbiamo più sete?
Finché toglieremo la sete con qualcosa che non disseta, nessuno si alzerà più per cercare un pozzo.
E se nessuno più cerca il pozzo, la chiesa, chiamata a zelare e custodire il pozzo, potrà vivere la tentazione di modificare il pozzo, trasformarlo in qualcosa di seducente, modificandolo in qualcosa che non è più un pozzo.
Preghiamo perché sappiamo coltivare la sete di Dio nelle persone e, allo stesso tempo, perché coloro che sono addetti a zelare del posso vincano la tentazione di trasformarlo in qualcosa d’altro.





PREPARIAMO LA VIA DEL SIGNORE




Paolo Cugini
1. Il tempo liturgico dell’Avvento presenta una sua spiritualità specifica, che viene presentata attraverso le letture. La liturgia c’insegna a vivere il nostro tempo, ad abitare la storia come luogo della manifestazione del Signore, a considerare quindi il tempo come pieno di significato, un significato che ci viene donato dall’alto e che quindi va continuamente ricercato. Il primo significativo insegnamento implicito nel tempo di Avvento che va evidenziato è quindi proprio questo: necessità per gli uomini e le donne di mettersi in cammino per cercare e trovare la pienezza del tempo. Se la pienezza del tempo, il significato della vita lo dobbiamo cercare significa che non ce l’abbiamo in tasca, che non lo conosciamo, che rimane nascosto. Mettersi in cammino, allora, richiede umiltà, docilità. Tempo di avvento diviene allora tempo nel quale con umiltà ci mettiamo in cammino per cercare un senso della vita, una pienezza del tempo che rimane sempre al di là delle nostre possibilità umane.

2.Preparate la via del Signore”. In questa prospettiva la Parola DI Dio c’insegna che questo cammino non può assolutamente essere improvvisato, ma va preparato con cura. Come si prepara allora, la via del Signore, il cammino che ci porta a Lui, vero Signore della storia? In che modo dobbiamo realizzare il percorso per arrivare a Lui e riconoscerlo per inginocchiarci davanti a Lui e non davanti ad altri? Questa, è infatti, la verità che ci vuole indicare la liturgia di oggi. Non basta mettersi in cammino: dipende che cammino realizziamo. Non basta la volontà di cercare il Signore: dipende come lo cerchiamo. La figura di riferimento della seconda domenica di Avvento che ci deve orientare sul cammino da compiere è Giovanni Battista. E’, infatti, lui il precursore, colui che sin dall’eternità è stato indicato come annunciatore del messia, colme colui che avrebbe indicato all’umanità il salvatore del mondo. Nel cammino alla ricerca del Signore della storia abbiamo bisogno di una guida e questa guida è Giovanni Battista.  Il Vangelo ci dice che Giovanni Battista si è preparato a questo incontro vivendo nel deserto e con uno stile di vita sobrio ed essenziale. Sono due indicazioni significative che vanno prese sul serio. Deserto vuole dire silenzio, e il silenzio è il cammino per apprendere ad ascoltare, se stesso, gli altri, Dio. Nel silenzio verifichiamo lo spessore della nostra fede, la verità delle parole, l’autenticità di ciò che seguiamo. Nel silenzio impariamo anche a conoscere noi stessi, le nostre forze, la nostra possibilità di sopravvivere nelle difficoltà. Nel deserto non possiamo barare, o nasconderci dietro a qualcosa perché nel deserto non c’è nulla. E’ in questo vuoto esteriore che diviene progressivamente interiore che possiamo riconoscere una voce, diversa, che viene da altrove e, quindi, ascoltarla. Questo percorso esistenziale nel deserto quando è fatto con autenticità lentamente ci spoglia. Il fatto che Il Vangelo sottolinei gli abiti estremamente sobri di Giovanni Battista nel deserto non è un vezzo letterario, ma una profonda indicazione spirituale. La verità della nostra ricerca di Dio si manifesta nel nostro stile di vita. La sobrietà, l’essenzialità diventano nostre compagne di viaggio in questo cammino che dura tutta la vita.


3.Viene dopo di me colui che è più forte di me”. Quali sono i frutti dell’autenticità del cammino? Come posiamo capire se il cammino che stiamo realizzando è guidato dallo Spirito del Signore? Leggendo attentamente il Vangelo possiamo dire: la verità del nostro cammino si manifesta nella chiarezza che progressivamente avviene sulla nostra identità.  Giovanni Battista dichiara che lui non è il messia ma che verrà dopo di lui. Non ci sono parole di sfida, d’invidia, di gelosia, ma solo il riconoscimento del proprio ruolo e dell’identità di colui che annuncia. La verità del nostro cammino di fede si manifesta quando apprendiamo a stare dove il Signore ci vuole mettere, quando non ci allarghiamo, quando non desideriamo di essere ciò che non siamo, quando non invidiamo la vita di nessuno, ma siamo contenti di ciò che siamo, perché riconosciamo la nostra situazione come manifestazione della volontà di Dio. La pace interiore, la gioia come caratteristica del cristiano provengono proprio da questa coscienza di sé e non dipendono da fattori esterni. Mettiamoci, allora in cammino, per cercare ogni giorno 

martedì 16 dicembre 2014

DECLINO E MINORANZA










 Paolo Cugini
Sono da pochi giorni a Reggio e ne approfitto per girare in bicicletta ed osservare le novità, i cambiamenti. E, mentre giro, penso. Rimango affascinato dai campi di grano pieni di papaveri e dal colore dell’erba. Ho trascorso gli ultimi anni della mia vita in una regione del Brasile dove piove pochissimo e la terra é arida. A Pintadas, la parrocchia che ho accompagnato dal 2010 al 2013, negli ultimi tre anni non é mai piovuto, la terra é secca e il bestiame muore. E poi rimango affascinato dalle strade, le ferrovie, i servizi pubblici, i parchi, i percorsi per le biciclette e tanto altro. Bisognerebbe uscire ogni tanto dal proprio orticello per apprendere ad apprezzare quello che si ha.
L’unica cosa che mi ha colpito negativamente in questi miei primi viaggi perlustrativi a cavallo della mi bicicletta, sono le chiese abbandonate. Sono, infatti, passato davanti ad alcune chiese di alcuni paesini e ho visto l’evidente degrado delle strutture ecclesiali come oratori, cinema e chiese, dovute all'abbandono. Mi sono fermato dinnanzi ad alcuni di questi edifici e, oltre a fare alcune foto, ho riflettuto e mi sono interrogato sui motivi di questo abbandono, che assume l’aspetto triste del declino. Quegli spazi ora abbandonati sono stati senza dubbio in passato riempiti da bambini e adulti nel normale cammino della vita parrocchiale. Quanti preti hanno lavorato con entusiasmo in quei locali ora abbandonati; quanti catechisti e adulti si sono prodigati per organizzare la catechesi, feste con i bambini, momenti aggregativi e di preghiera. Perché adesso tutto sembra abbandonato? Che cosa é successo? La prima risposta che mi viene in mente, mentre passo dinanzi alla casa parrocchiale anch'essa abbandonata, è che adesso non c’é più il prete. Le parrocchie italiane dipendono dalla presenza del prete, senza di lui tutto svanisce. Se non c’é il prete non si celebra alla domenica. Mentre osservavo questo triste spettacolo mi venivano alla mente le piccole comunità di base che ho accompagnato per tanti anni in Brasile. Alla domenica le persone delle piccole comunità di base si riuniscono nella cappella o a casa di qualcuno per celebrare il giorno del Signore, perché la loro fede non dipende dal sacerdote. Sono stati abituati a fare così, ad organizzare la vita della comunità prendendosi le loro responsabilità, organizzando il catechismo per i loro figli, formando gruppi giovani dove i numeri lo permettono, celebrando le novene dei loro santi, le devozioni mariane e  trovandosi una volta alla settimana per leggere e riflettere sulla Parola di Dio. Il sacerdote in questi contesti passa ogni tanto nelle comunità a celebrare l’Eucaristia, e soprattutto, si preoccupa con la formazione dei laici, organizzando corsi per i catechisti e i ministri della Parola e dell’Eucarestia. E così, quando il prete non c’é le comunità soffrono, ma non muoiono: é questo che ho visto in Brasile.
Le chiese e le parrocchie abbandonate sono anche il segno evidente di un fatto: il declino inarrestabile della chiesa cattolica o per lo meno della chiesa così come si é imposta nel mondo Occidentale. É quello che gli storici e i filosofi chiamano di fine della cristianità. Le chiese chiuse non solo nelle campagne, ma anche in città, le chiese date ad altri gruppi religiosi come gli Ortodossi, o le chiese date per fare delle mostre artistiche, sono sempre di più il segno di questo inarrestabile declino di un modo di essere presente nel mondo, che ha caratterizzato la Chiesa Cattolica sino ad ora. Ci stiamo ritirando perché non abbiamo più i numeri e le forze per mantenere in piedi la struttura che ha caratterizzando il nostro modo di essere chiesa.  Se sino a qualche tempo fa la fine della cristianità non era presa molto sul serio, perché sembrava solo un’analisi di qualche filosofo svitato, adesso si tratta di una constatazione sempre più evidente: é un dato di fatto che sta sotto gli occhi di tutti.
Come vivere la fede in un tempo di fine della cristianità? Detto in un modo più semplice: come vivere la fede in un contesto di marginalità, di minoranza? Contiamo sempre meno non solo dal punto di vista numerico, ma anche sociale, politico e culturale. Sempre più le persone vivono e si organizzano indipendentemente dalla proposta religiosa. Siamo stati abituati a viver la mostra fede in un contesto in cui tutto ruotava attorno al campanile e chi non viveva in questo stile era visto male e, lui stesso si sentiva male. Adesso molta gente vive bene e sta bene anche senza frequentare i locali delle parrocchie.
Non basta prendere coscienza di questo passaggio storico ed epocale, ma bisogna fare qualcosa. L’impressione che sto avendo in questi giorni é che ci stiamo lentamente lasciando seppellire dalla storia. É come se non volessimo vedere, sentire i rumori dello sgretolio dell’edificio che sta venendo giú e quindi rischiamo di morire sommersi dalle macerie. Mi sembra questa la tendenza dei nostalgici: non accettare la realtà e quindi ripristinare le forme del passato, per vivere come se non stesse succedendo nulla. I preti sono sempre meno e sempre piú vecchi e da loro si esige che mantengano i servizi di un tempo. Se un prete non passa nelle case per fare le benedizioni é considerato con disprezzo dai parrocchiani. Allo stesso tempo, ancora oggi i laici nelle nostre parrocchie non contano quasi nulla o meglio, contano nella misura in cui possono svolgere il compito affidatogli dal parroco. Nonostante siamo dinnanzi ad un evidente passaggio epocale, che esigerebbe scelte pastorali significative, viviamo nello stesso sistema di un tempo: gerarchia ecclesiale tutta schierata da una parte e il popolo di Dio dall'altra. Ci stiamo massacrando da soli.


 Per coloro che invece si lasciano guidare dallo Spirito Santo la fine della cristianità può diventare una grandissima occasione per riscoprire le nostre origini. Nel Vangelo i cristiani non sono mai chiamati a contare qualcosa nella società, ma ad essere fermento nella massa, sale della terra. Nell'ultima cena Gesù avverte i suoi discepoli che saranno odiati dal mondo, che saranno perseguitati e che dovranno apprendere a rallegrarsi di ciò. Il cristianesimo nasce come un piccolo granello di senapa, come un tesoro nascosto. C’é tutta una spiritualità del nascondimento che permea le pagine del Vangelo, che possiamo recuperare in questa nuova fase della storia. Abbandonando i posti di comando la Chiesa potrà sempre di più vivere della conoscenza del suo Signore, lasciandosi guidare dallo Spirito Santo per creare la comunità dei fratelli e delle sorelle. E così, invece di organizzare crociate per costringere alla conversione i popoli, potrà succedere quello che avveniva all'inizio dell’era cristiana: vedendo come i cristiani si amavano e come condividevano, molta gente si avvicinava a loro chiedendo di poter far parte della comunità. La fine della cristianità può rappresentare per noi discepoli e discepole del Signore una grandissima occasione per realizzare la profezia di Isaia che diceva: “Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti” (Is 2, 2).

MENTRE ANDAVANO PER LA STRADA





RIFLESSIONI SUL SENSO DELL’EVANGELIZZAZIONE

Paolo Cugini

Mentre andavano per la strada…”. E’ un versetto che dice molto sullo stile di Gesù. E’ significativo che il verbo andare sia al plurale. L’annuncio del Vangelo, così come l’ha pensato Gesù, non è qualcosa per eremiti, ma è anzitutto comunione, cioè è una questione d’amore. L’amore esige l’altro, il fratello e la sorella. La comunione indica anche percorsi di relazione, di attenzione all’altro, di cura. E allora il verbo al plurale è molto più che una semplice questione grammaticale, ma più che altro esistenziale, spirituale. Stiamo bene al mondo quando amiamo qualcuno, quando andiamo per le strade della vita con qualcuno al fianco, quando ci sentiamo amati da qualcuno, ci sentiamo importanti per qualcuno e quando, allo stesso tempo, diamo importanza con il nostro amore a qualcuno. L’andare di Gesù perle strade è prima di tutto questo camminare assieme, che dice della condivisione con qualcuno di un percorso e che questo percorso diventa vuoto se fatto da solo.
Sappiamo poi, leggendo i vangeli, che la compagnia di Gesù non era solo costituita da dodici uomini, ma anche da donne. Realizziamo la nostra umanità in un rapporto di reciprocità. L’incontro dell’uomo con la donna e della donna con l’uomo e del genere nel senso più ampio possibile, non è solo un problema di finalità, di progettualità, ma di umanità. C’è un’attrazione reciproca che non può essere ostacolata, ma va accompagnata per il nostro bene esistenziale, spirituale. L’umanità soffre quando questo incontro non avviene o quando è ostacolato per motivi culturali, spirituali (?), ecclesiali (?), pre-concettuali. L’annuncio del Vangelo come incontro nella reciprocità, come cammino verso l’altro, come attenzione al genere è una buona notizia per il mondo.
Il fatto poi che i discepoli e le discepole di Gesù andavano, significa anche che durante il percorso sperimentavano non solo la reciprocità, ma anche la diversità. Dai pochi dati che abbiamo nei vangeli sappiamo che lo sforzo di Gesù con i discepoli e le discepole non è stato indirizzato a metterli tutti dentro uno stesso modello. Durante il cammino Gesù ha accompagnato, conosciuto e valorizzato le singole diversità. Tra i discepoli e le discepole di Gesù c’era di tutto. Alla fine del percorso e cioè ai piedi della croce, c’erano tutti loro ognuno con le proprie caratteristiche, ognuno con la propria umanità. Dopo la Resurrezione li ha uniti l’unico obiettivo di annunciare il Vangelo, ognuno con quelle caratteristiche emerse durante il cammino con il Maestro.
Il cammino significa lentezza, tempo disponibile per dialogare, ascoltare, rispondere. Camminare con gli amici e le amiche significa darsi tempo per conoscersi e farsi conoscere. Gesù ha permesso ai suoi amici e amiche di conoscerlo camminando con loro. Si è dato il tempo per questo, per l’ascolto e la conoscenza dell’altro. Evangelizzare passa anche per questo piccolissimo, ma significativo dettaglio.  L’unico progetto visibile nell’attività pubblica di Gesù è quello di dirigersi a Gerusalemme. Per il resto cammina con i suoi discepoli e discepole. Mentre cammina entra nei villaggi che incontra, spiega la Parola e guarisce le persone ammalate. Si percepisce una grandissima libertà di movimento e nessuna istituzionalizzazione. Anzi, se volgiamo proprio dirla tutta fino in fondo, sono evidenti le polemiche di Gesù con il potere religioso, con le istituzioni religiose. Non c’è in tutto il Vangelo una sola parola positiva sulle istituzioni religiose: è un caso, un dettaglio, o un’indicazione programmatica?
Mentre camminava con i suoi discepoli e discepole Gesù ha annunciato il Regno di Dio, regno di pace, di giustizia, di comunione. Ha realizzato questo annuncio spiegando la Parola, curando gli ammalati, condividendo la vita quotidiana con coloro che lo seguivano. In nessun momento nei vangeli si dice che Gesù avesse celebrato dei riti. Forse l’unico rito al quale partecipa è quello accennato al capitolo quarto del Vangelo di Luca, che narra l’inizio della sua attività pubblica. In quella situazione Gesù si alzò per spiegare la Parola. Gesù annunciò la Buona Novella senza celebrare riti e, soprattutto, senza inventarne alcuno. Rito, infatti, rimanda ad un’istituzione che Intende preservare qualcosa che ritiene valido. Gesù ha annunciato il Vangelo sulla strada, inventando, creando l’annuncio a partire dal contesto nel quale si trovava, senza far riferimento a schemi rituali istituzionalizzati. Anche questi non sono dettagli da poco.

 Il testo preso come riferimento della riflessione dice che andavano per la strada. Gesù con la sua comunità ha annunciato la buona notizia sulla strada, mentre andavano, in cammino. Non si sono stabilizzati. Gesù non ha costruito una struttura per accogliere la sua comunità e dei luoghi sacri per celebrare i suoi riti. La strada è luogo d’incontro non di persone che scegliamo, ma che semplicemente incontriamo. La strada dice di una costante disponibilità alla novità dell’altro.  Gesù ha evangelizzato non parlando sempre alle stesse persone per tutta la durata della sua vita pubblica, ma a quelle che incontrava nel cammino. E’ dalla strada che Gesù ha guardato il mondo, la storia, il suo tempo. Il punto che Gesù sceglie per guardare il mondo non è di poco conto. Sarebbe stato tutto un altro Vangelo se Gesù avesse annunciato il Regno dal palazzo del re. Lo ha annunciato dalla strada. Forse è per questo che è venuto fuori quella roba strana che anche oggi facciamo fatica a capire e a vivere.